Le «Sette Parole» ritrovate di Pergolesi

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Al di là del giallo musicologico che riguarda l’attribuzione a Giovanni Battista Pergolesi dell’oratorio Septem verba a Christo in cruce moriente proloata, c’è comunque una verità inconfutabile; le questioni legate alla paternità della composizione vanno disgiunte da quelle relative alla qualità (elevata) della sua musica.
Scritte con ogni probabilità tra il 1730 e il 1736 (anno di morte del maestro di Iesi), le Sette ultime Parole di Cristo sono tornate alla luce dopo il ritrovamento di alcuni manoscritti settecenteschi archiviati come opera del «Sig. Pergolese»; a bruciare tutti sul tempo e a firmare la prima esecuzione in tempi moderni della partitura è arrivato René Jacobs, che a capo dell’Akademie für Alte Musik di Berlino e di un valente quartetto di cantanti solisti ne ha realizzato anche la prima registrazione assoluta.
Non ci aspetti comunque di ritrovare l’impronta stilistica o la sublime intensità espressiva che marchia a fuoco lo Stabat Mater, il capolavoro con cui Pergolesi si era già presentato al cospetto della Croce del Redentore. Grazie anche all’aura austera conferita dall’intonazione gregoriana delle Parole evangeliche, il clima artistico e spirituale di questo ciclo di sette cantate è infatti maggiormente severo e meditativo, regolato da una grammatica del dolore meno incline alle leggi della retorica drammatica e più vicina a una dimensione morale e apologetica.

Akademie für Alte Musik / R. Jacobs
PERGOLESI
Septem Verba a Christo
Harmonia Mundi / Ducale

Dischi Sacra: le sublimi Missae del madrigalista Rore

Le sublimi Missae del madrigalista Rore

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C’è poco da fare: che Cipriano de Rore (ca. 1515-1565) sia uno dei più ispirati e raffinati madrigalisti del Rinascimento è una verità inconfutabile che emerge chiaramente anche quando il maestro fiammingo si diletta nella composizione di complesse e articolate musiche liturgiche concepite nell’osservanza delle rigide leggi del contrappunto. Per lui, che nel XVI secolo è stato maestro di cappella presso le corti delle nobili famiglie più influenti e presso le istituzioni musicali più prestigiose della nostra penisola – dagli Este a Ferrara e i Farnese a Parma alla Basilica di San Marco a Venezia – la musica sacra era un piacevole impegno che rientrava nell’ambito dei suoi doveri professionali; per Stephen Rice e il gruppo corale The Brabant Ensemble le sue creazioni rappresentano invece un distillato di scienza, bellezza e spiritualità allo stato puro. Lo testimonia la loro incisione della Missa “Doulce mémoire” e della Missa “A note negre”, microcosmi armonici e melodici praticamente perfetti, in cui si celebra il trionfo di quella scuola polifonica di cui Rore fu maestro sublime. Di un’arte che si riflette nella trasparenza delle linee vocali come tra le innumerevoli sfumature espressive e musicali che gli interpreti inglesi sanno valorizzare con la naturalezza di chi quel linguaggio possiede e sperimenta da anni; con dolcezza, con stile, evitando i contrasti. Anche questa è classe.

The Brabant Ensemble /S. Rice
CIPRIANO DE RORE / Missae
Hyperion / Sound and Music

Dischi sacra. Nell’ultimo Abbado salisburghese l’infinito di Mozart e Schubert

L’alone sonoro dell’ultimo accordo della Messa in mi bemolle di Franz Schubert si dissolve lentamente e passano quindici lunghi, interminabili secondi di silenzio prima che il pubblico della Haus für Mozart di Salisburgo ritorni alla realtà e faccia partire un interminabile applauso liberatorio; sul volto stanco e profondamente segnato di Claudio Abbado restano invece a lungo impresse tutta l’emozione e la carica di tensione con cui ha vissuto un’esperienza musicale totalizzante.
Dopo un’assenza di dieci anni, nel 2012 il direttore milanese è ritornato sul podio del “festival dei festival”, l’appuntamento estivo più esclusivo dell’establishment musicale internazionale; a Salisburgo, Abbado è stato uno dei protagonisti più attesi della serie di dodici appuntamenti intitolati “Ouverture spirituelle” con cui il direttore artistico Alexander Pereira (il futuro sovrintendente del Teatro alla Scala di Milano) ha voluto inaugurare l’edizione dello scorso anno.
Il programma del concerto del 28 luglio – immortalato su un Dvd pubblicato da Accentus e distribuito da Ducale – prevedeva due vette estreme del repertorio sacro di tutti i tempi, la “giovanile” Missa solemnis K139(Waisenhausmesse) di Mozart e la “matura” Messa D950 di Schubert, che Abbado ha esaltato con una lettura esemplare e dai toni quasi intimistici, grazie all’apporto determinante dell’Arnold Schoenberg Choir, dell’Orchestra Mozart e di uno strepitoso cast di cantanti solisti: per la Messa di Mozart il soprano Roberta Invernizzi, per quella di Schubert il soprano Rachel Harnisch e il tenore Paolo Fanale, per entrambe le partiture il contralto Sara Mingardo, il tenore Javier Camarena e il basso Alex Esposito.
La perfezione esecutiva e la profondità di pensiero di questa interpretazione sono fedelmente documentate dal supporto video che, se possibile, accresce ancor più la forza d’impatto della parte musicale, testimoniando della massima concentrazione con cui Abbado affronta queste straordinarie partiture: con un gesto direttoriale asciutto ed essenziale, quasi in apnea, fluttuando in un tempo sospeso tra l’hic et nunc della sala da concerto e la dimensione di infinito che i capolavori di Mozart e Schubert sanno risvegliare a ogni nuovo ascolto.

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Dischi Sacra: il martirio come canto d’amore. La «Passio Caeciliae» di Frisina

La Passio Caeciliae scritta da Marco Frisina si chiude con una sorta di ipnotica ninnananna, una berceuse chiamata ad accompagnare il sonno eterno di santa Cecilia; nel brano Lux in tenebris (The Death of Cecilia), il canto angelico intonato dal soprano si dipana infatti con dolcezza ed espressività, sostenuto dal cullante tappeto armonico sopra cui la martire sembra addormentarsi e abbandonarsi definitivamente all’abbraccio ideale di Gesù, proprio come l’ha raffigurata Stefano Maderno nella celebre scultura custodita nella basilica di Santa Cecilia in Trastevere a Roma (che ritrae la santa così come apparve nel 1599 quando fu compiuta la ricognizione del suo corpo).
L’episodio conclusivo è sicuramente uno dei momenti più alti e toccanti dell’oratorio con cui monsignor Frisina (classe 1954) ha inteso descrivere le vicende della nobile fanciulla vissuta nel II secolo, che ha consacrato la propria verginità e la propria vita in nome della fede in Cristo, arrivando a convertire ai propri ideali anche il suo futuro sposo (Valeriano), che l’ha addirittura preceduta nel martirio.
Nel cast dell’incisione discografica firmata dal Coro Musicanova e dalla Nova Amadeus Chamber Orchestra diretti da Flavio Emilio Scogna fanno anche parte il soprano solista Barbara Vignudelli e la voce narrante dell’attore David Sebasti (cd pubblicato da Brilliant e distribuito da Ducale); sono loro a guidare l’ascoltatore tra i nove quadri in cui si articola la Passio Caeciliae, tra le visite quotidiane dell’Angelo misterioso inviato dal Signore, il drammatico episodio fugato che sottolinea i momenti della persecuzione e morte di Valeriano (Persecution) o ancora la truce fine della protagonista, prima arsa e poi passata a fil di spada (The Martyrdom of Cecilia).
Ma nonostante l’evidente carica di pathos della partitura, a imporsi su tutto è una serenità di fondo che traduce in una musica lontana da asprezze e dissonanze il miracolo supremo offerto dalla testimonianza della santa, come viene descritto dallo stesso Frisina nelle note di copertina del disco: «Cecilia è una creatura fatta di luce e di amore, un capolavoro stupendo di innocenza e giovinezza che profuma di cielo. Il suo martirio è terribile, eppure è il suo più bel canto d’amore a Cristo».

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Dischi Sacra: una raccolta di canti liturgici di straordinaria bellezza

«Luce del suo popolo e del suo tempo»: con queste parole Giovanni Paolo II rivelava al mondo la forza e il carisma di Hildegard von Bingen (1098-1179), la mistica e santa tedesca che un anno fa Benedetto XVI ha nominato Dottore della Chiesa universale, riconoscendo in lei «una straordinaria armonia tra la dottrina e la vita quotidiana».
Teologa, scrittrice, poetessa, compositrice e scienziata, la sua è una figura tutta da scoprire, che gli appassionati di musica antica hanno imparato a conoscere soprattutto grazie ai dischi realizzati dall’ensemble Sequentia che, a partire dal 1982, ha intrapreso il progetto di registrazione integrale delle opere della santa. Un lungo e fortunato cammino che giunge oggi al termine – orfano però della compianta Barbara Thornton, indimenticabile voce e anima artistica del gruppo – con l’album intitolato Celestial Hierarchy (pubblicato da Deutsche Harmonia Mundi e distribuito da Sony): una raccolta di canti liturgici di straordinaria bellezza, dedicati ai profeti, ai martiri, ai padri confessori, agli apostoli e alla Vergine Maria, forgiati su un nuovo linguaggio di intensa espressività che i Sequentia sono in grado ancora una volta di riproporre con rigore, immedesimazione e altissimi esiti artistici.
Da un punto di partenza diametralmente opposto si muove invece l’approccio interpretativo con cui Dietburg Spohr e l’Ensemble Belcanto si sono avvicinati all’Ordo Virtutum, la sacra rappresentazione allegorica che la Badessa di Bingen ha incentrato sull’animo umano, sulle insidie mosse dalle tentazioni del peccato e sul sostegno offerto dal vigore delle virtù (cd pubblicato da Ecm e distribuito da Ducale). Ne è nata un’attualizzazione quasi estrema, lontana da qualsiasi intento di fedele ricostruzione storica o filologica, dove la musica originale appare quasi un pretesto: il punto di partenza per una drammaturgia in cui la lontana eco delle melodie gregoriane viene sopraffatta dalle più moderne istanze compositive contemporanee, con l’intento di avvicinare il mondo medievale di Hildegard, per stessa ammissione degli artisti «così lontano ed estraneo dal nostro». Per correttezza, però, in questo caso sarebbe stato più opportuno togliere il nome della santa dalla copertina del disco.

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Dischi Sacra. Un tripudio chiassoso e nobilissimo: così Napoli glorificava san Gennaro

È un tripudio di suoni, luci e colori il progetto discografico che Antonio Florio e il gruppo dei Turchini hanno dedicato al repertorio sacro fiorito a Napoli nei primi decenni del Settecento e a una delle principali feste, religiose e popolari, che da sempre animano la vita della città; Il Tesoro di San Gennaro è infatti il titolo di un album che arriva al cuore di un’antica e illustre tradizione, ma che testimonia anche del livello d’eccellenza artistica raggiunto in epoca barocca dall’establishment musicale partenopeo (cd pubblicato da Glossa e distribuito da New Communication).
Cantori e strumentisti hanno infatti sempre lottato per entrare a far parte dell’organico degli esecutori impegnati nelle molteplici celebrazioni dedicate al Santo protettore (in primis quella del 19 settembre, quando se ne ricorda il martirio), mentre i maggiori compositori dell’epoca, autoctoni e forestieri, hanno dedicato alcune delle loro migliori creazioni per l’apparato musicale destinato ad accompagnare i principali riti liturgici della Cappella del Tesoro.
Spetta alla Canzona a 4 con istromenti “Per San Gennaro” di Cristofaro Caresana (1640-1709) alzare il sipario sul teatro dei sacri affetti in scena a Napoli tra XVII e XVIII secolo; insieme ad alcune Sinfonie strumentali, di Domenico Scarlatti (1685-1757) viene invece proposto il caleidoscopico mottetto Antra valles Divo plaudant, mentre al Confitebor à 3 e allo splendido Stabat Mater à 4 di Nicola Fago (1677-1745) – già Maestro di Cappella del Tesoro – fanno seguito gli inni Iam sol recedit e Iste confessor di Gaetano Veneziano (1665-1716), autore anche dell’Ave Maris Stella che chiude l’incantevole programma del disco.
Una vivace colonna sonora chiamata a portare alla luce le «diverse anime di una cultura complessa che non cessa di affascinare: insieme rozza e raffinata, plebea e aristocratica, chiassosa e delicata», come scrive nel saggio che accompagna le note di copertina del disco Dinko Fabris, presidente della Società Internazionale di Musicologia e penna tra le più illuminate nel delineare i caratteri vincenti di quella musica barocca partenopea che, da oltre venticinque anni, trova proprio in Antonio Florio e nei “suoi” Turchini la voce più viva, autentica e autorevole.
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