Il Vangelo III Domenica Avvento. Quella nuova creazione che passa nelle storie di chi vive ai margini

III Domenica Avvento – Anno A In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli…
San Giovanni in prigione

San Giovanni in prigione – G.di Paolo

III Domenica Avvento – Anno A In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!».

Sei tu o dobbiamo aspettare un altro?

Giovanni Battista, il più grande tra i nati di donna, non ha più le idee chiare. Lui, “più che un profeta”, dubita e chiede aiuto. Non so voi, ma io credo e dubito al tempo stesso; e Dio gode che io mi ponga e gli ponga delle domande. Non so voi, ma io credo e non credo, in duello, come il padre disperato del racconto di Marco, che ha un figlio che lo spirito butta nel fuoco e nell’acqua per ucciderlo, e confessa a Gesù: “io credo, ma tu aiutami perché non credo” ( Mc 9,23). E Gesù risponde in modo meraviglioso: non offre definizioni, pensieri, idee, teologia, neppure risponde con un “sì” o un “no”, prendere o lasciare. Racconta delle storie. C’era una volta un cieco… e nel paese vicino viveva uno zoppo dalla nascita. Racconta sei storie che hanno comunicato vita, così come era accaduto nei sei giorni della creazione, quando la vita fioriva in tutte le sue forme. Sei storie di nuova creazione.

Gesù parte dagli ultimi della fila, non comincia da pratiche religiose, ma dalle lacrime: ciechi, storpi, sordi, lebbrosi, morti, poveri…; da dove la vita è più minacciata. E fa per loro un vestito di carezze. Non guarisce gente per rinforzare le fila dei discepoli, per farne degli adepti, per tirarli alla fede come pesci presi all’amo della salute ritrovato, ma per restituirli a umanità piena e guarita, perché siano uomini liberi e totali. E non debbano più piangere.

La Bibbia è fatta soprattutto di narrazioni, Le storie dicono che senso diamo al mondo, cioè “che storia ci stiamo raccontando?” Tutte le grandi narrazioni dicono questo: come si affronta la morte, raccontano di come si fa a non morire, a ripartire. Sono iniziazione alla vita. Ai discepoli inviati da Giovanni Gesù chiede di entrare in una nuova narrazione del mondo. Entrano e vedono nascere la terra nuova e il nuovo cielo. E chiede loro di continuare il racconto: raccontate ciò che vedete e udite.

Poi il racconto si fa domanda: Cosa siete andati a vedere nel deserto? Un bravo oratore? Un trascinatore di folle? Un leader carismatico? Forse una canna sbattuta dal vento? Un opportunista che piega la schiena pur di restare al suo posto? Che cosa siete andati a vedere? Un uomo avvolto in morbide vesti?

Preoccupato dell’abito firmato? Del macchinone da far vedere? Che cosa siete andati a vedere? Perché Dio non si dimostra, si mostra. Nel deserto hanno visto un corpo marchiato, scolpito, inciso dalla Parola. Giovanni ha offerto un anticipo di corpo, un capitale di incarnazione e la profezia è diventata carne e sangue.

Noi tutti ci nutriamo di storie, e questa è la narrazione di cui la terra ha più bisogno per nutrirsi: storie di credenti credibili.

(Letture: Isaia 35,1-6a.8a.10; Salmo 145; Lettera di Giacomo 5,7-10; Matteo 11,2-11)

Commento Vangelo XV Domenica Tempo ordinario – Anno B 11 Luglio 2021

«In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri […].»

Chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli. Ogni volta che Dio ti chiama, ti mette in viaggio. Il nostro Dio ama gli orizzonti e le brecce. A due a due: perché il due non è semplicemente la somma di uno più uno, è l’inizio del noi, la prima cellula della comunità. Ordinò loro di non prendere nient’altro che un bastone. Solo un bastone a sorreggere la stanchezza e un amico su cui appoggiare il cuore. Né pane, né sacca, né denaro, né due tuniche. Saranno quotidianamente dipendenti dal cielo. Li vedi avanzare da una curva della strada, sembrano mendicanti sotto il cielo di Abramo. Gente che sa che il loro segreto è oltre loro, «annunciatori infinitamente piccoli, perché solo così l’annuncio sarà infinitamente grande» (G. Vannucci). Ma se guardi meglio, puoi notare che oltre al bastone portano qualcosa: un vasetto d’olio alla cintura. Il loro è un pellegrinaggio mite e guaritore da corpo a corpo, da casa a casa. La missione dei discepoli è semplice: sono chiamati a portare avanti la vita, la vita debole: ungevano con olio molti infermi e li guarivano. Si occupano della vita, come il profeta Amos, cacciano i demoni, toccano i malati e le loro mani dicono: «Dio è qui, è vicino a te, con amore». Hanno visto con Gesù come si toccano le piaghe, come non si fugga mai dal dolore, hanno imparato l’arte della carezza e della prossimità. E proclamavano che la gente si convertisse: convertirsi al sogno di Dio: un mondo guarito, vita senza demoni, relazioni diventate armoniose e felici, un mondo di porte aperte e brecce nelle mura. Le loro mani sui malati predicano che Dio è già qui. È vicino a me con amore. È qui e guarisce la vita. Francesco ammoniva i suoi frati: si può predicare anche con le parole, quando non vi rimane altro. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro. Gesù li prepara anche all’insuccesso e al coraggio di non arrendersi. Come i profeti, che credono nella parola di Dio più ancora che nel suo realizzarsi: Isaia non vedrà la vergine partorire, né Osea vedrà Israele condotto di nuovo nel deserto del primo amore. Ma i profeti amano la parola di Dio più ancora che i suoi successi. I Dodici hanno quella stessa fede da profeti: credono nel Regno ben prima di vederlo instaurarsi. L’ideale in loro conta più di ciò che riescono a realizzarne. Bellissimo Vangelo, dove emerge una triplice economia: della piccolezza, della strada, della profezia. I Dodici vanno, più piccoli dei piccoli; sulla strada che è libera, che è di tutti, che non si ferma mai e ti porta via, come Dio con Amos; vanno, profeti del sogno di Dio: un mondo totalmente guarito.

(Letture: Amos 7,12-15; Salmo 84; Efesini 1,3-14; Marco 6,7-13)

di Ermes Ronchi, Avvenire

Il Signore della compassione: X Domenica Tempo ordinario Anno C 9 Giugno 2013

In quel tempo, Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla. Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei. Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!». Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre. Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi» (…).

Una donna, una bara, un corteo. Sono gli ingredienti di base del racconto di Nain che mette in scena la normalità della tragedia in cui si recita il dolore più grande del mondo. Quel buco nero che inghiotte la vita di una madre, di un padre privati di ciò che è più importante della loro stessa vita. Quel freddo improvviso e spaventoso che ti stringe la gola e sai che d’ora in poi niente sarà più come prima.
Quella donna era vedova, aveva solo quel figlio, che per lei era tutto. Due vite precipitate dentro una sola bara. Quante storie così anche oggi, quante famiglie dove la morte è di casa. Perché questo accanirsi, questa dismisura del male su spalle fragili? Il Vangelo non dà risposte, mostra solo Gesù che piange insieme alla donna, e sono due madri che piangono, sono due vedove. Gesù non sfiora il dolore, penetra dentro il suo abisso insieme a lei.
Entra in città da forestiero e si rivela prossimo: chi è il prossimo? Gli avevano chiesto. Chi si avvicina al dolore altrui, se lo carica sulle spalle, cerca di consolarlo, alleviarlo, guarirlo se possibile. Il Vangelo dice che Gesù fu preso da grande compassione per lei. La prima risposta del Signore è di provare dolore per il dolore della donna. Vede il pianto e si commuove, non prosegue ma si ferma, e dice dolcemente: donna, non piangere. Ma non si accontenta di asciugare lacrime. Gesù consola liberando. Si avvicina a una persona che, forse, in cuor suo sta maledicendo Dio: «Perché a me, perché a me? Cosa ho fatto?»
Nessun segnale ci dice che quella donna fosse credente più fervida di altri. Nessuno. Ciò che fa breccia nel cuore di Gesù, il Signore amante della vita, è il suo dolore. Quella donna non prega, ma Dio ascolta il suo gemito, la supplica universale e senza parole di chi non sa più pregare o non ha fede, e si fa vicino, vicino come una madre al suo bambino. Si accosta alla bara, la tocca, parla: Ragazzo dico a te, alzati. Levati, alzati in piedi, sorgi, il verbo usato per la risurrezione. E lo restituì alla madre, restituisce il ragazzo all’abbraccio, all’amore, agli affetti che soli ci rendono vivi, alle relazioni d’amore nelle quali soltanto troviamo la vita.
E tutti glorificavano Dio dicendo: è sorto un profeta grande! Gesù profetizza Dio, il Dio della compassione, che cammina per tutte le Nain del mondo, che si avvicina a chi piange, ne ascolta il gemito. Che piange con noi quando il dolore sembra sfondare il cuore. E ci convoca a operare «miracoli», non quello di trasformare una bara in una culla, come lui a Nain, ma il miracolo di stare accanto a chi soffre, lasciandosi ferire da ogni gemito, dal divino sentimento della compassione.
(Letture: 1Re 17, 17-24; Salmo 29; Gàlati 1, 11-19; Luca 7, 11-17)

di Ermes Ronchi – avvenire.it

10TOcol

La famiglia, prima scuola di santità. Commento al Vangelo di Domenica 30 Dicembre 2012

Santa Famiglia – Anno C

(…) Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro. Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso (…).

La santa Famiglia di Nazaret porta un messaggio a tutte le nostre famiglie, l’annuncio che è possibile una santità non solo individuale, ma una bontà, una santità collettiva, familiare, condivisa, un contagio di santità dentro le relazioni umane. Santità non significa essere perfetti; neanche le relazioni tra Maria Giuseppe e Gesù lo erano. C’è angoscia causata dal figlio adolescente, e malintesi, incomprensione esplicita: ma essi non compresero le sue parole. Santità non significa assenza di difetti, ma pensare i pensieri di Dio e tradurli, con fatica e gioia, in gesti. Ora in cima ai pensieri di Dio c’è l’amore. In quella casa dove c’è amore, lì c’è Dio.
E non parlo di amore spirituale, ma dell’amore vivo e potente, incarnato e quotidiano, visibile e segreto. Che sta in una carezza, in un cibo preparato con cura, in un soprannome affettuoso, nella parola scherzosa che scioglie le tensioni, nella pazienza di ascoltare, nel desiderio di abbracciarsi. Non ci sono due amori: l’amore di Dio e l’amore umano. C’è un unico grande progetto, un solo amore che muove Adamo verso Eva, me verso l’amico, il genitore verso il figlio, Dio verso l’umanità, a Betlemme.
Scese con loro a Nazaret e stava loro sottomesso. Gesù lascia i maestri della Legge e va con Giuseppe e Maria che sono maestri di vita. Per anni impara l’arte di essere uomo guardando i suoi genitori vivere: lei teneramente forte, mai passiva; lui padre non autoritario, che sa anche tirarsi indietro. Come poteva altrimenti trattare le donne con quel suo modo sovranamente libero? E inaugurare relazioni nuove tra uomo e donna, paritarie e senza paure?
Le beatitudini Gesù le ha viste, vissute, imparate da loro: erano poveri, giusti, puri nel cuore, miti, costruttori di pace, con viscere di misericordia per tutti. E il loro parlare era: sì, sì; no, no. Stava così bene con loro, che con Dio adotta il linguaggio di casa, e lo chiama: abbà, papà. Che vuole estendere quelle relazioni a livello di massa e dirà: voi siete tutti fratelli.
Anche oggi tante famiglie, in silenzio, lontano dai riflettori, con grande fatica, tessono tenaci legami d’amore, di buon vicinato, d’aiuto e collaborazione, straordinarie nelle piccole cose, come a Nazaret. Sante. La famiglia è il luogo dove si impara il nome di Dio, e il suo nome più bello è: amore, padre e madre. La famiglia è il primo luogo dove si assapora l’amore e, quindi, si gusta il sapore di Dio. La casa è il luogo dove risiede il primo magistero, più importante ancora di quello della Chiesa. È dalla porta di casa che escono i santi, quelli che sapranno dare e ricevere amore e che, per questo, sapranno essere felici.
(Letture: 1 Samuele 1,20-22. 24-28; Salmo 83; 1 Giovanni 3,1-2. 21-24; Luca 2,41-52)