Libro: “La sfida della gioia cristiana”

di: Roberto Mela

copertina

Un testo di grande umanità, saggezza e fede concreta. L’ho gustato appieno. Dà serenità all’anima e incoraggiamento nel cammino della vita cristiana, offrendo numerosi spunti di sano equilibrio umano e cristiano.

Licenziato in Teologia biblica, Renzo Mandirola è sacerdote della Società delle Missioni Africane (SMA) e ha svolto il suo apostolato in Africa, ricoprendo diversi ruoli di responsabilità all’interno del suo istituto. Questo fatto rende ragione della concretezza e della semplicità disarmante del suo linguaggio, delle sue analisi e dei suoi suggerimenti di vita spirituale.

La serenità del testo di Mandirola deriva anche dalla lettera paolina commentata. Scritta a metà degli anni 50, probabilmente dal carcere di Efeso, all’amata comunità di Filippi, la lettera è intrisa – in modo paradossale – da un linguaggio che invita continuamente alla gioia. Esso deriva dalla salda fede di Paolo in Gesù Cristo, sua forza e speranza, unico Lebensraum, spazio votale in cui respira, si muove, lavora, evangelizza, ama ed è riamato.

Nella sua proposta di lectio divina di Filippesi, Mandirola suddivide il testo biblico in 12 capitoletti, articolandoli in una preghiera iniziale, il testo biblico riportato per esteso e poi commentato quasi versetto per versetto (Lectio), a cui segue una serie di riflessioni articolate in modo estremamente didattico e tese ad applicare alla vita personale, familiare, sociale ed ecclesiale alcuni spunti – tra i tanti presenti – rinvenibili nel testo paolino (Meditatio). Concludono i vari capitoli una Oratio, che esprime in preghiera i temi principali della pericope, e alcune domande “Per la riflessione”. Con questo libro Mandirola suggerisce in pratica un corso dei esercizi spirituali molto concreti.

Della Lettera ai Filippesi l’autore individua una possibile spina dorsale teologico-spirituale: il dovere di fare memoria (1,1-11); annunciare il vangelo (1,12-20); Cristo, vita nostra (1,21-26), il coraggio di essere cristiani (1,27-30); al servizio della comunione (2,1-4); un esempio da imitare (2,5-11); impegno per la salvezza (1,12-18); l’importanza dell’amicizia (2,19-30); scegliere l’essenziale ((3,1-11), rimanere in corsa (3,12-21), perseverare nella gioia (4,1-9); Cristo ci basta (4,10-23).

Nella Meditatio Mandirola attualizza i temi biblico-teologici scelti applicandoli alla vita personale del lettore. Il sapersi mettere di fronte a Dio, rendendo grazie nella preghiera condivisa, si assomma alla costatazione che ogni occasione è buona per annunciare il vangelo, sapendo che Dio sa trarre il bene anche dal male. Vivere comporta scegliere, mettendo Cristo al centro e tenendo presente il servizio come cartina di tornasole della qualità della propria vita. Nessuna vanagloria, nessuna falsa umiltà, ma gioia di una vita di cui nessuno possa provare vergogna. Cristiani con i piedi per terra, saldi, privilegiando sempre l’unità come bene supremo, lottando insieme per la fede, sapendo che la vita cristiana è anche una lotta.

Nel comportamento dei discepoli di Gesù – e in modo particolare di coloro che hanno qualche incarico di servizio specifico nella comunità cristiana – va evitata la rivalità, e va invece cercata la sequela di Cristo nella sua sfida dell’incarnazione, vivendo alla maniera di Cristo: unire ginocchia piegate e schiena dritta. Presenti nel mondo. Impegnati per la salvezza, vivendo la differenza cristiana.

Nella vita è importante la gioia, la serenità, il conforto che viene dall’amicizia offerta e ricevuta, il poter contare su amici veri. Questo aiuta a scegliete ogni giorno Cristo, conoscerlo intimamente, relativizzando il passato, tendendo al futuro, ispirandosi alla croce di Cristo. Andare d’accordo con tutti, curando profondamente i rapporti umani e accrescendo la qualità della vita sono la traduzione essenziale socio-ecclesiale della vita portata e compartecipata da Cristo ai suoi discepoli. Cristo ci basta.

Nella gioia serena, portando ciascuno i pesi degli altri, si può accettare la sfida della gioia paradossale cristiana, non pensandola impossibile ma, al contrario, quale elemento indispensabile tipico del cammino dei discepoli di Gesù immersi nella vita quotidiana degli uomini.

Le note del testo sono costellate di numerose citazioni di Evangelii gaudium di papa Francesco, oltre a spezzoni di testimonianza di Martini, Bonhöffer, Francesco di Sales e altri filosofi e pensatori del passato e del presente.

Nella Lectio Mandirola riporta i termini più importanti in traslitterazione con accenti – con le immancabili imperfezioni –, suggerisce interpretazioni bibliche da me totalmente condivise, e propone quasi una decina di traduzioni alternative a CEI 2008 pienamente condivisibili.

Il linguaggio è piano, connotato dall’afflato pastorale di chi ha speso – con gioia! – la vita nell’annuncio del vangelo in Africa. Un grande valore aggiunto.

Renzo MandirolaLa gioia di seguirti. Lettura meditata della lettera ai Filippesi, EDB, Bologna 2020, pp. 296, € 24,00.

Arte e sacro. Chiesa e immagini, una lunga storia in cerca di futuro

Particolare del Crocifisso di Giotto (1301-1302) conservato nel Tempio Malatestiano di Rimini

Particolare del Crocifisso di Giotto (1301-1302) conservato nel Tempio Malatestiano di Rimini – WikiCommons

da Avvenire

Anticipiamo qui un estratto da Un amore inquieto. Potere delle immagini e storia cristiana (EDB, pagine 264, euro 19,00) di Giuliano Zanchi.

Il mondo assai variegato della vita cristiana ha riscoperto solo recentemente, diciamo una quarantina d’anni, la chiave esteticofigurale come opportunità per una generale ripresa di coscienza del proprio deposito spirituale. Le inventive della pastorale si sono riempite di immagini. I suoi discorsi si sono infarciti di enfatici richiami alla bellezza. Mi sembra aver preso quota un orgoglio per quel patrimonio di arte sacra che si fa valere proprio alzandosi sul piedistallo della storia dell’arte e che tende a mitizzarsi retrospettivamente secondo un analogo racconto di convenzione; contraendo una medesima concezione dell’immagine, apologetica e astorica, che viene rinchiusa nel guscio dorato della sublimità artistica.

Vorrei non contestare il senso di quella riscoperta, che mi sembra anzi opportuna, quanto mettere in discussione la solidità di quel piedistallo, che mi pare invece ormai inadeguato. In quella posizione infatti il lemma “arte sacra” finisce per definire il legame tra potere delle immagini e vita cristiana come un dato immutabile, assunto una volta per tutte nel suo modello uniforme, che però non riflette altro che una sorta di idealizzazione romantica dell’arte a soggetto religioso della stagione tridentina. Proiettato all’indietro, quello sguardo fa dell’intera storia cristiana una mera ripetizione della stessa gloria estetica; proiettato in avanti, ma anche solo sul presente, esso non percepisce che il vuoto lasciato dalla sua assenza, resa particolarmente luttuosa dal declino moderno della figura. (…)

La convinzione di fondo è che i bisogni della vita cristiana e il potere simbolico delle immagini hanno dato vita nel tempo a vari modelli di incontro, secondo paradigmi che ogni volta hanno assegnato all’immagine, anche quella definita sacra, una diversa funzione. È un racconto che tratteggia sostanzialmente l’avvicendarsi di tre tempi.

Il primo tracciato storico, che si slancia per un’ampiezza di quasi tredici secoli, può essere definito, seguendo il famoso titolo di Hans Belting, un’epoca di culto delle immagini. Un cristianesimo in ascesa eredita dalla cultura antica una “concezione attiva” dell’immagine che, attraverso il crogiolo della teologia e superando vecchie inibizioni aniconiche, confluisce nella funzione assegnata alla nuova immagine cristiana. Nota con il termine di icona, essa condensa un tale densità simbolica da lambire i confini del potere sacramentale oltre che rappresentare un analogo della reliquia e del segno eucaristico. Un tale potere garantisce il realismo della presenza nella delicata comunicazione tra mondo sensibile e mondo soprasensibile. In ordine alla sua efficacia restano sostanzialmente impercepiti quei particolari criteri di qualità cui si darà nel tempo il nome di arte. Sono ben più dirimenti quelle differenze di ordine teologico che permettono di distinguere un’icona da un idolo. Questa distinzione e quella che determina la funzione delle immagini sacre fino alle soglie dell’Umanesimo.

Il secondo tempo di questo racconto avviene nei confini della modernità, intesa come arco che unisce il fiorire dell’umanesimo e il suo sviluppo nei secoli della ragione. La differenza tra idolo e icona non è più cosi trasparente. La teologia provvede a separare rigorosamente le prerogative dell’immagine e quelle del sacramento. Sull’eucaristia viene posto tutto il peso della presenza reale. L’immagine diventa luogo della rappresentazione. La bolla neoplatonica dell’antica cosmologia prima si incrina, poi si dissolve. L’immagine non è più sacramento dell’altro mondo, ma rappresentazione di questo. Non significa che essa non sia più veicolo della dimensione spirituale. Ma dovrà farlo secondo un diverso ordine di mediazioni. Legata alle capacita tecniche dell’uomo, essa è ormai “opera dell’arte” e da sacramento astorico di un tempo ora entra nel catalogo di una disciplina che ha la sua autonomia e la sua storia. Infatti l’arte finirà per essere un analogo della religione, per poi prendere la propria strada.

Il terzo momento è quello in cui ci troviamo noi. La civiltà forgiata dalla ragione ha perso la fede in ogni possibile narrazione. Non esistendo più un fondamento la dimensione estetica si incarica di coprire il gigantesco vuoto della sua assenza. Le immagini non sono riflesso della verità, nemmeno rappresentazione del mondo, ma la sola realtà esistente. Nel nostro mondo tutto quello che ha pretesa di essere reale deve passare attraverso le immagini. Una nuova simbolica forte, anche se priva di una referenza trascendente. Non abbiamo ricominciato noi a parlare di icone?

La vita sociale si estetizza in ogni suo aspetto e ogni immagine del passato diventa contemporanea del suo gioco. Quello che oggi chiamiamo arte contemporanea ha assunto altre missioni. Essa permette la sopravvivenza di quel permanente iconoclasmo che nella storia combatte sempre il pericolo di una idolatria dell’immagine onnipotente. In tempo di “tirannia della bellezza” l’arte batte i palcoscenici della commedia e della tragedia. Nel frattempo la vita cristiana è finita ai margini del mondo e fatica molto a comprendere quello che vi accade. Subisce il nuovo impero delle immagini ma non sa trovare aiuto nelle arti. (…)

Il rapporto tra potere simbolico delle immagini e bisogni della vita cristiana, per quanto sempre molto fluido, ha dato vita a modelli relativamente configurati, in cui quello che ci siamo abituati a chiamare immagine sacra ha assunto caratteristiche e funzioni anche diverse. Il nostro è il tempo in cui essa, tra mille difficoltà, sta cercando la sua nuova sintesi. Ciò di cui la cultura media dei cristiani oggi non ha coscienza è proprio questa condizione di lenta emersione di un nuovo modello, avendo perso memoria della sua natura storica. Essa quindi ricorre continuamente al ripostiglio del suo passato, quando non frequenta i discount delle novità a buon mercato. Non ha pazienza. Vedere il passato come un ricettacolo di variazioni, anziché una ripetizione dell’identico, consente al futuro di prepararci novità. Così il presente può essere un luogo di attesa.

Cristianesimo e nuova post-modernità

di: Michele Lasala (a cura)

cristianesimo oggi

Michele Lasala intervista Francesco Postorino sul cristianesimo nel contesto attuale di una nuova post-modernità. Postorino ha approfondito le sue ricerche presso l’Università Paris 1-Sorbonne e si occupa di neoidealismo italiano ed europeo e di socialismo liberale. Tra le pubblicazioni recenti: Carlo Antoni. Un filosofo liberista (pref. di Serge Audier), Rubbettino; Democrazia in Lessico Crociano, La Scuola di Pitagora; Bobbio et le marxisme, Droit&Philosophie.

Benedetto Croce, nell’articolo Perché non possiamo non dirci cristiani, del 1942, scriveva che il cristianesimo è stata la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuto, e questo perché ha spalancato all’uomo l’universo della sua interiorità. Questa rivoluzione, per Croce, operò nel centro dell’anima e nella coscienza morale. Io credo che, oggi più che mai, quell’articolo possa – e debba – essere riletto e rimeditato, se consideriamo il fatto che proprio la sfera dell’interiorità è messa in pericolo (Lasala).

  • Sei d’accordo?

Quel saggio ospita una sincera e intelligente adesione al profilo culturale dell’Occidente, e non ne nascondo l’importanza; ma quelle parole non scendono in basso, non sfiorano l’altrove, non si pronunciano sul senso della cristianità, perché si rivolgono più all’intelletto o al consueto rumore della polemica che al cuore. Non dimentichiamo che, per Croce, la storia che accade è l’Assoluto, o Dio.

Per un cristiano, al contrario, la storia è la mia occasione di pronunciare il “sì” a un volto sospeso tra il tempo e l’eterno, e che mi permette di incontrare il tu. Anzi, non sono io che incontro il secondo pronome, ma Cristo che riposa in me, che urla, piange e sorride in me.

Io non sono più io, ma divento Cristo fa. Ecco perché ha ragione il teologo Karl Rahner quando dice che il cristiano del futuro o è un mistico oppure non è niente. Avere Cristo dentro non significa mostrarsi “posseduti” o indiavolati, anche perché la tua umanità non si sposta di una virgola. Ma l’amore che senti acquista una maggiore consapevolezza, la tua coscienza preferisce viaggiare negli spazi non monopolizzati dal criticismo kantiano, e la tua fragilità ha un nome e un impulso di speranza.

  • Cos’è, in breve, il cristianesimo?

Una relazione di amore con chi mi ha donato una Parola eterna e, con essa, mi permette di visitare gli occhi e la biografia del mio prossimo. Una relazione verticale e orizzontale che si nutre di tensioni, di scarto, di buio, di crisi, di intervalli che soffiano luce inedita nella storia. Una relazione che vuole la vita e rifiuta l’incubo di una morte infinita. Una relazione guidata dall’impossibile e che situa al centro il Cristo fa.

Il Cristo dentro è un Cristo in uscita. Non vi è contraddizione. Il Cristo dentro risponde alla dolce dialettica che impegna il mio nuovo io in un continuo combattimento fra la mia naturale volontà e il disegno dell’amore, fra l’egocentrismo e lo svuotamento di sé per… Cristo in uscita, infatti, significa che, appena lo tocco, non vedo l’ora di consegnarlo alle tue miserie. Ecco perché non può esistere un Cristo dentro senza un Cristo in uscita. Il Cristo dentro è già un Gesù che fugge da ogni pericolosa staticità o dal cosiddetto “demone del Mezzogiorno”. Ma Cristo in uscita non vuol dire Cristo fuori.

  • Qual è la differenza?

Il Cristo in uscita si accende quando irrompe il Cristo dentro. Se io ho Lui e sento il profumo della croce, faccio fare l’amore a Gesù con te in questo preciso istante, dove il tempo ignora le regole del Chronos di Anassimandro e predilige la fame del Kairos.

L’irruzione del Cristo

Il Cristo fuori, invece, è un Cristo che non dimora nel mio essere, un Cristo esterno e occasionale, un grande Ente che non comunica, un quadro mai esplorato. Il Cristo dentro e in uscita vince il mondo attraverso l’inedito del Cristo fa; mentre il Cristo fuori soccombe alla normativa/mondo.

  • Il Cristo fa è la replica migliore alla società materialista e capitalistica di oggi?

Il Cristo fa vince il mondo attraverso me. Il mondo è l’insieme dei miei puntini neri e vecchi che annebbiano il secondo sguardo e mi inchiodano nell’odio e nella logica-mondo che mi vuole lupo di mio fratello, tiranno e princeps per qualche dollaro in più. Il Cristo fa mi rende mistico della quotidianità, cioè una persona continuamente rinnovata, non perché io abbia meriti, talenti o perché sono bello e sapiente, ma in quanto Lui dimora nel mio spazio segreto e sconfigge i prodotti della terra intonando la bellezza e l’odore della verità. Oggi devo far fare a Cristo quel che io, nella mia debolezza hobbesiana, non posso fare. Ma non basta dirlo!

Credo che questo sia il tempo dell’azione/più. Non l’azione ordinaria di chi gode della serenità che non tocca, ma l’azione che fa un secondo evento e libera…, quella che mi permette di muovermi con Lui e verso di te. Se la mia parola è più lunga del mio sentire, torno al punto di partenza e sposo nell’estrinseco la cristianità, tifando ad oltranza per riti e folklore.

  • Quindi, mi sembra di capire, vi sono due tipi di cristianesimo?

La differenza, a mio parere, risiede fra il “mistico della quotidianità” e il “cristiano moderato”. Il primo, che prima annunciavo, non è un alieno, uno strano che parla con Dio dalla mattina alla sera, fa rosari sotto la doccia e magari elude l’incontro normale con i suoi simili.

Il “mistico” di oggi è chi ha vinto la sua ombra o il delirio di onnipotenza, e si veste del “Figlio dell’uomo”. Il mistico mangia, scherza e lavora come chiunque altro, solo che il suo io cede il posto a Cristo. E chi ha Cristo dentro non si arrabbia, non scambia il suo viso con una maschera pronta alla guerra, alle crociate, ai fondamentalismi della spada, dell’oratoria o degli stupidi scambi social.

cristianesimo oggi

Chi ha Cristo dentro non vuole vincere, non vuole arrivare primo, non rinforza la sua immagine, non si colloca al centro, non si diverte con le armi dell’individualismo proprietario, non confonde la Parola eterna con proposizioni di odio e di vendetta, proprio perché anela al Cristo in uscita e alla trasmissione imperfetta del mistero.

Nessuno è Gesù, nessuno dunque è perfetto! Nella direzione mistica, infatti, si incammina chi avverte in sé la sfida tra la sua volontà e quella di Cristo: più mi arrendo al suo messaggio (Cristo fa) e più mi affaccio al senso cristiano. Certo, ciascuno di noi naviga nelle notti del tormento a volte senza neppure un salvagente che dia sostegno. Ci si sente soli, delusi, abbandonati, non si sente più il brivido, il mistero assume le sembianze di un castigo, la Provvidenza diviene un nome appiccicato al buio che non guarisce. Nessuna preghiera consola. Nessun atto illumina. E la nostra notte rischia di intercettare il nichilismo di tutti i tempi.

Poi accadono strani velocismi: in un attimo parcheggi la croce fuori casa, dove nessuno può vederla, l’attimo dopo cerchi la luce e ti senti finalmente a disagio con il linguaggio/mondo. Questi sono, appunto, i combattimenti che non terminano mai. Nessuno è Dio! Nessuno sa davvero! Oggi è notte (l’oggi dell’uomo), oggi è mattino (l’oggi di Dio).

Il mistico contemporaneo non è una persona sicura, certissima di tutto e del suo manifestarsi. Egli deve fare i conti con il teatro della post-modernità e accarezza la vittoria sul mondo quando il suo urlo esistenzialistico, ai confini del disincanto, apre le porte all’altrove e dice “mi fido!”.

Il mistico

Vi è, però, un’altra direzione, quella del cristiano moderato, cerimoniale o seduto, che legge Dio come un Ente fra altri enti, ovvero un mio aggiornamento del curriculum esistenziale. Un Dio che vien tirato in ballo solo al momento del bisogno. Un Dio/imprenditore che deve darmi qualcosa, altrimenti non lo riconosco.

Un Dio che ci fa paura. Un Dio/Faraone che ci castiga se sbagliamo o ci premia perché siamo stati gentili in qualche frammento della nostra giornata. Tutti noi cadiamo in questa “orchestrazione religiosa”, me per primo, e spesso non ci rendiamo conto di quel Dio/amore, annunciato nella prima Lettera di Giovanni, che può essere amato e sentito nel profondo solo dal mistico.

  • Chi può essere il mistico oggi?

Chiunque! Il “mistico della quotidianità” è pronto a morire per non far morire Dio. Può scivolare, ma poi si rialza più “sconfitto” di prima. Il mistico perde per premiare te, si abbandona per non abbandonare, si fa “pennellino” per dipingere il volto di Gesù nelle anime che lo inseguono, com’è accaduto alla splendida Teresina di Lisieux. Vive in società e può essere un medico, un ingegnere, un filosofo, un carpentiere, un contadino, un politico (es. Giorgio La Pira), un sacerdote o una suora (es. suor Clare Crockett), solo che agisce con un secondo sguardo e il cuore rinnovato. Gesù dentro, inoltre, non anticipa solo il Gesù in uscita, ma anche il Gesù in mezzo.

  • Una terza dimensione?

Quando te lo consegno impazientemente (Cristo in uscita), si introduce nel senza-tempo uno spazio (Gesù in mezzo) che fotografa lo stupore di una relazione orizzontale fra l’io rinnovato (Gesù dentro-in uscita) e il tu che domanda. Il Gesù in mezzo, dunque, è il respiro-madre che unisce e divide due anime. Senza Gesù in mezzo io non posso conoscere i tuoi luoghi, la tua essenza, la tua paura, il tuo sogno, il tuo desiderio di amare e farti amare. Così le nostre umanità restituiscono alla Verità il suo pane.

Gesù dentro-in uscita e il Gesù in mezzo suonano come infinita prerogativa del mistico contemporaneo, di chi sconfigge la logica/mondo con una tripartizione che ha un solo significato, un solo nome, un solo volto.

È importante insistere sul fatto che il mistico odierno non è un cristiano esagerato, ortodosso, fazioso o post-umano. Ma è il vero cristiano! L’alternativa è il “cristiano soft” incatenato alle prigioni del mondo, schiavo del successo, del protagonismo mediatico e della volontà di potenza. Chi sente il Vangelo fino alle radici è un mistico!

  • Tornando alla prima questione, ti chiedo perché non possiamo non dirci cristiani. A mio modo di vedere, il cristianesimo è talmente radicato nella nostra cultura a tal punto che negarlo significherebbe anche negare Dante, Michelangelo, Raffaello, Manzoni… la nostra storia e la nostra civiltà.

Non sono d’accordo con un’asserzione che rivendica titoli di appropriazione e identità. Il piano ermeneutico di discussione deve essere un altro per un credente. Tertulliano ricorda che non si nasce cristiani, ma si diventa.

cristianesimo oggi

Preferisco di gran lunga la definizione (non definizione) di Romano Guardini, il quale sostiene che sarebbe addirittura più giusto dire, fino all’ultimo momento, “vorrei diventare cristiano!”. Ciò indica la verità in fieri che viene assaggiata da chi si converte ogni giorno al grido inesauribile dell’ora nona.

Il cristianesimo è un’offerta che il mio intrinseco può accogliere oppure no. Bisogna restare in questo aut-aut: una scelta che può trasformare il mio istante. Devo decidermi se inseguire la “morte di Gesù” oppure la “morte di Dio”.

A proposito di “morte di Dio”, il XX sec. è stato contrassegnato dal nichilismo, quel senso del nulla che ancora oggi pervade le nostre vite con le sue fitte ombre. Già Nietzsche sul finire dell’Ottocento ne La gaia scienza, in un ormai noto aforisma, faceva urlare a un folle, in pieno giorno e al mercato, proprio che Dio era morto. E questo perché gli uomini della modernità hanno via via distrutto i fatti della metafisica e li hanno sostituiti con le interpretazioni, e la verità è risultata così un grande inganno.

Noi, uomini contemporanei, oramai diamo per assodato che non vi sono certezze assolute e che soprattutto non c’è nulla oltre l’esperienza mondana. Ma la cosa più terrificante è che questo nulla non spaventa più. Non è più vissuto come un dramma. Anzi si potrebbe perfino dire che gli uomini vivano in un costante divertissement di pascaliana memoria e, ubriacati dalle distrazioni mondane, più che vivere, si lasciano vivere (Lasala).

Nei Four Quartets del 1959, il poeta T.S. Eliot ci ricorda che: « […] i capitani, i grandi banchieri, gli eminenti letterati, i generosi mecenati dell’arte, gli statisti e i sovrani, distinti impiegati statali, presidenti di molti comitati, industriali e piccoli mediatori, tutti vanno verso il buio […] e noi insieme a loro».

Con la morte di Dio, del resto, muoiono le condizioni storiche e trascendentali dell’uomo-cielo, di colui che può vivere partendo dal linguaggio misterioso della morte di Cristo. Vorrei riprendere la battuta finale e provocatoria della risposta precedente.

Gesù che muore

Occorre scegliere tra la “morte di Gesù” e la “morte di Dio”. La morte di Gesù è l’inizio della seconda vita, il gusto di una seconda possibilità che finalmente posso sperimentare, il desiderio di decentrarmi, di annullarmi con il sorriso di nessun tempo, la scelta di rivivere i chiodi perché Lui l’ha fatto per me senza che io glielo chiedessi, la strada che conduce alla tua porta, la voglia di scendere con spregiudicatezza in te, come Gesù ha fatto con la samaritana.

Gesù, infatti, detesta il politicamente corretto, non è un formalista o un uomo dalle buone maniere. No! Lui entra a gamba tesa e scava nelle ferite più profonde. Non dà soluzioni, ma sta con me. Il suo sentirsi abbandonato nell’ora nona è il mio sentirmi abbandonato, il mio smarrirmi nelle peripezie del silenzio e dell’angoscia. Lui lo sapeva, per questo urla l’abbandono. Non tradisce, e ci invita a mostrarlo agli altri e vuole che altri lo mostrino nuovamente a me, con Lui che gioca in mezzo tra le mie inquietudini e le tue domande.

La morte di Dio, invece, è un deserto senza acqua né meta, il buio che inizia già in questa vita. La morte di Dio è l’estinzione dello spazio entro il quale posso affidarmi alla luce inedita. Quando Dio muore, realizzo una nuova crocifissione di Gesù – che non è la “morte di Gesù” nel senso spiegato prima – e faccio resuscitare le ambizioni di un superuomo che riposa nel mio istinto di sopraffazione. Se Cristo vince il mondo con la sua morte, con la morte di Dio/Padre subentra, al contrario, quell’Übermensch che attende il momento propizio per vincere nel mondo.

La morte di Gesù indica lo spegnimento del mio volerti dominare, e mi suggerisce con amore l’Amore dell’inaudito. Io posso morire per te e ridurmi a un niente, poiché Lui si è ridotto a niente. E solo un niente può finalmente incontrare l’essenza del tu.

Con la morte di Dio, per converso, io posso ucciderti, comprarti, oppure abbandonarti ai margini del dolore più oscuro, o ancora potrei dirti che pregherò per te e che ti affido alla Provvidenza, mentre al contempo non ti sento, non ti guardo, non ci sei, non hai un volto, dato che ho eliminato il volto della Verità dal mio cuore. In fondo, basta un attimo per passare dalla morte di Gesù alla morte di Dio, cioè dalla luce alle tenebre, dalla Verità alla menzogna.

  • Se ho ben capito, la morte di Gesù, che distingui dalla morte di Dio, è la Verità senza tempo, il mistero che oggi fa fatica ad emergere. Non ti sembra che, oltre alla morte di Dio, segno dei tempi, si possa a buon diritto parlare anche di “morte dell’uomo”?

Oggi la morte di Dio tende a scavalcare la morte di Gesù in modo scioccante. Uno scandalo che rischia di trionfare sullo scandalo del crocifisso. Anche se è bene insistere, secondo me, sulle lotte interiori e provare a far poca sociologia. Oggi – l’avverbio adottato dodici volte nel Vangelo di Luca – devo impiegare la scelta fra due morti incompatibili: la morte di Gesù mi permette di spegnere la sete di dominio e mi offre un’altra sete tutta da sperimentare; la morte di Dio mi fa bere la stessa acqua della finitudine, intristisce il mio cuore e mi lancia alla ricerca di un dio al minuscolo che fabbrico con mano rozza o intelletto “sapiente”.

La morte di Gesù invoca la morte (positiva) dell’uomo, quella che agogna lo spettacolo dell’infinito; la morte di Dio corteggia la morte (negativa) dell’uomo, quella che mi fa esibire i muscoli e lottare contro di te nel mio oggi, per poi consegnarmi a una disperazione perpetua e senza voce.

Il “fanciullo” di Nietzsche si è aggiudicato la partita a scapito del “cammello” e del “leone”. La sua innocenza deresponsabilizzante è pronta a esprimere un “sì” potentissimo alla terra e a un eterno ritorno dell’uguale nulla. Il nichilista che ha ucciso Dio è un fanciullo che accade nell’insensato e ride di ogni cosa, soprattutto della morte di Gesù.

In nome della laicità – e, se vogliamo, anche a causa di questa “innocenza deresponsabilizzante” –, si è arrivati a togliere i crocifissi dalle aule scolastiche. Nella nostra epoca ognuno deve sentirsi libero di professare o non professare una religione. La questione però è ancora più complessa, perché togliere il crocifisso non è un atto di libertà, bensì un’azione violenta contro la nostra stessa cultura, contro il significato del messaggio di Cristo, che è universale proprio perché smuove lo spirito dell’uomo.

Negare il cristianesimo è negare il principio su cui esso si fonda: «ama il prossimo tuo come te stesso». Non vedere il volto di Gesù è non vedere il volto dell’uomo; e il volto dell’altro, inteso come apertura e come infinito (Lévinas) non desta più in noi nessun interesse. Non sentiamo più alcuna responsabilità nei suoi confronti e siamo diventati sordi all’appello della sua presenza. Non siamo più in grado di compiere una rivoluzione simile a quella che compì Cristo quando «vide» Zaccheo in mezzo alla folla e lo chiamò per nome (Lasala).

  • Fu la prima volta che quell’usuraio si vide nella sua dignità di uomo. Tu come interpreti questo nostro rifiuto del volto di Gesù?

Vi è nell’aria molta stanchezza e disincanto. Il vento che «soffia dove vuole» fa i conti con il vento dell’indifferenza che spara contro l’impossibile. Perché la fede in Gesù è l’occasione dell’impossibile. Le nostre categorie, l’appercezione kantiana, le nostre abitudini non possono contenere il suo mistero. Ecco perché preferiamo condannarlo di nuovo con Pilato, piuttosto che amarlo.

Disincanto

Il mondo suggerisce il possibile e noi gli crediamo. Gesù ci esorta all’impossibile e pertanto lo respingiamo.

cristianesimo oggi

Ci fidiamo del primo battito, del primo compromesso, della prima risposta. Non ci fidiamo della possibilità dell’impossibile: la raffigurazione di un castello interiore ed esteriore (come hanno detto due mistiche), nel quale l’impossibile diviene vita.

E questo impossibile che diviene vita, in effetti, può soltanto accadere se l’uomo comincia a guardare dentro di sé, riscoprendo quella umanità o quella spiritualità che ha purtroppo dimenticato proprio con il suo “sì” alla terra. Ma non quella umanità o “autenticità” di cui parlava Heidegger, che si risolve nell’angosciante nulla, bensì quella che invece si rivela essere – come sosteneva Luigi Stefanini – imago Dei: immagine di Dio (o il “Cristo dentro”, come dici tu) in quanto creata da Dio.

Solo così l’uomo non potrà più essere inteso come un «essere-per-la-morte», ma come un essere per la vita, per l’amore e per l’altro. Insomma, un’apertura sull’impossibile che rifiuta l’accettazione del limite – e della morte – quale unica dimensione possibile per l’esistenza. E, in un certo senso, quella bella frase di Guardini che tu prima ricordavi si accorda con la posizione di Stefanini, perché in fondo voler diventare cristiano significa voler scoprire, giorno dopo giorno, quel Dio che è già dentro di noi, in un percorso che è sì interiore ma capace allo stesso tempo di spianare la strada verso la “possibilità dell’impossibile”, creando un ponte tra me e te al di là di ogni indifferenza. Un percorso che, a ben guardare, richiama anche le riflessioni della Stein sul valore della persona.

Ma il dramma del nostro tempo pare essere l’agnosticismo. Si tende a credere soltanto a ciò che è possibile attestare, verificare. Se c’è un altrove oltre l’esperienza non è dato conoscere. Se c’è un Dio o un Principio al di là dell’accadere non è questione di cui ci si debba preoccupare. Viviamo in una sorta di gaio “non so”, perché l’ignoto non è più motivo di interrogazione (Lasala).

  • Come interpretare questo nostro agnosticismo che si sottrae alle domande più radicali?

L’agnosticismo è la religione della prudenza. Se io non so, se non riesco a vederti, a toccarti, a intercettare le tue smorfie, i tuoi rimproveri, la tua approvazione o la tua stretta di mano, come potrei convincermi della tua esistenza? Comprendo le ragioni dell’agnostico. Anch’io la pensavo così, e i miei volumi precedenti – specie l’ultimo del 2018, dal titolo L’altro Croce. Un dialogo con i suoi interpreti – si cullavano sull’importanza del Sollen kantiano o di quello “azionista” enunciato nel secolo scorso, insomma sul perfetto “dover essere” dagli accenti cosmopolitici che non può coincidere con la grigia contingenza (mondo/storia), elogiata in vario modo dalle correnti filosofiche dello storicismo.

Non rinnego il brivido di voler cambiare le cose. Tutt’altro! Ma il principio primo, il fondamento da cui promana ogni possibilità/impossibile non può rinchiudersi in un condizionale privo di calore; altrimenti la rivoluzione non sarà mai autentica, e l’unica che non può fallire è quella del cuore.

  • Il “non so” non può migliorare il mondo?

Al contrario, l’agnosticismo può migliorare il mondo! Il punto è se riesce a vincerlo, e la risposta è no! Per vincere il mondo, serve Cristo, occorre un corpo, una verità che si fa domanda. Solo un volto, infatti, può permettermi di sentire un altro volto.

L’agnosticismo moderno e contemporaneo costituiscono la variante negativa dell’incertezza; la fede cristiana, invece, rappresenta la variante positiva dell’incertezza. Chi ha fede, infatti, non ha alcuna risposta in tasca. Semplicemente si fida. Non può vedere con chiarezza se accende gli occhi dei sensi. Ha fede chi antepone la pazzia di un mistero all’insipida ragionevolezza del mondo.

La differenza fra il credente e chi si muove nel perimetro agnostico è che il primo non sa e tuttavia avanza nell’inesplorato, sente, si sgancia dall’ovvio e guadagna l’impossibile.

L’agnostico si ferma presto, si fida di “se stesso” e del suo irriducibile io. Ma c’è una differenza ancor più sottile: l’agnostico non può amare sul serio il secondo pronome. Non può amare l’altro di un amore inedito e ricco di gratuità. Al massimo lo può tollerare, come insegna la scuola del riformismo laico e illuminista, oppure lo può rispettare. Non va oltre!

Se si opta per l’incertezza negativa (agnosticismo), si accorcia il nostro essere “esigenti” e si è troppo disorientati per costruire ponti fra uomini e donne, anche perché alla prima tempesta esistenziale si cade giù. Il cristiano moderato, cioè chi ha Cristo fuori, è complice di questa linea agnostica che finisce per arrendersi al vocabolario del mondo. Naturalmente, chi gode di una “certezza di Dio” – tipico approccio fondamentalista – vive uno stato di perfetta tranquillità, calma e lungo riposo; di conseguenza, si abbassa il brivido e, al nuovo disturbo, i ponti si traducono in muri col filo spinato.

cristianesimo oggi

Scienza

L’amore cristiano, l’agape, il trascendente che si fa carne può essere scoperto e vivificato solo da chi entra, con i segni dello stupore e di una positiva incertezza, nelle dinamiche del Cristo dentro-in uscita. Se io ti rispetto o ti tollero, non morirò mai per te, perché non ho Lui in me.

Certo, nei labirinti del bellum omnium contra omnes è già qualcosa avviare le pratiche della tolleranza o del rispetto; ma oggi devo scendere nelle vie paradossali e dipingere con il “pennellino” il Cristo fa, situando in mezzo fra due sfumature una croce che unisce nel grido.

Secondo Russell la religione era nata a causa della paura dell’ignoto e dell’occulto; ma questa paura per lui poteva essere rimossa soltanto dalla libertà della ricerca scientifica. Io faccio fatica a credere che la religione nasca dalla paura, né sono convinto che si possa parlare di libertà in relazione alla ricerca scientifica.

Al contrario, la scienza ci costringe, con le sue minuziose analisi, a restare entro gli orizzonti dell’esperienza arrestando così il pensiero. Non permette di pensare una realtà ulteriore rispetto a quella fisica, e ci imprigiona nella gabbia del misurabile. La religione, al contrario, allarga il pensiero e lo apre all’universale. «Le favole del mondo – scriveva Michelangelo – m’ànno tolto il tempo dato a contemplare Iddio» (Lasala).

  • Che importanza può avere oggi la religione, considerando che queste “favole” sono diventate la nostra dimora?

La tecnica imperialistica risponde, in verità, al paradigma religioso. La religione, infatti, è un dogma che ci allontana dall’imprevedibile e dallo stupore di una relazione.

I fanatici della scienza, della tradizione, gli atei del super-materialismo sono religiosi esattamente come quel “cristiano cerimoniale” che abbiamo visto prima: il cristiano senza Cristo ma con un Dio/imprenditore che deve esaudire i miei desideri qui e ora. La religione, in breve, non è la fede. La prima rifiuta l’amore; la seconda si nutre di un incontro ambientato nell’eterno, di uno scambio di verità e di respiri.

  • Come rispondere alle pretese della scienza e della tecnica?

Si risponde alle pretese della scienza non con l’ira del fondamentalismo, cioè con una diversa religione; bensì con gli occhi della fede, gli occhi di Giobbe, occhi umani, semplici e in tensione che, nonostante il male inspiegabile nel qui e le oneste arrabbiature verso Dio durante la notte esistenzialistica, continuano a fidarsi. L’alternativa è una falsa partita a scacchi contro le “serene” manovre del nichilismo.

settimananews

PACE Dialogo interreligioso: alla comunità monastica di Deir Mar Musa a Cori una giornata sulla figura di Maria tra cristianesimo e islam

agensir

“Con Maria, vivere insieme in pace”: è il tema di un incontro per l’amicizia tra islam e cristianesimo in programma oggi dalle 14,45 nel monastero di San Salvatore a Cori (Lt). L’iniziativa è promossa dalla comunità monastica di Deir Mar Musa, fondata in Siria da padre Paolo Dall’Oglio e che ha il proprio studentato a Cori, e dall’associazione Amici di Deir Mar Musa. “La Vergine Maria, madre di Gesù, è un ponte d’incontro tra cristiani e musulmani – spiegano gli organizzatori –. L’incontro nel mese mariano incrocia due eventi: la festa islamo-cristiana ‘Insieme a Maria’ e la seconda Giornata internazionale del vivere insieme in pace Attorno a lei, Sayyidatnā Maryam, Nostra Signora, e nel rispetto dell’identità di ciascuno, vogliamo riunirci per vivere un momento di fraternità”. Sono previsti interventi di rappresentanti delle due fedi e di esperti e persone legate alla sensibilità mariana. Tra questi: i teologi musulmani Shahrzad Houshmand e Adnane Mokrani, padre Jacques Mourad di Deir Mar Musa, Paola Di Martino del Masci di Roma, la storica Nassima Bougherara, Federico Baiocco dell’Unitalsi, Ambrogio Bongiovanni del Magis, la scrittrice italo-siriana Asmae Dachan e la filosofa musulmana Tehseen Nisar Hussain. “Condivideremo una giornata di preghiere, canti e testimonianze, per conoscere meglio le nostre diverse tradizioni religiose, per arricchirci di ciò che di bello e di buono gli altri ci offrono, per coltivare pensieri di inclusione e di reciproca stima” concludono i promotori.