Impedire alle donne di studiare, in nome di Dio. È quello che accade oggi in Afghanistan

Taliban use water cannon on women protesting education order in Afghanistan  | CNN

Neda Mohammad Nadeem, ex comandante militare divenuto in ottobre Ministro dell’Istruzione Superiore, lo scorso 20 dicembre, ha indirizzato a tutte le università pubbliche e private una comunicazione in cui formalizza la sospensione della frequenza dei corsi universitari per le studentesse, motivando il decreto con la necessità di dar corso ad una riforma dell’istruzione, ad oggi troppo occidentalizzata e irrispettosa della sharia.

Erosione dei diritti
Dopo il drammatico quinquennio 1996-2001, segnato dalle azioni repressive e autoritarie dei talebani e dall’imposizione di estese limitazioni delle libertà individuali a tutta la popolazione afghana e in particolare alle donne, il loro ritorno nell’agosto 2021, sedici mesi fa, ha fatto nuovamente precipitare le donne in un’inesorabile, drammatico processo di erosione dei diritti fondamentali: limitazioni drastiche alla libertà di movimento, interdizione dell’uso di spazi pubblici come parchi e palestre, espulsione dai luoghi di lavoro (perfino dalle Ong), imposizione del velo integrale.

L’estromissione dalle professioni, dalla vita pubblica e dalla politica, è stata accompagnata da un piano di progressiva esclusione dall’istruzione. Già dallo scorso anno, con la ripresa dell’attività scolastica dopo la pausa estiva, le bambine maggiori di dodici anni si sono viste vietare l’accesso a scuola: si stimano in tre milioni le bambine e le ragazze cui è stato impedito il proseguimento dei percorsi di istruzione oltre il sesto grado – equivalente alla nostra prima media.

Intanto va aumentando il tristissimo fenomeno delle spose bambine: oggi, in Afghanistan, il 17% delle bambine si sposa prima dei quindici anni.

Tutto questo sullo sfondo delle disperate condizioni di vita di una popolazione che, a causa della povertà e della crisi alimentare che ha portato alla fame il 55% del paese, vede crescere in modo esponenziale i ricoveri per malnutrizione, soprattutto tra i bambini.

Giuliano Battiston, in alcuni recenti articoli per l’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica internazionale),[1] afferma che l’annuncio del ministro Nadeem, «presentato come compimento di sacri principi religiosi, come atto necessario all’instaurazione di un “vero sistema islamico”», è destinato ad indebolire l’Emirato, in quanto porterà ad una intensificazione dello scontro tra i talebani e la società afghana.

Non tutti però…
Nonostante i mezzi spietati e violenti messi in atto dal regime negli ultimi sedici mesi per reprimere ogni forma di dissenso, in tutto il paese vanno organizzandosi manifestazioni di protesta.

E, come per l’Iran, anche in Afghanistan si possono cogliere importanti segnali di solidarietà tra uomini e donne: docenti universitari che annunciano le proprie dimissioni come forma concreta di appoggio alle colleghe e alle studentesse, studenti di Medicina che si rifiutano di sostenere gli esami alzando cartelli con la scritta “O tutti o nessuno”.

La decisione di impedire alle donne l’accesso all’università ha suscitato molte critiche a livello internazionale, anche da parte di paesi a maggioranza musulmana, come Turchia e Arabia Saudita.

L’Arabia Saudita ha espresso «stupore e rammarico» per il divieto, mentre la Turchia, per bocca del proprio ministro degli Esteri, lo ha definito «non islamico e non umano». Cavusoglu ha esortato i talebani a revocare la decisione, affermando che non c’è una «spiegazione islamica» dietro questo divieto, dal momento che la religione islamica «incoraggia l’istruzione e la scienza».[2]

Sulla stessa linea si collocano anche le dichiarazioni del grande imam della moschea al-Azhar del Cairo, Ahmed el-Tayeb, firmatario con papa Francesco, nel febbraio del 2019, del Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune. Ahmed el-Tayeb ha condannato in modo deciso i talebani, affermando che il divieto all’istruzione viola i diritti fondamentali delle donne ed è in contraddizione con i principi dell’Islam.

In nome di Dio o dei maschi?
Eppure, è proprio appellandosi ai principi dell’Islam, è proprio in nome di Dio che in Afghanistan si impedisce alle bambine e alle ragazze di studiare.

In nome di Dio. Quante volte, nella storia, in nome di Dio, le donne sono state condannate al silenzio e all’ignoranza? Quante volte le bambine, le ragazze, le donne sono state immolate, come agnelli sacrificali, sull’altare di un potere che assume il volto di un maschio che detta legge, appellandosi ad una religione piegata alle proprie pulsioni e alle proprie paure?

Paura della bellezza e della potenza di un corpo di donna capace di generare vita, e perciò da tacitare, segregare, sottomettere, violentare, rendere insignificante, annichilire, attraverso l’occultamento o la mercificazione – burqa e pornografia come facce della stessa medaglia.

Ho conosciuto l’Afghanistan leggendo i romanzi di Khaled Hosseini; immersa nelle pagine de Il cacciatore di aquiloni e di Mille splendidi soli, ho immaginato gli aquiloni punteggiare di rosso, di azzurro e di giallo il cielo di Kabul e mi sono figurata i profili delle montagne e dei deserti di quella terra lontana. E attraverso le storie di Mariam, sposa bambina, e di Fariba, Laila e Aziza, ho intravisto tutta la disperata fatica di essere donna in Afghanistan e continuare a sperare: «E, per la prima volta, Laila non vide il viso di una rivale, ma un viso di dolori taciuti, di fardelli portati senza protestare, un destino di sottomissione e di sopportazione».[3]

Per noi, donne d’Occidente, la conquista delle libertà individuali, tra cui il diritto allo studio, ha alle spalle un tragitto troppo breve per poterlo considerare scontato. Ciò che sta accadendo oggi in Iran e in Afghanistan ci invita a ripensare, una volta di più, alle fatiche e alle lotte che tante donne, prima di noi, hanno sostenuto perché in nome di nessun Dio una bambina potesse essere privata della felicità di imparare e di studiare.

Mia nonna paterna, nata alla fine dell’Ottocento, era analfabeta. Il mio primo giorno da insegnante l’ho dedicato a lei, a questa nonna che non ho conosciuto, che non sapeva leggere e scrivere, ma amava coltivare fiori.

[1] https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/afghanistan-perche-escludere-le-donne-dalluniversita-indebolisce-i-talebani-37132

https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/le-donne-e-linverno-afgano-37133

[2] https://www.aljazeera.com/news/2022/12/22/turkey-saudi-arabia-condemn-talibans-university-ban-for-women

[3] Khaled Hosseini, Mille splendidi soli, Piemme 2007, pag. 259.
settimananews.it

La salvaguardia dei diritti dell’uomo e della libertà religiosa

Diritti umani e libertà di religione

Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali  Articolo 9
1. Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti.
2. La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.

La formatrice. «Il diritto umano di poter sognare»

Myriam Castelló, formatrice e attivista, ha dato vita dal Brasile al movimento per il diritto al sogno
«Il diritto umano di poter sognare»

Myriam Castellò

Non è garantito dalle Costituzioni né dai trattati internazionali. Eppure quello al sogno è un diritto umano fondamentale. Di più: è la precondizione perché libertà, dignità, parità possano trasformarsi da parole di inchiostro in realtà. Ne è convinta Myriam Castelló, 31 anni, formatrice e attivista, nata e cresciuta a São Lorenzo. Proprio da questa piccola città dello Stato brasiliano del Minas Gerais è iniziato il movimento che, alla fine di ottobre, ha riunito virtualmente persone di tutti i Continenti. Donne e uomini, giovani e meno giovani, tutti sognatori.

O, meglio, militanti per il diritto al sogno. «Vogliamo che il diritto a sognare sia riconosciuto come prerogativa essenziale dell’essere umano. Solo sognando entriamo in connessione con la nostra vera essenza e possiamo crescere, maturare, evolvere», afferma la fondatrice de La fabbrica dei sogni, prima cellula del Movimento per il diritto a sognare. «Sogniamo e lavoriamo per essere una comunità in grado di ispirare e trasforma, in modo coerente e sostenibile», racconta Myriam. Il punto di partenza è includere la promozione dell’attitudine al sogno nei curricula scolastici. «Ho avuto un’istruzione convenzionale – aggiunge –: pur amando studiare, non mi sentivo mai del tutto a mio agio.

Quando ho iniziato la facoltà di Ingegneria ho avuto modo di comprendere, parlando con i colleghi, che tanti avvertivano il mio stesso malessere. Non si sentivano stimolati: nessuno si curava di stimolare la capacità di immaginare, di andare oltre l’esistente, di trovare e sperimentare vie nuove». Per questo, Myriam ha creato la Fabbrica. «Era solo un’idea, una provocazione. Pian piano, però, è diventata un laboratorio di idee. Tanti si sono uniti. Nel 2016 siamo diventati Ong e, poi, abbiamo iniziato a lavorare via Internet per allargarci ad altri Paesi e Continenti. Il mese scorso, alla prima settimana di eventi online, hanno partecipato alle attività in 1.500 dalle varie parti del pianeta».

All’incontro di Assisi, Castelló partecipa all’interno del villaggio Politica e felicità, dove collabora alla realizzazione di un indice in grado di misurare la piena realizzazione di bambini e comunità. «Papa Francesco ha rivolto a noi giovani un grande invito a sognare insieme. Il Pontefice parla spesso dei sogni non come idee astratte ma come motore del cambiamento. Anche in ambito economico. Quando penso ai sogni mi viene in mente una grande distesa di terra. I sogni sono i semi che fanno crescere le piante, trasformando un campo desolato in un giardino, pieno di fiori colorati e alberi frondosi. Quando mancano i sogni, la terra resta arida, desolata, spoglia».

Avvenire

La rivoluzione delle bambine

La tragica fine di una bambina di otto anni spinge gli Emirati Arabi Uniti a varare una legge per la tutela dei bambini. Una legge rivoluzionaria per il mondo musulmano

wadima.mira

Di Valentina Colombo

(Zenit.org) – “Nube nera che porta pioggia”, questo è il significato del nome arabo Wadima. Ebbene, la storia di tragica storia di Wadima, bambina emiratina di otto anni, e di sua sorella Mira, di sei anni, forse porterà un raggio di sole per le nuove generazioni dell’Emirato.

Tutto ha inizio nel novembre 2011 quando, a seguito del divorzio dei genitori, Wadima e Mira vengono affidate, come previsto dai dettami del diritto islamico, alla famiglia paterna nella persona della nonna che in seguito consegna le bimbe al padre. Lo scorso giugno il corpo senza vita di Wadima viene ritrovato nel deserto a seguito delle informazioni date dalla sorellina ricoverata in ospedale per percosse. Mira, in stato di choc, narra ai medici che il padre aveva rasato il capo a lei e alla sorella per poi versarvi acqua bollente e come se ciò non bastasse le aveva violentemente percosse.

La morte di Wadima sconvolge non solo l’opinione pubblica dell’emirato, ma anche l’emiro stesso che decide di agire e legiferare in modo da evitare altri casi simili. Già nel 2010 Humaid al-Muhairi, alto funzionario del Ministero della Giustizia degli Emirati Arabi Uniti, dichiarava che “la violenza in seno al contesto familiare è sempre un fatto deprecabile”. Al-Muhairi si riferiva a un caso di violenza di un cittadino emiratino nei confronti della moglie e della figlia e ricordava che questo genere di violenza è vietata dalla sharia.

Il tragico caso di Wadima ha riportato alla ribalta il tema della violenza familiare. Da subito si è iniziato a parlare di una legge per la tutela dei bambini. Nel mese di novembre 2012 durante un convegno nell’ambito della campagna “Insieme per proteggere i nostri figli” lo shaykh Mohammed bin Rashid al-Maktum, Primo ministro degli Emirati, ha dichiarato che “tutti i bambini, senza alcuna discriminazione, hanno diritto a una vita sicura, alla stabilità emotiva e psicologica, cure costanti e protezione contro ogni pericolo e violazione”, e che “la tutela dei bambini deve essere anteposta a tutto e che i loro bisogni e diritti fondamentali sono imprescindibili”, oltre al fatto che è dovere dello Stato fare sì che questo accada.

Lo scorso 13 gennaio è stata data notizia del passaggio al vaglio del Consiglio Nazionale Federale della legge per la tutela dei bambini, legge che per volontà dell’emiro prenderà il nome di “legge Wadima” in ricordo della piccola vittima.

Si tratta di un evento straordinario nel mondo arabo-islamico, di un primo importante passo volto all’adeguamento del ricco Stato del Golfo alle convenzioni internazionali sui bambini. Settantadue articoli e dodici sezioni che vanno dal semplice divieto di fumare sui mezzi pubblici in presenza di bambini al diritto allo studio, dal divieto di vendere tabacco e alcol ai minori, a pene più severe nei confronti di chiunque ricorra alla violenza nei confronti dei bambini. La legge offre anche una definizione di diritto alla tutela e di tutto ciò che attenta alla serenità dei bambini.

E’ interessante notare come si accenni a situazioni facilmente intuibili come il caso di bambini orfani e senza tutore, ma si sottolinei la volontà di proteggere i minori “dallo sfruttamento da parte di organizzazioni illegali e dalla criminalità organizzata che diffonde idee estremiste, ideologia dell’odio” e dalla violenza nei loro confronti. L’articolo 34 riguarda, ad esempio, la tutela della sanità mentale, fisica e morale del bambino.

Si tratta di un vero atto di coraggio da parte degli Emirati Arabi Uniti che di fronte a un fatto atroce non hanno voluto né negare né occultare la gravità del problema, ma produrre una legge che per ora rappresenta un vero unicum nell’area.

D’altronde il 20,5% della popolazione degli Emirati, ovvero quasi 1.100.000 abitanti, ha un’età compresa tra gli 0 e i 14 anni. D’altronde la tutela dei bambini va di pari passo con la lotta contro l’estremismo islamico che gli Emirati stanno conducendo. Un’istruzione adeguata, una cultura che mira a proteggere la popolazione da un lato più debole, ma dall’altro quella popolazione che costruirà il futuro della nazione, corrispondono a una politica volta alla sopravvivenza interna. Proteggere le nuove generazioni significa garantire un futuro in cui ci sarà meno terreno fertile per le idee estremiste, in cui si potrà sperare di arginare l’estremismo islamico che dilaga nella confinante Arabia Saudita.

La speranza è che la legge Wadima diventi un modello da seguire nel mondo islamico e che porti a proteggere le bambine dai matrimoni precoci, dal velo imposto, dalle violenze mentali e fisiche, e a garantire ai bambini in generale una vita degna di questo nome e corrispondente alle garanzie base previste dalle convenzioni internazionali.

Soprattutto, la speranza è che l’esperienza a buon fine della piccola pakistana Malala, sopravvissuta a un attentato da parte dei talebani solo perché voleva studiare, e l’esperienza tragica di Wadima che ha però portato a una legge rivoluzionaria siano un segnale di risveglio e uno spiraglio di luce in un mondo come quello islamico che spesso vede i bambini privati dei diritti fondamentali, primo fra tutti quello di sorridere con spensieratezza al futuro.