Famiglia, cima della vertigine educativa. Nella serata sul tema “Educare è un viaggio”

Famiglia, cima della vertigine educativa

Famiglia, cima della vertigine educativa

Nella serata sul tema “Educare è un viaggio”, il Vescovo ha parlato delle relazioni genitori-figli-scuola

Molto partecipato l’incontro promosso da AGe, Aimc, Fidae, Fism e Uciim nella serata di martedì 28 maggio al Centro Giovanni XXIII di Reggio Emilia Famiglia, cima della vertigine educativa

Educare è un coinvolgimento di esistenze, è rivivere continuamente ciò che si è vissuto accanto ai propri cari: il coniuge, i figli, i nipoti, gli amici. Con una base ineguagliabile, la famiglia naturale, sempre più insistentemente nel mirino della mentalità corrente. Francia docet.

È un piccolo distillato dell’incontro “Educare è un viaggio” in compagnia di Massimo Camisasca, in diretta dal Centro Giovanni XXIII di Reggio Emilia nel dopocena di martedì 28 maggio. Anche la serata diventa un viaggio: gli scompartimenti “viaggiatori” – le due aule al primo piano di via Prevostura 4 – si riempiono rapidamente e qualcuno resta in piedi o si accomoda nel pianerottolo. Nel primo tempo l’itinerario sull’educazione proposto dal Vescovo è accompagnato dalle domande di Gabriele Rossi, il presidente dell’Associazione Genitori (AGe), che promuove l’iniziativa insieme alle altre sigle cattoliche Aimc (maestri), Fism (scuole dell’infanzia paritarie), Fidae (scuole primarie e secondarie) e Uciim (insegnanti medi). Poi è la volta degli interventi del pubblico: una mamma, un nonno, due presidi in pensione, a confrontarsi chi con lo sportello psicologico alle scuole medie chi con i cambiamenti epocali nel modo di abitare, di lavorare e di comunicare, o ancora sul ruolo dell’associazionismo e sul “prezzo” delle separazioni.

Tutto il discorso educativo fa perno sulla famiglia e sulla sua intrinseca vitalità. Monsignor Camisasca attinge in particolare al libro “Amare ancora” (Edizioni Messaggero Padova, 2011 – da qui scheda libro online su ibs con il 15% di sconto),

Camisasca Massimo – Amare ancora. Genitori e figli nel mondo di oggi e di domani

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già presentato in più di cinquanta città italiane, che ha scritto dopo avere ascoltato a lungo genitori e figli di oggi. Con un convincimento profondo: anche se la cronaca, tra delitti “domestici” e alternative giuridiche, erutta quotidianamente fatti negativi, la famiglia è una bella opportunità da riscoprire per il futuro. E con un fondamento altrettanto saldo: la persona, che è sempre concepita in relazione con altri “tu” in ogni esperienza umana, in contrapposizione all’individuo inteso come “io” assoluto, che non ha altri riferimento all’infuori di sé. Non a caso, dice il relatore collegandosi al magistero di Benedetto XVI e alle prime omelie di Papa Francesco, all’origine della crisi dell’uomo contemporaneo c’è proprio la chiusura in questa visione egoistica, portatrice di frammentazione sociale.

Ecco che quell’avverbio di tempo, ancora, che compare anche nel titolo del libro di Camisasca, più che la trincea di una difesa agguerrita diventa il tratto di una speranza da rifondare. Lo dicono i ragazzi che ancora si innamorano e progettano insieme il domani, così come le famiglie che ancora sono felici di accogliere la vita come un dono, scegliendo la “logica della testimonianza”.

Il Vescovo poi, sapendo di sfidare la cultura dei desideri/diritti tanto in voga in Europa, parla ancora di natura: comunque la si voglia chiamare, spiega, è difficile nascondere che nell’uomo c’è qualcosa di insopprimibile: la creaturalità, l’idea di bene e di male, il senso di compiutezza che egli può realizzare solo aprendosi nell’amore, nella fraternità, nell’amicizia.

Certo, viene per tutte le relazioni la prova del tempo, e capita non di rado che la promessa venga meno, “non in sé, ma in noi”. La fedeltà – commenta il presule – è una virtù che vive se rinasce continuamente e nel corso della vita la si può sostenere quanto più si diventa consapevoli che è un “bene difficile” e si impara a perdonare, anche se stessi.

Pure rispondendo a una domanda su paternità e maternità, Camisasca passa da quel “crocevia di tutte le esperienze della vita umana” che è la famiglia. Così, il padre è definito come “colui che prende per mano il figlio e lo porta a incontrare le cose”, a scoprire che la vita è anche (ma non soltanto) problemi, rifuggendo gli estremi del genitore ossessivo/autoritario o viceversa troppo remissivo. Quanto alla madre, ogni donna è essenzialmente “bellezza”, una bellezza che è attrattiva, generativa e “custode” della casa. Ma chi riduce a zero l’importanza del padre e della madre, ammonisce, pone le premesse per lo sviluppo di personalità più fragili, insicure e violente. Il pensiero torna ai surrogati di matrimonio e di generazione che premono per il loro “riconoscimento” legale, mentre la politica, che dovrebbe favorire le politiche familiari per la casa, il lavoro e la natalità, appare animata da una “strana voglia suicida”.

Circa il rapporto scuola-famiglia, il Vescovo insiste sulla necessità che bambini e ragazzi siano aiutati a crescere attraverso le capacità sia intellettive che affettive, rinnovando un’alleanza che richiede nuovi investimenti.

Educare è infine un rischio, perché significa trasmettere se stessi – ogni giorno, nella vita comune – e non un semplice prontuario per l’esistenza. È un “viaggio”, conclude Camisasca, che implica ascolto e quindi pazienza, fino a rispettare il limite della libertà del figlio-altro da sé, giacché “siamo tutti madri e padri putativi”. Questa è anche la “vertigine” dell’educazione: solo in famiglia la si può vivere fino in fondo.

Edoardo Tincani – diocesi.re.it

Educare è un rischio…? Introduzione

Cominciamo con la spiegazione dei termini: “educare” presuppone che si entri in relazione con le persone e che si condivida un percorso comune. Nello stesso tempo, la strada non è a senso unidirezionale: si deve camminare accanto ai ragazzi con umiltà e passione.

Molti sono i soggetti del "rischio": dagli adulti ai genitori e insegnanti, ai parroci, ai movimenti e associazioni alle comunità di accoglienza, agli stessi "educandi"...

Molti sono i soggetti del “rischio”: dagli adulti ai genitori e insegnanti, ai parroci, ai movimenti e associazioni alle comunità di accoglienza, agli stessi “educandi”…

Sono prete da 30 anni: il tempo è passato veloce e intenso nel lavoro pastorale in parrocchia e, da più di 20 anni, anche nell’impegno sociale.

Una delle sensazioni più chiare che provo ripercorrendo con la memoria questo periodo importante della mia vita è la consapevolezza di come tante idee che avevo sono cambiate, di come gli incontri fatti e le esperienze vissute abbiano lasciato dentro di me tracce significative e profonde, di come le idee e le certezze che avevo da studente in seminario e da giovane sacerdote si sono spesso incontrate e talvolta scontrate con le evidenze della vita.

Questa riflessione di carattere generale riguarda sicuramente anche il concetto di “educare”: da studente o da giovane prete non avrei mai potuto concepire niente di più semplice e diretto di questa opera di trasmissione di saperi e di valori, da agire in modo unidirezionale dal maestro ai discepoli senza alcuna loro reazione o partecipazione.

Poi piano piano la vita ti modifica, apre nuove visioni e prospettive… e si definisce uno scenario molto più intenso e coinvolgente, dove l’educazione diventa un processo, una storia di relazioni, un camminare accanto alle persone condividendone sogni e fatiche.

L’esperienza maturata come operatore nella comunità terapeutica, il volontariato internazionale a Calcutta e in Africa, la partecipazione alle iniziative del Cnca (Coordinamento nazionale comunità di accoglienza) hanno dato a questo mio processo una caratterizzazione particolare, con forti stimoli e grandi compagni di viaggio. Se oggi dovessi declinare la parola “educare” ne evidenzierei soprattutto due aspetti.

I ragazzi della comunità di accoglienza di Doccio a Bientina, Pisa).

I ragazzi della comunità di accoglienza di Doccio a Bientina, Pisa (foto SICCARDI).

Condivisione di un percorso

L’educazione presuppone l’accoglienza e la condivisione di un percorso comune. Non si può educare chi prima non si fa entrare in relazione con noi. L’efficacia dell’intervento educativo nella comunità terapeutica, per esempio, dipende prima di tutto dalla capacità dell’operatore di entrare in relazione con la persona, camminare accanto alla sua difficoltà, non restare bloccato dalla categoria di appartenenza (tossicodipendente, detenuto, ecc.).

Ricordo bene quanto sia stato difficile a volte costruire relazioni educative con gli ospiti della nostra comunità, quante ore di lavoro fatto insieme nel bosco, quanto tempo libero condiviso, quanto ascolto hanno preceduto i momenti importanti in cui qualcuno ha cominciato a riprendere in mano la propria vita!

La relazione educativa diventa allora il più corretto ed efficace approccio al disagio delle persone, fatto di ascolto, di rispetto, di distacco dalle proprie certezze. Intorno ai ragazzi accolti nelle nostre comunità ho sentito crescere in questi anni atteggiamenti di pregiudizio e di esclusione, magari mascherati con la pretesa di “educarli” per recuperarli a una vita normale.

Non c’è educazione nella violenza e nella sopraffazione psicologica, nemmeno se fatte a fin di bene: su questo aspetto tante realtà anche del mondo cattolico dovrebbero rivedere con criticità atteggiamenti e scelte fatte nelle loro comunità di recupero. La persona non si porta né si salva, ci si cammina accanto!

Con il Cnca si è combattuto molto per contrastare l’approccio punitivo e repressivo con cui il governo sta affrontando negli ultimi anni il problema dei consumi di droga: il cartello Non incarcerate il nostro crescere si è incentrato soprattutto sulla priorità dell’educazione rispetto alla repressione: «Per questo vogliamo affermare l’assoluta contrarietà allo slogan “punire per educare” della nuova proposta di legge presentata, che evidenzia la palese discrepanza tra l’intenzione pedagogica contenuta nel dispositivo di revisione e le condizioni reali della sua applicabilità in una società che alimenta e incoraggia stili predatori, dissipativi, edonistici e competitivi, che costituiscono uno dei fattori di vulnerabilità sociale più importanti in rapporto al consumo di droghe […].

«L’ascolto richiede, in ogni occasione, la capacità di chiedersi sempre cosa sia meglio per il bambino, il giovane, l’anziano, il tossicodipendente, il disabile, che sono tra i protagonisti principali dei nostri progetti. Richiede politiche di accompagnamento che escludano il giudizio a priori e comportino, invece, il riconoscimento della diversità, dell’unicità e dell’autonomia di colui a fianco del quale ci si pone. A noi interessano le persone, le loro storie, i loro problemi, il loro benessere, prima che le sostanze che consumano.

«Punire e basta non è solo un cattivo modo di educare, ma è anche e soprattutto inutile. Il fallimento delle politiche repressive è ormai un dato acquisito. Riteniamo vadano sperimentate, come molti Paesi europei stanno facendo, ipotesi di approccio diverse da quelle proposte dal governo, più di ispirazione sociale che legale, che sappiano cogliere sia le complesse e gravi problematicità di una tossicodipendenza grave che la potenziale pericolosità di consumi diffusi e generalizzati che coinvolgono in maniera problematica anche sostanze legali altamente pericolose come alcool e nicotina.

«La tutela di sé e degli altri sono valori importanti. Non si insegnano valori con la coercizione. È un dato acquisito delle scienze che si occupano di educazione, di pedagogia, di supporto, di trattamento e di clinica delle dipendenze. Se ne sono accorti in tanti in Europa e molti di noi lo affermano da tempo come scelta ideale e di pratica quotidiana di intervento» (cf Cnca, Educare non punire, febbraio 2004).

Il presidente del Cnca don Armando insieme con Lucio Lucini della cooperativa Parsec, Roma.

Il presidente del Cnca don Armando insieme con Lucio Lucini della cooperativa Parsec, Roma (foto A. GIULIANI).

S’insegna e… s’impara

L’educazione presuppone sempre la reciprocità, non va soltanto in una direzione. La strada, simbolo della marginalità, non è un luogo dove si va soltanto a insegnare: sulla strada si impara, si conosce meglio sé stessi e la vita. La mia esperienza personale e quella di tutti gli operatori e i volontari del Cnca potrebbero raccontare di quanti maestri e di quante lezioni di vita abbiamo incrociato nel nostro cammino. È bello pensare che chi insegna impara e che l’allievo lascia sempre qualcosa di sé al maestro.

Questo pensiero è stato così evidente nel Cnca nel 2000, l’anno del Giubileo, che si è poi concretizzato in una bella pubblicazione dal titolo Quando l’asina educa il profeta (Comunità Edizioni 2008): a volte può capitare (come è accaduto al profeta Balaam nel racconto biblico di Numeri 22) che sia proprio colui che tu conduci che indichi a te quale sia la strada giusta! Questi due aspetti ci aiutano, secondo me, a recuperare il senso più vero del concetto di educare e a liberarlo da quel limite impositivo che spesso ne limita la praticabilità e l’efficacia. Prima di parlare dei ragazzi e dei giovani dovremmo infatti parlare con i ragazzi e con i giovani e – meglio ancora – ascoltarli.

Il tema che i vescovi italiani hanno indicato per il prossimo decennio (La vita buona del Vangelo) ci offre la possibilità di scoprire tutta la ricchezza di un intervento educativo che non si impone, ma propone una bella visione della vita e accompagna il cammino per raggiungerla. In questo tempo, nel quale tutti i riferimenti etici sembrano dissolversi nel degrado singolo e collettivo, alla Chiesa e a tutti i cristiani è offerta la grande opportunità di presentare la bellezza della vita secondo il Vangelo, una vita che non è compressa e limitata dalla fede, ma che ne è liberata in tutte le sue potenzialità: essere cristiani è davvero un bel modo di vivere, profondamente diverso dalla banalità dei modelli che attraversano il nostro tempo. Ai genitori e a tutti gli educatori è affidato il compito di camminare accanto ai ragazzi e ai giovani, con umiltà e passione, accettando il rischio della relazione e la disponibilità a cambiare. Il giorno in cui le persone che ci sono state affidate prenderanno il volo nella loro autonomia, saremo contenti di essere stati loro di aiuto.

Armando Zappolini
parroco e presidente del Cnca

in vita pastorale – dicembre 2011