La guerra di P’yero Il colonnino infame. Una versione aggiornata della canzone scritta 53 anni fa da De Andrè

La canzone originale

Di seguito l’articolo e il testo della Canzone riadattato

Ucraina e Russia hanno lingue diverse ma, nell’una e nell’altra, il nome Piero si pronuncia nello stesso identico modo: P’yero.
P’yero ha vent’anni.
P’yero ama la vita.
P’yero odia la guerra.
Fabrizio si dice Фабріціо in ucraino, in russo Фабрицио.
De André è sempre De André.

Questa canzone, Fabrizio De André l’ha scritta 53 anni fa, ma cambiando solo poche parole, pare scritta stanotte davanti alle immagini di donne, vecchi e bambini ucraini sotto le bombe e ragazzini russi agli ordini di un macellaio.
«Dormi sepolto in un campo ucraino / non è la rosa, non è il tulipano
che ti fan veglia dall’ombra dei fossi / ma sono mille papaveri rossi.
Lungo le sponde del mare di Azov/ voglio che scendano i lucci argentati,
non più i cadaveri dei soldati / portati in braccio dalla corrente.
Così dicevi ed era d’inverno / e come gli altri verso l’inferno
te ne vai triste col capo chino, per obbedire allo zar del Cremlino.
Fermati P’yero, fermati adesso, lascia che il vento ti passi un po’ addosso
dei morti in battaglia ti porti la voce / chi diede la vita ebbe in cambio una croce. Ma tu non lo udisti e il tempo passava / con le stagioni a passo di giava
ed arrivasti a passar la frontiera / a venti giorni da primavera.
E mentre marci con l’anima in spalle / vedi un ragazzo in fondo alla valle,
con il tuo stesso identico umore / ma la divisa di un altro colore.
Sparagli P’yero, sparagli ora / e dopo un colpo sparagli ancora,
fino a che tu non lo vedrai esangue / cadere in terra a coprire il suo sangue.
E se gli sparo in fronte o nel cuore / soltanto il tempo avrà per morire
ma il tempo a me resterà per vedere / vedere gli occhi di un uomo che muore.
E mentre gli usi questa premura / quello si volta, ti vede, ha paura,
ed imbracciata l’artiglieria / non ti ricambia la cortesia.

Cadesti in terra senza un lamento / e ti accorgesti in un solo momento,
che il tempo non ti sarebbe bastato / a chiedere perdono per ogni peccato.
Cadesti a terra senza un lamento / e ti accorgesti in un solo momento
che la tua vita finiva quel giorno / e non ci sarebbe stato un ritorno.
Irina mia, a crepare di marzo / ci vuole tanto, troppo coraggio
Irina bella, dritto all’inferno / mi tocca proprio andarci in inverno.
E mentre il grano ti stava a sentire / dentro alle mani stringevi il fucile
dentro alla bocca stringevi parole / troppo gelate per sciogliersi al sole.
Dormi sepolto in un campo ucraino / non è la rosa, non è il tulipano
che ti fan veglia dall’ombra dei fossi / ma sono mille papaveri rossi.»

Enrico Caria – Il Manifesto

De André e la forza intatta della “Buona novella”

SERGIO TACCONE – Avvenire

Ci sono album che hanno tracciato la storia della musica d’autore. Tra questi, un posto di rilievo spetta a La buona novella di Fabrizio De André, uscito nel novembre di mezzo secolo fa, che ancora oggi si staglia come insuperato per i suoi tratti contenutistico- formali. A sviscerare questo disco arriva un saggio di Mario Bonanno, giornalista e grande esperto di canzone d’autore ( Non avrai altro Dio all’infuori di me, spesso mi ha fatto pensare, Stampa Alternativa, euro 15 – >>> acquista su Amazon a prezzo scontato).

Il primo fondamento è la portata dirompente del messaggio di Gesù che per primo (e da solo) ebbe il coraggio di sfidare il potere. Bonanno analizza ogni anfratto del concept di Faber, «album emblematico di quell’umanesimo aconfessionale e a-partitico che è la cifra indicativa delle ballate di De André», riepilogo inarrivabile di poesia civile su base umanista. Gesù rappresenta un tratto identificativo nella discografia di Faber insieme alla lunga schiera di sconfitti, derelitti, sfruttati e anime salve in direzione ostinata e contraria, servi disobbedienti alle leggi del branco.

Bonanno delinea sapientemente il quadro storico che portò alla gestazione dell’album: il biennio 1968-69, cruciale nel secondo Novecento. Anni che costituiscono «l’acme dell’idealità libertaria» di quel decennio e prologo virulento delle lotte sociali della decade successiva. Un progetto, basato sui vangeli apocrifi, arrangiato da Gian Piero Reverberi e con Franco Mussida, Franz Di Cioccio, Flavio Premoli e Mauro Pagani (la futura Premiata Forneria Marconi) a curare le parti musicali insieme ad Andrea Sacchi ed Angelo Branduardi esecutore ‘non accreditato’ di un fraseggio di violino. L’album, arrivato dopo l’autunno caldo delle manifestazioni studentesco- operaiste e dopo il botto di Piazza Fontana che avvia la lunga stagione a mano armata, venne registrato a Milano, in uno studio ricavato all’interno di un teatrino parrocchiale, alquanto malmesso, di via Cinquecento, nella zona di Piazzale Corvetto, con le assi scricchiolanti e i musicisti costretti a non muoversi troppo per non far sentire il cigolio. Nessuno avrebbe scommesso su un album così apparentemente avulso dall’attualità. «Alla generazione del tutto subito e dell’assalto al cielo – ricorda Bonanno – interessava poco una storia vecchia quasi di duemila anni», non avendo compreso che per contrastare gli abusi del potere e i soprusi dell’autorità, Gesù si era fatto inchiodare ad una croce «in nome di una fratellanza e di un egualitarismo universali». L’autore sottolinea un punto: i personaggi tratteggiati da De André sono espressione di un umanesimo dolente e compartecipe al contempo, approdando a una dimensione interiore quasi misericordiosa. Come nel caso di Tito, uno dei ladroni crocifissi con Gesù, che prova dolore «nel vedere quest’uomo che muore». Il livore di Tito si stempera in un sentimento di pietà verso il Nazzareno che sulla croce si spegne come un uomo qualunque. Una pietas che per Faber è la vera redenzione del buon ladrone. Bonanno arricchisce il testo con le testimonianze di persone «informate sui fatti»: Vecchioni, Harari, Maisano e Germini. Un saggio completo su un disco che, 50 anni dopo, conserva intatta la sua forza.

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