Educazione. Cari genitori, non voglio essere la vostra fotocopia

Cari genitori, non voglio essere la vostra fotocopia

avvenire.it

Quarant’anni di ricerca, di studio e di esperienza dalla parte dei genitori, a rimetterli in quadro in un compito tanto entusiasmante quanto complicato qual è l’educazione dei figli. Quarant’anni ad aprire gli orizzonti di mamme e papà sui loro compiti, a incoraggiarli a fare le mosse giuste, tenere le giuste distanze, mettere paletti, costruire regole chiare e buone abitudini, superare la confusione con l’organizzazione, evitare le urlate, le punizioni e gli spiegoni. Il sapere del professionista, la determinazione dell’educatore, il piglio dell’appassionato, Daniele Novara ha un mantra che lo accompagna da sempre: sostenere gli adulti richiamandoli al senso della responsabilità educativa, a un progetto condiviso che vada oltre le buone intenzioni, l’improvvisazione e il semplice accudimento.

Ora però, dopo aver speso miliardi di parole sulla manutenzione delle faticose relazioni tra i piccoli tiranni e i fragili genitori, eccolo aprire un capitolo laterale di indagine che ha a che fare con l’educazione che abbiamo ricevuto durante l’infanzia e gli adulti che siamo diventati. L’impronta che spesso non ci ha lasciato spazi di manovra nel crescere e vivere la vita che avremmo voluto. È perentorio, quasi un giuramento, il titolo del suo ultimo libro, appena approdato in libreria, Non sarò la tua copia (edizioni Bur; pagine 222) e un sottotitolo confortante Liberarsi dai pesi dell’infanzia per costruire la vita che desideriamo, un manuale di saggista narrativa (come lo definisce lui) che prosegue il percorso sulle tracce del nostro passato dei tasti dolenti e la rielaborazione delle ferite infantili.

«È importante – spiega Daniele Novara – dopo l’adolescenza, nell’età adulta confrontarsi con l’educazione ricevuta resistendo alla tentazione di edulcorarla. L’infanzia non è un territorio di libertà e di spontaneità, i figli sono dentro la bolla educativa dei genitori, come è naturale che sia. Le scelte dei genitori e le loro aspettative ci condizionano e ce le portiamo appresso tutta la vita, i margini di manovra dobbiamo cercarli noi. Il fatto è che spesso la mancanza di memoria e di ricordi infantili ci portano a edulcorare, nascondere e rimuove dietro il luogo comune dell’infanzia meravigliosa quello che chiamo il copione educativo. Un atteggiamento ingenuo e ingiusto verso sé stessi. Cosa diversa dall’educazione che coinvolge oltre ai genitori anche la scuola e gli amici, il copione è una consegna, una specie di prescrizione che ti sta addosso come una seconda pelle e da cui è difficile sganciarsi. Ma bisogna farlo».

Significa che i genitori consegnano involontariamente ai figli non solo un patrimonio genetico e psicologico ma anche uno stile implicito in una serie di scelte quotidiane spontanee che li definisce e modella la loro vita concretamente, come in uno stampo. È quello che Donald Winnicott definiva il tragico “falso sé”, l’adesione a quell’abito confezionato per i figli e indossato nell’infanzia per il desiderio di compiacere i genitori. Crescere però significa cercare il “vero sé”, la propria autenticità attraverso la propria libertà di scelta.

La storia di ieri e dei nostri giorni è piena di esistenze plasmate più o meno violentemente sui desideri e le aspirazioni di padri e madri. Accanto alle testimonianze personali di gente comune raccolte professionalmente, Novara racconta i casi dolorosi ed eclatanti di Mozart e di Picasso, del tennista Andre Agassi costretto dal padre a intraprendere una strada che lui non voleva, anzi odiava, del padre padrone di Gavino Ledda. E cita le lettere, mai consegnate, che Kafka e Simenon hanno scritto al padre e alla madre, la denuncia di una educazione autoritaria e pesantemente svilente l’una, fredda, distaccata e assente l’altra. Entrambe causa di grandi sofferenze. E commenta le affermazioni recenti dello stesso Jannik Sinner, talento precoce e grandissimo campione di tennis che dichiara in proposito la propria libertà di scelta. Forse tralasciando il racconto di quanta approvazione e consenso abbia goduto dai genitori per affrontare questo sport intrapreso da bambino. «Nessuno da bambino ha libertà di scelta e ammetterlo significa anche riconoscere che non tutto passa attraverso insegnamenti palesi, diretti e decisi».

Anche Daniele Novara non esita a raccontare il lavoro personale intrapreso per mettere a fuoco con sguardo lucido e fare i conti con il proprio copione educativo di figlio unico in una famiglia di origine contadina dell’Italia primi anni Sessanta abbarbicata alla convinzione che i figli dovessero ascoltare, obbedire ed essere utili alle necessità familiari.

«Si tratta di una ricerca che ho impostato, umanamente e scientificamente, nella seconda parte della mia vita – spiega – quando ho capito che dovevo andare oltre la ribellione alle istanze dei miei genitori. Sganciarmi dalla visione della vita dei miei in cui ero incastrato. Percepivo che tante parti di me non erano chiare né sotto controllo. Sentivo il bisogno di aprire un confronto sull’educazione ricevuta, di riconoscere le zone d’ombra di cui non ero consapevole». Sganciarsi significa emanciparsi, attraverso un percorso che normalmente, se non ci sono stati genitori particolarmente patologici, si può intraprendere da soli. Tanto più quando da figli si diventa a propria volta genitori e si deve chiudere la catena. È un momento straordinario per occuparsi al massimo della propria crescita personale per non proiettare sui figli i nostri conti in sospeso. E creare nuove vittime.

Novara fornisce tanti assist, le mosse giuste utili a far luce sulle impronte ricevute e trovare la propria svolta. «Non si tratta di ribellarsi tout court, di cercare adesioni o risarcimenti ma di riconoscere il proprio copione e fare chiarezza con coraggio per poter andare oltre. Oltre la rielaborazione passiva del tipo “Con me ha funzionato, faccio uguale» e oltre quella speculare, «con i miei figli faccio l’opposto di quello che ho subito dai miei». Io credo nella rielaborazione consapevole, «Riconosco come mi hanno cresciuto e cambio ciò in cui non mi ritrovo». Danilo Dolci ripeterebbe la propria convinzione che «ciascuno cresce solo se sognato». A patto che i sogni non siano l’implacabile e soffocante realizzazione di quelli mancati dei propri genitori.

L’incontro. Papa Francesco alle suore: aiutate le famiglie ad avere figli

«In Europa invece dei figli preferiscono avere i cani, i gatti… ». E alle religiose canossiane: attente alla crisi di mezza età, non scivolate nell’attivismo: allora non si è più donne della Parola
Papa Francesco all'incontro con le suore canossiane

Papa Francesco all’incontro con le suore canossiane – Vatican Media

Papa Francesco mette in guardia le religiose dalle crisi di mezza età perché è la “fase delle maggiori responsabilità” ma è più facile “scivolare nell’attivismo”, diventando non più “donne della Parola” ma “donne del computer, donne del telefono, donne dell’agenda, e così via”. Ricevendo in udienza le partecipanti al Capitolo Generale delle Figlie della Carità Canossiane, il Pontefice ha spiegato che le suore “anziane possono testimoniare alle giovani uno stupore che non viene meno, una riconoscenza che cresce con l’età, un’accoglienza della Parola che si fa sempre più piena, più concreta, più incarnata nella vita. E le giovani possono
testimoniare alle anziane l’entusiasmo delle scoperte, gli slanci del cuore che, nel silenzio, impara a risuonare con la Parola, a lasciarsi sorprendere, anche mettere in discussione, per crescere alla scuola del Maestro”. (IL TESTO)

“E quelle di mezza età? Sono più a rischio”, ha sottolineato Francesco. “Sia perché quella è un’età di passaggio, con alcune insidie; le crisi dei 40-45, le conoscete”, ma “soprattutto perché è la fase delle maggiori responsabilità ed è facile scivolare nell’attivismo, anche senza accorgersi. E allora non si è più donne della Parola, ma donne del computer, donne del telefono, donne dell’agenda, e così via”.

“Dunque, ben venga questo motto per tutte! Per mettersi nuovamente alla scuola di Maria, ri-centrarsi sulla Parola ed essere donne ‘che amano senza misura’. La parola al centro, non l’attivismo”, ha aggiunto a braccio. “Parola e non chiacchiericcio”, ha precisato ricordando il rimedio per non cadere nel chiacchiericcio che “uccide le comunità”: “Se hai tentazione di chiacchierare delle altre, morditi la lingua, la lingua si gonfia e non potrai parlare…”.

Il Papa è tornato a porre l’attenzione anche sulla crisi demografica, con un appello pronunciato a braccio al termine dell’incontro: “Per favore, aiutate le famiglie ad avere figli“. Il Pontefice ha parlato dell’inverno demografico in Europa, “invece dei figli preferiscono avere i cani, i gatti. È un po’ un affetto programmato”, ha sottolineato, “un affetto senza problemi”. “Questa è una cosa brutta. Per favore aiutate le famiglie ad avere dei figli. È un problema umano ma è anche un problema patriottico”.

Da Avvenire

Chi odia vede le cose sempre e soltanto dal suo punto di vista, la sua narrazione è unilaterale

Davanti a uno scenario drammatico, fatto di guerra cruenta, di mamme che uccidono i figli e di figli che uccidono i genitori, uomini che uccidono le donne e che talvolta si tolgono la vita, ci interroghiamo su diversi aspetti. Uno in particolare mi sembra ricorrente nelle domande della gente: come si può arrivare a odiare in modo così efferato? Come l’amore, anche l’odio ha diverse sfumature e gradualità e, proprio come l’amore, dice che una relazione c’è, ma non funziona più: l’altro non è più oggetto di cura, ma è oggetto di un sentimento che mira alla distruzione dell’altro. L’odio è infatti un’avversione portata al punto da volere il male di un’altra persona. A differenza dell’ira, che con il tempo può anche scemare, l’odio rimane tale fino a quando non ha raggiunto il suo obiettivo: l’eliminazione dell’avversario!

L’odio, infatti, non si concentra su un particolare, non nasce da un aspetto che infastidisce, ma è sempre caratterizzato da un’avversione generalizzata. All’origine ci sono certamente altre emozioni che portano a sviluppare l’odio: all’inizio ci può essere per esempio l’invidia o la paura della minaccia o un bisogno, sentito importante, e che l’altra persona non ha soddisfatto. Chi odia vede le cose sempre e soltanto dal suo punto di vista, la sua narrazione è unilaterale e quindi distorta. Purtroppo, chi odia, sperimenta anche una sorta di piacere. Proprio per questo l’odio non si spegne facilmente. Chi odia gode al pensiero della distruzione dell’altro, anzi può arrivare a fare dell’odio una ragione di vita. In realtà l’odio corrode dall’interno chi lo prova. In genere coloro che sono portati a odiare, hanno una bassa autostima.

Chi odia è di solito un narcisista che ha una concezione grandiosa di sé e proprio per questo teme che qualcuno possa metterla in discussione. Sapendo di non poter obbligare l’altro ad amare, si esercita il potere su di lui trasformandolo in oggetto dell’odio. È evidente quindi che l’odio è strettamente legato al potere, di cui è una manifestazione distorta. Capiamo bene quindi che una volta arrivati a odiare o una volta che siamo oggetto dell’odio è molto difficile tornare indietro. Bisogna necessariamente pensarci prima.

Famiglia Cristiana

Crisi economica e nascite. Se la crisi lascia in eredità la «paura» del secondo figlio

Se la crisi lascia in eredità la «paura» del secondo figlio

La crisi economica ha giocato un ruolo determinante nel crollo delle nascite che interessa l’Italia. Per intuirlo non sono necessarie ricerche particolari. Tuttavia indagare a fondo come e perché le difficoltà hanno trasformato la composizione delle famiglie e le attese delle coppie può fornire indicazioni molto importanti. Un contributo in questo senso arriva da un ricerca fresca di pubblicazione che ha cercato di capire come mai tra il 2002 e il 2012, cioè nel decennio che va dal periodo precedente la crisi del 2007-2008 alle prime tre recessioni successive, molte madri hanno deciso di non avere un secondo figlio. Quello che emerge è abbastanza sorprendente: la crisi non ha aumentato le disuguaglianze, al contrario ha avvicinato le donne di diverse condizioni sociali nella rinuncia ad avere una famiglia numerosa.

L’insicurezza e la sfiducia, insomma, hanno livellato verso il basso l’universo delle madri, contagiando anche chi non ha sperimentato direttamente problemi economici.

La prospettiva del secondo figlio, come angolatura di analisi, ha un forte valore. Il calo delle nascite che affligge il nostro Paese quasi alla stregua di una malattia cronica si deve da un lato all’aumento del numero di donne in età riproduttiva che non diventano madri, percentuale che ha ormai superato il 20%, ma in parte maggiore è dovuto alla rinuncia ad avere il secondo e soprattutto il terzo figlio e oltre. Il calo della natalità è in sostanza un problema di fratelli che mancano, non solo di donne e uomini che non diventano genitori, anche se questo aspetto si sta comunque affermando sempre di più. La ricerca a cura di Francesca Fiori ed Elspeth Graham, dell’Università di St Andrews nel Regno Unito, e di Francesca Rinesi dell’Istat (goo.gl/eKyk4z) rivela proprio che in un decennio la percentuale di madri che esprimono l’intenzione di fermarsi al figlio unico è salita dal 21% al 25%.

Ma che cosa è cambiato negli anni della Grande Crisi? L’aspetto forse più importante da rilevare è il fatto che la rinuncia al secondo figlio non riguarda più solo una categoria specifica di donne che sperimenta una condizione particolare, si tratti di una difficoltà economica ovvero della decisione di puntare a una carriera importante: la percezione di insicurezza diffusa, di paura di andare incontro a problemi in futuro, ha come cancellato le differenze. Prima della crisi la ‘rinuncia’ a una famiglia numerosa, in termini di intenzioni, riguardava più le donne con bassa istruzione o chi aveva contratti a termine, o ancora le disoccupate; durante la crisi la probabilità di non volere un secondo figlio ha interessato sempre di più anche le donne con media o alta istruzione, con contratti di lavoro stabili, le casalinghe, e in particolar modo le ragazze più giovani. La motivazione economica è diventata rapidamente la ragione principale per dire no al secondo figlio (dal 16,7% al 25,8% dei casi), seguita dal fatto che si è raggiunto il limite di età (dal 14,1% al 18,8%), mentre l’idea di aver già soddisfatto i propri desideri riproduttivi è crollata significativamente di 7 punti (al 16%).

«Il risultato ci ha sorprese – spiega una delle ricercatrici, Francesca Fiori –. La rinuncia al secondo figlio per ragioni economiche non ha riguardato solo le madri in situazioni di disagio, ma anche quelle in condizioni migliori. Da un lato la situazione economica è peggiorata per tutte le famiglie giovani, dall’altro l’aumento della disoccupazione maschile ha probabilmente lasciato molte donne occupate nella condizione di unico percettore di reddito. Ma di sicuro la crisi ha agito anche a livello più intimo, aumentando l’incertezza e la sfiducia nel futuro. Spesso di fronte alle difficoltà la rinuncia a un figlio interessa proprio chi ha più da perdere, mentre chi è in condizione di svantaggio trova nella maternità un valore in più».

Le ragioni per essere ottimisti ci sono, soprattutto in una fase di ripresa. Se i problemi economici impattano sulla natalità, l’uscita dalla crisi può favorire una ripartenza delle nascite. La ricerca in effetti rileva un aumento delle madri di due o più bambini che esprimono il desiderio di avere altri figli, anche se questo sembra riguardare più le straniere. E in ogni caso il rischio può essere anche un altro: che l’abitudine all’insicurezza si sia sedimentata in maniera così forte da avere rivoluzionato comportamenti storici. Il tema dell’insicurezza come ragione della denatalità è più vischioso dei semplici motivi economici e più difficile da aggredire. La crisi della fiducia incide sui desideri e sulla progettualità, e questo aspetto, spiegano le ricercatrici, è più preoccupante di altri fattori legati alla rinuncia ad avere figli.

Le persone, soprattutto le generazioni più giovani, in questi anni hanno conosciuto un aumento significativo della disoccupazione e della precarietà del lavoro, oltre a un calo delle retribuzioni. L’insicurezza tuttavia è un concetto molto ampio, che non riguarda solo i più fragili. Una recente ricerca a cura di Chiara Ludovica Comolli (goo.gl/SkLrUQ), dell’Università di Stoccolma ha dimostrato come la tensione sugli spread vissuta dall’Italia tra il 2011 e il 2012 ha contribuito in modo importante a limare i tassi di natalità. D’altra parte si potrebbe pensare che in un Paese con un elevato debito pubblico come l’Italia, oggi al 130% del Pil, in mancanza di una seria strategia di stabilizzazione dei conti le famiglie possano avere atteggiamenti più prudenti in diversi ambiti, dai consumi alla famiglia.

Negli ultimi 40 anni l’Italia non ha mai conosciuto tassi di fecondità particolarmente alti, tuttavia le coppie hanno storicamente manifestato una preferenza netta per la famiglia con due figli. Ancora nel 2012 il 75% delle neo madri con un figlio esprimeva la volontà di avere almeno un altro bambino. Ma se il persistere dell’incertezza trasformasse in breve tempo la ‘regola dei due figli’ in una regola del figlio unico più subìta che voluta? Al momento non sembra essere così. «Non abbiamo indicazioni in questa direzione – spiega Francesca Fiori – in Italia la preferenza per la famiglia con due figli è dura da sovvertire. A differenza di altri Paesi da noi c’è una fetta ampia di desiderio non soddisfatto in fatto di dimensione della famiglia. Perché si mantenga vivo servono soprattutto misure di ampio respiro capaci di creare un contesto favorevole in tutto alle famiglie, dalle politiche per il lavoro ai servizi che favoriscono la conciliazione, dalle misure per ridurre le disuguaglianze a un welfare in grado di rispondere veramente ai bisogni dei genitori».

da Avvenire

PROPOSTA RIVOLUZIONARIA Diamo uno stipendio alle mamme con figli (da zero a tre anni)

Uno stipendio per tutte le mamme che hanno figli da 0 a 3 anni, riconoscendo il loro lavoro “genitoriale”. È la proposta dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, che verrà presentata il 21 febbraio a Bologna. Può apparire una provocazione in un Paese come l’Italia, con un tasso di natalità (1,39 nel 2013) tra i più bassi al mondo e una fiscalità che non favorisce certamente la famiglia, ma seguirebbe l’esempio virtuoso di altri Paesi europei e alla fine, secondo la “Papa Giovanni”, non è irrealizzabile neppure sotto il profilo economico, come spiega il responsabile generale dell’associazione, Giovanni Paolo Ramonda.
Perché uno stipendio per le mamme?
“Innanzitutto è il riconoscimento della dignità del lavoro della donna: oltre a quello esterno, nella società, che è importantissimo, vogliamo che si riconosca pure il lavoro della maternità, tra le mura domestiche. Questo è il lavoro con la ‘L’ maiuscola, come diceva don Oreste Benzi. Vogliamo che venga recepito il grande valore della maternità. Se un bambino ha la possibilità di stare con il papà e, soprattutto, con la mamma nei primi anni di vita, avremo nel futuro una regressione degli ingressi in carcere e un abbassamento nell’uso delle sostanze, perché un figlio che cresce in famiglia matura anticorpi relazionali e psicologici. Inoltre abbiamo riscontrato, ad esempio, che in Giappone la crisi economica attuale è causata proprio dalla denatalità. Viceversa, lo sviluppo economico si ha se riparte la natalità”.
Ma di quanto potrebbe essere questo stipendio? Il Governo ha stabilito un bonus di 80 euro per le neomamme…
“Chiediamo di aggiungere uno zero: 80 euro non bastano neppure per comprare i pannolini, e lo sanno bene le famiglie che hanno dei bambini piccoli. Diamo uno stipendio alla mamma per il suo lavoro: lei saprà spendere bene questi soldi per la famiglia, e quindi ci sarà pure una ripresa economica”.
Quindi 800 euro per le mamme con figli piccoli, fino a 3 anni. Una cifra non indifferente per il bilancio statale. E la copertura economica?
“Si tratta di 14 miliardi di euro annui che possono essere recuperati: 3 miliardi dai fondi che già l’Inps destina alla maternità, 5 miliardi da una rimodulazione del bonus di 80 euro, 1 miliardo da un taglio degli stipendi di parlamentari e consiglieri regionali, 5 miliardi dalla tassazione delle transazioni finanziarie. Ma il concetto di fondo è riconoscere quel lavoro sociale enorme che fa colei che si dedica alla maternità. E poi, dando uno stipendio, risolleviamo tante famiglie in difficoltà e ridiamo loro dignità: nelle nostre case di accoglienza, negli alberghi solidali e nelle capanne di Betlemme accogliamo tanti nuclei familiari che sono sulla strada, perché hanno perso il lavoro e sono stati sfrattati”.
Uno stipendio per i primi tre anni di vita del bambino, a vostro avviso, può invertire il trend della “crescita zero”?
“Certo. Abbiamo delle comunità in Francia e in Germania, e da questo ‘osservatorio’ rileviamo che, dove ci sono politiche fiscali a favore della famiglia, la natalità è favorita”.
E dopo i 3 anni del bimbo? Di quale aiuto c’è bisogno?
“Serve un sostegno integrato con politiche fiscali e sociali a favore dell’intero nucleo familiare. Ma le nuove coppie hanno voglia di generatività e siamo convinti che, con una misura del genere, non si fermeranno al primo figlio…”.
agensirfamiglia.politica

Verso la terra dei figli

Dopo il diluvio e dopo Babele, la città fortificata dove l’umanità aveva cercato una salvezza sbagliata senza diversità e senza dispersione feconda sulla terra, l’alleanza e la salvezza continuano con Abram. L’uomo che lascia la casa del Padre e si mette in cammino, fidandosi di una voce che lo chiama. Fede e fiducia, perché ogni fede è fiducia in una promessa. Noè ci aveva salvato costruendo un’arca, restandovi dentro fermo in compagnia della sua famiglia e degli animali, attendendo il ritiro delle acque.

Abram, invece, risponde alla chiamata di quella stessa voce mettendosi in cammino verso una terra promessa: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso una terra che io ti mostrerò» (12,1). All’inizio della sua storia non gli è chiesto di costruire nessuna arca, né, come sarà con Mosè, di liberare il suo popolo dalla schiavitù. Per rispondere Abram deve “soltanto” credere alla promessa di una terra, e quindi partire per raggiungerla; deve lasciare la casa di suo padre Tèrah e muoversi verso una terra che gli viene annunciata come luogo di benedizioni e di felicità, ma ignota. Con Abram – il primo ebreo della Bibbia – c’è allora una chiamata alla felicità, alla fecondità, alla fioritura: «Farò di te una grande nazione, ti benedirò, renderò grande il tuo nome e tu sarai una benedizione. […] In te saranno benedette tutte le famiglia della terra» (12,2). Qui c’è una chiamata alla vita, c’è una promessa di futuro: ci sono quindi l’Adam, l’Eden, la continuazione dell’arcobaleno di Noè. Con lui c’è una moglie, Saray, e insieme raggiungono non la terra sicura dei padri, ma quella ignota dei figli.

La prima vocazione di Abram sta tutta nel credere incondizionatamente a una promessa, e partire. È questa la sua prima giustizia. Noè era “giusto” e per la sua giustizia gli fu affidato un compito decisivo. Di Abram non si dice che fosse giusto prima della vocazione, ma la sua giustizia nasce dall’aver creduto alla promessa: «ed egli credette, e gli fu accreditato come giustizia» (15,6). Noè era giusto e quindi credette; Abram credette e divenne giusto.

Ci sono persone che ricevono una chiamata a svolgere un compito di salvezza, a costruire un’arca: la costruiscono, salvano tanti e, salvando, si salvano. Ma ci sono altri ai quali quella stessa voce fa una promessa di felicità e di pienezza, e la loro giustizia sta tutta nel continuare tutta la vita a credere incondizionatamente e ostinatamente a quella promessa.

Questi “chiamati” si mettono in cammino verso una terra non per salvare qualcuno o qualcosa, ma perché in quella promessa vedono, o sanno intravvedere, benedizione, felicità, frutti, figli numerosi come le costellazioni. In queste vocazioni le arche da costruire arrivano dopo (e, se la vocazione è autentica, arrivano sempre), ma nel credere e nel partire non c’è altruismo, né sacrificio; non ci sono doni da fare, ma solo da ricevere. In queste vocazioni si parte sulla base di un duplice atto di fiducia: ci si fida di una “voce” buona che chiama, e si crede che l’adempimento di quella promessa sia la migliore felicità. In ogni vocazione c’è sempre un atto radicale di fiducia in una “voce” che chiama, anche quando non si sa di chi sia quella voce che ci chiama. La giustizia-bontà di Abram non è primariamente il frutto delle virtù: è credere a una promessa, e continuare a credere e a camminare.

Molte malattie spirituali e poi comunitarie nascono quando si trasformano la benedizione e la salvezza in perfezionismo etico, la promessa in una morale, quando invece di continuare a camminare ci si ferma a osservare le (proprie) virtù e i vizi (degli altri). E ci si smarrisce.

Anche nella chiamata di Abram ritroviamo allora una grammatica universale delle vocazioni, di quelle religiose, ma anche di quelle civili, professionali, artistiche, imprenditoriali. Abram arriva nella terra di Caanan e vi trova i cananei: la terra promessa è popolata da altra gente. Non trova frutti e abbondanza, ma una carestia che lo fa emigrare in Egitto. A Caanan soggiorna «come straniero» (17,8), i figli promessi numerosi come le stelle del cielo non arrivano, ma giungono solo, inesorabili, la vecchiaia sua e quella di sua moglie.

La terra promessa dalla voce che chiama si mostra sempre diversa da come ce la immaginavamo. Una vocazione non è un contratto (ma un patto o un’Alleanza), e quindi ci sono le sorprese, le delusioni, le prove, lo sconforto, a volte anche la disperazione, sempre il perdono e il poter ricominciare. La buona fatica di chi ha ricevuto una vocazione (e sono molti di più di quanti pensiamo) sta nel continuare a camminare quando la terra promessa appare secca e popolata da altri, e quando in quella terra ti rapiscono familiari e beni (14,12). La giustizia di Abram fu rispondere alla prima chiamata, ma soprattutto continuare a camminare quando quella promessa gli appariva molto distante e forse un auto-inganno. Fu nel continuare a credere che quella terra e il grembo secco di Saray potessero ancora generare, fiorire in benedizioni. Abram trovò una terra diversa da quella che pensava al momento della chiamata, ma fu giusto e il più grande di tutti perché continuò a credere che la terra promessa fosse quella che JHWH gli avrebbe mostrato, non un’altra.

La giustizia, in ogni vocazione, sta nel riuscire a riconoscere la terra promessa anche in una terra secca e vedere futuri figli in un grembo sterile. Conosco molti imprenditori giusti partiti dietro a una voce, che hanno creduto in una promessa, e che poi hanno trovato, e trovano, una terra secca e non vedono né figli né nipoti. Si sono salvati, e hanno salvato, tutti quelli che hanno saputo scorgere in quelle siccità la primizia della terra promessa; ma soprattutto quelli che hanno continuato a camminare, a spostare in avanti la tenda, senza fabbricarsi un’altra terra delusi dal non arrivo di quella promessa.

Abram riceve la prima chiamata quando aveva 75 anni (gli anni nella Bibbia nascondono molti significati, tutti importanti e in genere positivi), ma diventa Abramo a 99 anni: «Cammina alla mia presenza e sii irreprensibile. […] Non ti si chiamerà più col nome di Abram, il tuo nome sarà invece Abramo, perché io ti faccio padre di una moltitudine di nazioni. Ti farò fruttificare davvero molto» (17,1-5). Una chiamata c’era già stata, ma ora accade qualche cosa di nuovo: Abram diventa Abramo, e Saray diventa Sara (17,15). Dopo 14 anni la chiamata alla felicità e alla terra promessa diventa chiamata a un’Alleanza tra JHWH e un intero popolo, in vista di una benedizione universale (leggendo e studiando questi primi capitoli della Genesi sono travolto dalle benedizioni, da uno sguardo buono sul mondo e sugli umani, che mi ama e mi nutre). Quel nuovo incontro svela la chiamata, rinnova e qualifica quella prima promessa. Ma soprattutto cambia il nome, rivela cioè il senso vero della prima vocazione. Abram non era stato irreprensibile (basta leggere il capitolo 13 su Saray in Egitto), Abramo lo diventerà.

C’è allora un momento cruciale nel (buon) sviluppo di ogni (vera) vocazione. Si era partiti un giorno ascoltando una voce di benedizione, si era giunti in una terra ignota, si erano combattute buone battaglie, ma ancora mancava il senso profondo di quella promessa. Ed ecco che arriva una seconda vocazione nella prima vocazione: Abram muore e nasce Abramo. Si comprende che la prima terra, gli armenti e i fiumi generosi, non erano la vera promessa. E si diventa anche “irreprensibili”, ma non come ricerca di una perfezione etica, perché l’irreprensibilità è dono ed esigenza profonda di verità al servizio della promessa.

Abram era un padre di famiglia, Abramo diventa padre di un popolo, di tanti, di “tutte le famiglie della terra”. E si continua ancora a camminare, anche quando la strada sale e sembra diventare una silenziosa processione con un figlio-vittima verso un monte-altare, quando l’arcobaleno scompare e le innumerevoli stelle si spengono. Ci si salva e si resta giusti non interrompendo il cammino, continuando a guardare avanti, fino a consumarsi gli occhi sulla linea dell’orizzonte.
l.bruni@lumsa.it

Luigino Bruni
famiglia