Ebraismo e cristianesimo. Sedici schede per conoscersi. A cominciare dalla scuola

Sedici schede per conoscersi. A cominciare dalla scuola

Sedici schede per «conoscersi meglio». Ma anche per combattere e cancellare «pregiudizi e stereotipi anche nelle parole e nelle immagini». Sono le sedici schede messe a punto dal gruppo di lavoro congiunto della Conferenza episcopale italiana (Cei) e dall’Unione delle Comunità ebraiche italiane (Ucei). Testi destinati ai libri di religione utilizzati nelle scuole italiane durante l’insegnamento della religione cattolica e che intendono sgomberare il campo dagli ostacoli per una conoscenza reciproca basata su dati reali. L’occasione per presentarle è la “due giorni” apertasi ieri pomeriggio a Ferrara, significativamente presso il Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah (Meis) e che oggi vivranno un momento di laboratori nei quali saranno coinvolti i docenti di religione, primi destinatari di questo complesso lavoro che ha visto una gestazione durata alcuni anni e condotta congiuntamente da cattolici ed ebrei.

«Abbiamo cercato di offrire un prodotto affinché i testi scolastici non siano più fonte di errori o pregiudizi» ha commentato rav Ariel Di Porto, che con Ernesto Diaco direttore dell’Ufficio Cei per la scuola e responsabile del Servizio nazionale dell’Irc, ha presentato le schede. «Riconosco che la Cei ha mostrato grande sensibilità nel coinvolgere il mondo ebraico nell’estensione delle schede» ha aggiunto Di Porto.

«Penso che sia una operazione importantissima per educare le giovani generazioni – ha aggiunto da parte sua Ernesto Diaco – anche perché questi libri di testo in molte famiglie rappresentano uno dei pochi testi che parlano di religione e dunque è importante che i contenuti aiutino il dialogo e una conoscenza reciproca corretta».

Proprio il tema della conoscenza che elimina stereotipi e pregiudizi è stato sottolineato anche dai numerosi interventi di saluto all’incontro. «Un esempio di come si attua il principio di responsabilità» – ha detto Noemi Di Segni presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane -. Un piccolo passo, ma allo stesso tempo grande verso l’obiettivo di una reciproca conoscenza». Sulla stessa linea anche il segretario generale della Cei, l’arcivescovo di Cagliari Giuseppe Baturi (in collegamento video). «Queste schede aiutano i nostri giovani ad aprirsi alla realtà e al dialogo con gli altri – ha detto il segretario generale della Cei -. Del resto lavorare sui ragazzi e sulla loro educazione significa anche investire sulla possibilità di costruire la pace. E in questi tempi c’è ne proprio tanto bisogno». Una educazione necessaria anche a contrastare quei rigurgiti di antisemitismo che in questi ultimi tempi sembrano essere aumentati. Un caso anche a Ferrara, la città che sta ospitando questa “due giorni”, come ha ricordato il presidente della comunità ebraica di Ferrara, Fortunato Arbib nel suo saluto. «Senza una vera conoscenza – ha sottolineato l’arcivescovo di Ferrara-Comacchio Gian Carlo Perego – si alimenta soltanto l’odio perché non si percepisce l’altro come proprio fratello. Ecco l’importanza del dialogo e la lotta a stereotipi e pregiudizi». Soddisfazione per questo lavoro è stato espresso anche dal rabbino capo di Roma rav Riccado Di Segni e dal presidente dell’Assemblea rabbinica italiana rav Alfonso Arbib, entrambi in collegamento video all’evento, al quale il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara ha voluto inviare un messaggio portato dalla responsabile della comunicazione del ministero Alessandra Migliozzi.

Da ieri sui siti della Cei e dell’Ucei sono a disposizione di tutti queste sedici schede, anche se l’evento di presentazione si è concluso con un gesto significativo: il vescovo di Forlì-Bertinoro Livio Corazza (delegato dei vescovi dell’Emilia Romagna per il dialogo interreligioso) e la presidente dell’Ucei Noemi Di Segni hanno consegnato le sedici schede ai rappresentanti di alcune case editrici di libri scolastici.

Chi sono e in cosa credono gli ebrei

di Riccardo Maccioni

Per conoscere meglio l’altro è bene che sia lui a raccontarsi. Vale nella normale vita di relazione, a maggior ragione è regola nel dialogo tra le fedi, anche se si fondano su una radice comune. Per questo è particolarmente significativo il lavoro portato avanti insieme dalla Conferenza episcopale italiana (Cei) e dall’Ucei (Unione delle comunità ebraiche italiane). Le sedici schede presentate ieri sono un modo per approfondire la conoscenza dell’ebraismo lontano dai pregiudizi che tanto male hanno provocato in passato e contribuire a sradicare sul nascere quei germogli di antisemitismo che periodicamente riemergono, pure nel nostro Paese.
Si tratta di una concreta testimonianza – spiega la nota introduttiva alle schede – di «come il processo avviato dal Concilio Vaticano II, in particolare con la dichiarazione “Nostra Aetate”, sia attivo, efficace e necessario. È per noi un punto di non ritorno – recita ancora l’invito alla lettura – che ha dato avvio a un processo irreversibile: dall’insegnamento del disprezzo all’insegnamento del rispetto fino al dialogo, al riconoscimento reciproco, all’amicizia, alla collaborazione. Un cammino lungo irto di difficoltà ma anche già ricco di frutti»,
E il fatto che questa pubblicazione sia destinata ai ragazzi e ai loro insegnanti va proprio nella direzione del laboratorio, del cantiere in cui lavorare perché diventi casa di un’autentica cultura del rispetto. In più, particolare non da poco, queste pagine di approfondimento e studio sono scritte in maniera chiara, semplice e rispondono a “curiosità di base” sull’ebraismo e chi lo professa. Comprese le domande che altrimenti non si avrebbe il coraggio di porgere.
Complessivamente le sedici schede sono divise in tre grandi aree: “i concetti fondamentali”; “la vita della comunità ebraica” e “la storia dell’ebraismo”. Tutto il necessario insomma per vincere i pregiudizi e scoprire quanto patrimonio comune unisca cristiani e ebrei. Quanto ai contenuti si parte dalla composizione della Bibbia ebraica o Tanakh e dalle diversità con quelle cristiana per poi soffermarsi sull’unità tra Torah scritta e orale, sul nome di Dio nell’ebraismo, su Israele popolo eletto, sulla relazione tra giustizia e misericordia fino al capitolo sui precetti che l’ebreo è tenuto a rispettare: 613 di cui 365 (come i giorni dell’anno) divieti e 248, il numero delle parti che compongono il corpo umano, doveri.
La seconda parte della pubblicazione riguarda invece, se così si può dire, i ritmi della comunità ebraica, il suo calendario, le feste e i riti che lo cadenzano, la centralità dello Shabbat, il sabato, e il valore del digiuno, i compiti dei rabbini, le tappe (dalla circoncisione al matrimonio alla sepoltura), che segnano l’esistenza di un fedele “normale”, la presenza femminile, il popolo d’Israele e la sua terra. L’ultimo grande capitolo o area 3, infine, tratta più direttamente i rapporti tra cristianesimo ed ebraismo. A partire, e non potrebbe essere altrimenti, dalla figura di Gesù e, subito dopo, da un focus su Paolo. Quindi la storia degli ebrei italiani e il dialogo ebraico-cristiano con la svolta impressa dal Concilio Vaticano II. Il tutto presentato in estrema sintesi con il supporto di un’agile bibliografia pensata per chi voglia approfondire i contenuti della singola scheda. L’ultima, molto interessante, è dedicata al significato corretto di alcuni termini da ebreo ad antigiudaismo, antisemitismo, antisionismo, fino alle correnti dell’ebraismo. Un modo per capire quante cose non si sanno e colmare la lacuna. Sui banchi scolastici. Ma anche dopo.

avvenire.it

PENSARE LA FEDE Attraversare, cambiando, il pomeriggio del cristianesimo

Pomeriggio del cristianesimo

«Abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla»: così rispondono i discepoli al Nazareno che si affaccia sulla loro barca, chiedendo loro di prendere il largo. Su questa immagine evangelica si innesta il nuovo libro del filosofo e teologo ceco Tomaš Halík, Pomeriggio del cristianesimo. Il coraggio di cambiare (Vita e Pensiero, 2022, pp. 275), perché stanchezze, delusioni e dubbi sono ancora oggi presenti in tanti cristiani, che ‘hanno faticato tutta la notte’ per portare l’annuncio di Cristo risorto, raccogliendo però reti vuote. Ma, dice l’autore, ancora oggi può risuonare l’invito a prendere il largo, gettando le reti in mare, questa volta riempiendo la barca di pesci. Tuttavia, dove gettare le reti? In che modo pescare? In che modo cambiare per poter pescare? Verso quale meta ci indirizza oggi lo Spirito?

A queste risposte prova a rispondere Halík, forte della sua esperienza di accompagnatore spirituale e docente in un’Università laica a Praga, di studioso e di uomo immerso nel suo tempo, in una nazione, la Repubblica Ceca, che conosce tassi altissimi di secolarizzazione, dopo l’oppressione nazista prima e il lungo regime comunista dopo. Infatti, la prima questione da mettere a fuoco, è che il teologo è in primo luogo un testimone e un pastore che costruisce le sue riflessioni a partire da ciò che è la sua esperienza sul campo: 3000 gli adulti da lui battezzati nel corso degli anni, dopo la caduta del comunismo, quando finalmente egli poté rivelare il suo essere sacerdote cattolico (dopo gli anni della ‘chiesa del silenzio’). Quindi, le sue si configurano come riflessioni fortemente radicate nella concretezza pastorale, nell’ascolto, e poi nello studio, nella ricerca, nella preghiera, nel dialogo con intellettuali, cristiani o laici. Da qui nasce la convinzione profonda di Halík: «Se il cristianesimo deve superare la crisi in cui versano molte delle sue forme attuali e divenire una risposta ispiratrice di fronte alle sfide di questa epoca di grandi cambiamenti della civiltà, deve oltrepassare con coraggio molti odierni confini mentali e istituzionali. È giunto il tempo del superamento di sé del cristianesimo».

I segni dei tempi

Per compiere tale superamento è necessario avviare con coraggio un discernimento lucido dei segni dei tempi, cercando di capire che cosa Dio sta dicendo nella storia che stiamo attraversando, secondo una metodologia ermeneutica che si pone all’incrocio tra teologia, filosofia, sociologia, una metodologia che l’autore definisce cairologia, intesa come «esperienza ermeneutica teologica della fede nella storia»; cairologia, dunque, da kairos, perché il momento che viviamo è una crisi opportuna per ripensare (e rivivere) il messaggio evangelico, avendo la consapevolezza che Cristo risorto è vivo e presente e, pertanto, la storia diviene luogo teologico e luogo di rivelazione: «per la Bibbia il luogo della teofania è innanzitutto la storia». Essa non è affidata al caso – «Non è forse la storia il ‘terzo libro’, accanto alla Bibbia e alla natura?» – poiché nel tempo misteriosamente si compie la guida dello Spirito.

Sono anni, questi che viviamo, in cui imperversano due pandemie: non solo quella del virus, ma anche quella degli abusi sessuali, uno scandalo che secondo il teologo ceco è pari a quello della vendita delle indulgenze che accelerarono la Riforma luterana (nel libro non si parla di guerra in Ucraina, essendo stato licenziato nella sua prima versione ceca nel 2021, ma nella presentazioni de visu l’autore richiama anche questo fatto e l’uso errato ed identitario del cristianesimo che caratterizza il conflitto).

Oggi il cristianesimo è in una grandi crisi, culmine di un processo iniziato con la Riforma e via via sempre più aggravatosi, in una dicotomia pugnace con il mondo moderno, culminato nella cosiddetta «età piiana» (da Pio IX a Pio XII), quando la Chiesa di Roma è divenuta animatrice di una controcultura sempre più combattiva, che ha causato però una esculturazione del cristianesimo, poiché ha messo in atto «un’autocastrazione intellettuale riducendo al silenzio, nella sua battaglia antimodernista, molti pensatori creativi presenti tra le sue file. Così, all’apice della modernità, ha perso la capacità di condurre un dialogo dignitoso con la filosofia del tempo e con una scienza in tumultuoso sviluppo». E quando, con il Concilio Vaticano II, la Chiesa ha invertito la rotta entrando in un dialogo costruttivo con il mondo, liberandosi da nostalgie premoderne, era però trascorso troppo tempo. I frutti del Concilio sono stati buoni, ma nel mentre il mondo è entrato nel postmoderno e nell’età di Internet, che Halík data simbolicamente a partire dal 1969, anno dello sbarco sulla Luna e del primo microprocessore, quindi pochi anni dopo la chiusura del Concilio.

Il pomeriggio della vita e del cristianesimo

Avvertiamo oggi, secondo il sacerdote ceco, l’apice di una crisi di maturità del cristianesimo, tanto nei modelli banalizzanti del kitsch, quanto in forme superficiali di spiritualità che assumono i modi della psicoterapia, così come nelle forme di un cristianesimo identitario e strumentalizzato a livello politico, anche nelle sue autoconsolatorie spinte tradizionaliste (e i recentissimi dibattiti ecclesiali confermano la lettura di Halík), assai sterili nel loro distanziarsi dall’umanità: «il tradizionalismo e il fondamentalismo, che sono a loro volte forme della scena religiosa contemporanea, non sono una mera prosecuzione della religione premoderna alla quale si riferiscono, ma piuttosto un fenomeno moderno, e nel loro sforzo di imitare e fissare una certa forma di religione del passato divengono anzi antitradizionali: negano la sostanza stessa della tradizione, che è movimento creativo di ricontestualizzazione dei contenuti religiosi e loro adattamento a nuovi contesti». Così, mutuando da Jung l’immagine delle fasi della vita come fasi del giorno, egli ritiene che oggi abitiamo il pomeriggio del cristianesimo, per cui la Chiesa può essere come l’uomo nella maturità inoltrata e nella vecchiaia, il quale molto spesso attraversa una crisi che può essere un invito a una discesa nel profondo, un’occasione per portare a compimento un «processo di maturazione di tutta una vita», generando «lungimiranza, saggezza, pace e tolleranza, la capacità di controllare le emozioni e di superare l’egocentrismo», così giungendo a pienezza. Oppure l’uomo può adempiere male il compito del ‘pomeriggio’, vivendo «rigidità, disordine emotivo, ansia, sospettosità, meschinità, autocommiserazione», insieme a paura e terrore. Ugualmente, il cristianesimo odierno rischia di ‘invecchiare male’ o di non scendere nel profondo, al cuore del messaggio di Gesù di Nazareth. In questo modo, corre il pericolo di non cogliere più la dinamicità della vita di fede, che è sempre una sequela e non un deposito statico che congela esistenze e spinte di rinnovamento, primariamente biografico. Perché, dice il filosofo ceco, la religione non è mai morta né, di conseguenza, è mai ‘ritornata’, solo ha cambiato forme e oggi si presenta con i tratti di un forte desiderio di spiritualità, nelle vie del mistero che sono più apertura verso l’azione di Dio che chiusura in formule e definizioni (Halík in ogni libro si dimostra sempre vicino alla tradizione della teologia negativa). Egli afferma a riguardo: «Il compito che spetta al cristianesimo nella fase pomeridiana della sua storia consta in gran parte dello sviluppo della spiritualità, e una spiritualità cristiana compresa in modo nuovo può contribuire significativamente alla cultura spirituale dell’umanità di oggi anche lontano dai confini delle Chiese».

Quattro vie per l’oggi

Dopo una acuta e intelligente ermeneutica dell’attualità (che deriva diverse categorie da Bonhoeffer, De Chardin, Raner, De Certeau, Taylor), traendo spunto da alcune grandi immagini di Papa Francesco, Halík propone quattro concetti ecclesiologi da approfondire e da immettere nella vita. Il primo è quello della Chiesa come «popolo di Dio in pellegrinaggio nella storia», ossia una «Chiesa in movimento e alle prese con incessanti cambiamenti»: ciò porta – secondo la teologia processuale – a maturare una concezione dinamica di Dio e quindi della Chiesa, in un incessante movimento escatologico.

Il secondo concetto riguarda la Chiesa come «scuola di vita e scuola di sapienza». Secondo il principio medievale del contemplata aliis tradere (trasmettere ciò che prima si è contemplato), «anche nelle società ecclesiali moderne – le parrocchie, i conventi, i movimenti ecclesiali – si dovrebbe rinnovare questa cultura del dialogo con Dio e fra i cristiani, l’unione di teologia e spiritualità, di formazione religiosa e cura della vita spirituale». Il tutto mettendo al centro del dialogo, della ricerca, della discussione il cuore del cristianesimo, ossia le tre virtù teologali, chiedendosi cosa significhino per l’umanità di oggi fede, speranza e amore.
Il terzo concetto ecclesiale è quello della Chiesa come ospedale da campo, ossia una comunità che vada a cercare i feriti dalla vita, siano essi socialmente, psicologicamente, fisicamente, spiritualmente feriti, provando a portare cura e guarigione (in questo senso, sono davvero intense le pagine in cui Halík racconta della sua opera di ascolto della persone che hanno subito abusi sessuali da parte di figure religiose).
Il quarto concetto è, infine, quello della Chiesa come spazio di accompagnamento spirituale, per cui essa dovrebbe farsi promotrice di luoghi di adorazione e contemplazione, di silenzio, di incontro e dialogo, «dove sia possibile condividere l’esperienza della fede», nella certezza della presenza continua dell’incarnazione di Dio in Cristo, quindi della sua permanenza in ogni situazione umana. In questo, ecco la proposta di ripensare alle parrocchie più come centri spirituali e non più come semplici comunità territoriali.

In tal senso, ciò che possono essere necessarie rivisitazioni nel campo della morale, dell’organizzazione ecclesiale, del sacerdozio, della presenza femminile – superando una volta per tutte moralismi sterili e fobie sessuali: «La mentalità pubblica secolare ha cominciato a percepire la Chiesa come una sorta di società arrabbiata, ossessivamente interessata ad alcuni temi (aborti, profilattici, rapporti omosessuali) cui rivolgere continuamente e incomprensibilmente il proprio anatema; le persone sapevano contro cosa fossero i cattolici, ma hanno smesso di capire per cosa fossero» – si vanno a porre come passi dentro una più ampia metanoia della vita di fede, del singolo e delle Chiese, secondo intensità, modalità e carismi differenti ma integrabili. In tal modo, passando da cattolicesimo a cattolicità, quindi a una vera universalità, in dialogo con tutti (Fratelli tutti è uno dei grandi punti cardinali della riflessione di Halík), i cristiani potrebbero tornare a essere «quelli della via», secondo la felice definizione degli Atti degli Apostoli, cioè quelli sulla via della sequela nelle vie del mondo. Insomma tornare a essere nel mondo senza essere del mondo. E uscire, come Abramo, nella fiducia della vicinanza di Dio, perché, ricorda Halík, «nessuno è al di fuori dell’amore di Dio».
di Sergio Di Benedetto – vinonuovo.it

Thailandia: buddismo e fede cristiana

di: Cristiano Vanin (a cura) in Settimana News

A 25 km da Bangkok, a Pak Kret in Thailandia, si trova la parrocchia cattolica “Our Lady of Mercy” dove padre Daniele Mazza del Pime svolge il suo ministero come vice-parroco. La parrocchia copre un’area molto vasta, dove i cattolici sono circa un migliaio su una popolazione di circa 600 mila persone.

Qui i missionari del Pime, che hanno appena festeggiato i 50 anni di presenza in Thailandia, curano la parrocchia e compiono diverse azioni di promozione sociale, in particolare nei confronti di bambini disabili nella Casa degli Angeli, di ragazzi orfani e abbandonati che sono ospitati in alcune case-famiglia e si recano nella baraccopoli della città per incontrare chi vive in situazioni di estrema povertà e isolamento sociale.

In particolare, padre Daniele Mazza si occupa di dialogo interreligioso con il buddismo, in un Paese dove oltre 9 persone su 10 professano tale credo.

In Thailandia dal 2008, dopo un master in studi buddisti all’università statale buddista Mahachulalongkorn, padre Daniele prosegue ora con il dottorato e quotidianamente si confronta con studenti buddisti, monaci e monache, thailandesi e non solo.

Pochi mesi fa il Presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella, su proposta del Ministro degli Affari Esteri e della cooperazione internazionale, ha insignito padre Daniele del titolo di Cavaliere dell’Ordine della Stella d’Italia, per la sua attività a tutela delle fasce più vulnerabili della popolazione locale in Thailandia e del suo impegno nel dialogo interreligioso.

Ricca l’opportunità di approfondire con padre Daniele un dialogo tra due credo che, come ogni dialogo interreligioso, procede su due binari che si integrano: quello più intellettuale e accademico, e quello quotidiano della vita delle persone.

***

– Padre Daniele, da dove nasce l’idea di studiare il buddismo?

Circa dieci anni fa il superiore generale ha invitato noi missionari del Pime in Thailandia a riprendere il dialogo con il buddismo. Negli anni passati, infatti, i bisogni pastorali delle diocesi hanno fatto sì che i missionari lavorassero soprattutto come parroci nelle parrocchie e nessuno si era mai impegnato nel campo del dialogo a tempo pieno.

Io ho dato la mia disponibilità e ho chiesto di poter frequentare il master in buddismo presso l’università Mahachulalonkorn. Potevo conoscere il buddismo anche da testi occidentali, ma mi interessava conoscerlo dal di dentro, incontrando i monaci e a partire da testi thailandesi e da professori buddisti.

– Com’è la tua esperienza all’università buddista?

Nell’università statale buddista in cui studio ho compagni buddisti da tutta l’Asia e non solo. Mentre studiavo, mi hanno poi chiesto di insegnare “cristianesimo” nella stessa università, la sfida è stata quella di presentare il messaggio cristiano a monaci in un contesto accademico, con la necessità di scegliere da dove partire e cosa presentare del cristianesimo.

Nel curriculum del master sono previsti 30 giorni di meditazione e ho provato così a immergermi nel loro modo di pregare. In parallelo, ho proposto ad alcuni di loro una condivisione sulla Parola di Dio e alcune esperienze di carità attraverso la visita a bambini disabili della parrocchia o nelle baraccopoli: per certi aspetti del cristianesimo ho preferito non solo parlare di Chiesa, ma far sperimentare cosa significhi essere Chiesa.

C’è ora un progetto ulteriore di dialogo anche tra buddismo e islam in un quartiere misto della città e in collaborazione con l’Ufficio dei servizi sociali del distretto, in un’ottica di collaborazione anche con le autorità locali.

Cultura, religione, annuncio

– La cultura asiatica, in particolare quella buddista, è ostacolo o risorsa per la diffusione del Vangelo?

Come ogni cultura, è possibile trovare i semina Verbi, ossia quegli elementi che crediamo suscitati dallo Spirito e che sono entrati a far parte di un modo di vita attraverso valori e tradizioni di un popolo. Si tratta di elementi che sono di aiuto, perché profondamente evangelici e di sostegno per la diffusione del vangelo. Un esempio: l’attenzione e la gratitudine che ci sono in Asia, in particolare in Thailandia, verso gli anziani, verso i genitori e verso gli insegnanti.

Nelle feste della mamma e del papà i figli vanno dai genitori, si inginocchiano, in certi casi lavano e baciano i piedi, a dire un senso di gratitudine molto profondo espresso anche fisicamente.

Poi, come tutte le culture, ci sono elementi non in sintonia con il Vangelo, che vanno purificati e trasformati dal Vangelo. Ad esempio, la globalizzazione ha portato molte persone a volersi arricchire, a lavorare a ritmi molto sostenuti, anche sette giorni su sette, enfatizzando il materialismo.

– In quali aspetti il buddismo fatica a incontrare il cristianesimo?

Un esempio significativo riguarda la croce, uno dei temi centrali per il cristianesimo. Per l’insegnamento buddista, che propone una via per eliminare la sofferenza, dire che la croce può essere feconda è complicato. Dire che il fallimento, la sofferenza, la malattia possono essere il grembo della vita, dell’amore, della grazia è una vera sfida.

Inoltre nel buddismo è possibile raggiungere la pienezza (il Nirvana) durante la vita, anche se questo potrebbe richiedere un numero altissimo di rinascite. Nel cristianesimo, invece, la pienezza può esserci solo oltre la morte ed è indissolubilmente legata alla ricapitolazione del mondo in Cristo. In poche parole, non posso essere pienamente libero e felice se non insieme ai miei fratelli e alle mie sorelle, solo quando tutti saremo “cristificati” dallo Spirito e saremo uno nel Padre.

– Cosa può spingere un buddista a conoscere Cristo e ad abbracciare la fede?

La conversione avviene da cose molto concrete della vita. Per molti c’è una base, ad esempio aver frequentato una scuola cattolica. Da giovani, hanno imparato le preghiere, sono stati in ambienti cristiani con sacerdoti, suore o frati. Per qualche altro c’è l’insoddisfazione del proprio essere buddista.

Alcuni rimangono colpiti dalla figura di Gesù. Una volta, ad esempio, un signore mi dice “Padre, il buddismo mi dice di non arrabbiarmi, di stare tranquillo, ma al lavoro non ci riesco. Poi ho visto che anche Gesù ha dei momenti in cui si scalda e si arrabbia, mi ha colpito perché credo corrisponda alla verità della vita, cioè che tu puoi voler bene anche arrabbiandoti, quando ti arrabbi per amore, per correggere o per puntualizzare qualcosa. Non è sempre lo stare zitti e lo stare tranquilli la via da seguire. L’insegnamento di Gesù mi sembra molto umano, molto vero, molto calato nella realtà e ciò mi ha fatto bene”.

Altri sono colpiti dai suoi insegnamenti e nel cercare di metterli in pratica rimangono stupiti. Ad esempio, il perdono in casa nei confronti di una persona che ti ha fatto un torto: le persone rimangono stupite e molto contente, perché, dopo il perdono, quella relazione difficile riparte.

Trovano un insegnamento che “funziona”: i buddisti sono molto pratici sul metodo da seguire nella loro vita spirituale. Ciò crea le premesse per aiutare la persona a fare un passo in più: non è solo l’insegnamento che funziona, ma chi lo insegna, cioè Gesù, che non è solo un maestro, ma il Signore della vita a cui consegnare tutta la propria esistenza, di cui ascoltare tutti gli insegnamenti per essere tutto trasformato da Lui.

Un’altra donna in ricerca, direttrice di una banca, di fronte al versetto di Gesù “Chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore” (Mc 10,43) ha modificato il suo modo di rivolgersi verso i dipendenti, con meno autoritarismo e con maggiore atteggiamento collaborativo e questo ha trasformato il rapporto con loro: prima c’era più diffidenza verso di lei che era il capo, oggi molte più persone si avvicinano e si fanno prossime.

Sono queste alcune premesse che poi possono spingere a fare il passo successivo, il battesimo.

– Come cristiani e buddisti vivono il dialogo nella loro quotidianità?

Oltre al dialogo in ambito più accademico, certamente c’è il confronto nella vita quotidiana. Se si è vicini di casa, si è uomini prima che essere buddisti o cristiani. Ci si aiuta e ci si sostiene. Non è un dialogo intellettuale o spirituale, ma di vita di tutti i giorni, lo chiamiamo un “dialogo di vita”.

– Dove oggi si può incontrare la fede cristiana in Thailandia?

Penso a due aspetti. Il primo la testimonianza dei cristiani: molti dei catecumeni che contattano la parrocchia vengono perché accompagnati da amici o dal partner, che vede andare a Messa e ne restano colpiti, perché particolarmente sereni e contenti, e ciò suscita domande.

Un altro aspetto è la liturgia: alcuni vengono con un parente cristiano, partecipano al rito di un funerale o di un matrimonio e quasi tutti restano colpiti dal modo di pregare, dal silenzio, dalla compostezza del rito, dalle parole del Vangelo o dell’omelia.

In «Arabia meridionale» per una Chiesa vicina, delle genti

Quando parla del servizio che sta per iniziare, della realtà che lo attende, usa l’immagine della Chiesa in cammino, spiega l’importanza di essere vicini alle persone, indica nell’appartenenza un valore da far crescere. Monsignor Paolo Martinelli, 63 anni, frate minore cappuccino, dal 2014 vescovo ausiliare di Milano, è il nuovo vicario apostolico dell’Arabia Meridionale. Una regione molto vasta che comprende gli Emirati Arabi Uniti, l’Oman e lo Yemen, per una popolazione di circa 43 milioni di persone, tra cui, più o meno, un milione di cattolici. La nomina, di papa Francesco, è arrivata lo scorso 1° maggio. «Da una parte – spiega monsignor Martinelli – è stata certamente una sorpresa perché non me l’aspettavo. Dal-l’altra parte i frati cappuccini sono molto impegnati in quell’area e da oltre un secolo ne esprimono il vicario apostolico. Quando ho ricevuto la comunicazione della nomina ho capito subito di che cosa si trattava, essendo questa una missione ben conosciuta nel mio ordine. Ho vissuto tutto con grande gratitudine e con un profondo desiderio di preghiera ».

La sua nuova comunità è composta quasi del tutto da lavoratori migranti. Il suo predecessore, monsignor Paul Hinder la definisce una Chiesa pellegrina.

L’accostamento tra Chiesa di migranti e Chiesa pellegrina è molto bello. In questa prospettiva nell’essere Chiesa composta da migranti, provenienti da tanti Paesi diversi, si esprime qualche cosa di essenziale per tutta la Chiesa. Significa concepirsi conti- nuamente in cammino, verso la pienezza del regno di Dio. Si tratta di offrire a tutti i fedeli in modi adeguato alle proprie condizioni di vita la possibilità di approfondire la propria fede, la vita cristiana in tutti i suoi aspetti, facendo sentire la vicinanza della Chiesa alla gente, nella gioia e nel dolore. I fedeli nell’Arabia meridionale frequentano molto la Chiesa, chiedono i sacramenti, sentono con particolare intensità la celebrazione eucaristica. È importante far crescere il senso di appartenenza alla Chiesa come popolo di Dio.

Domani inizierà il suo servizio. Come?

Sarà una cosa molto semplice: inizierò il mio ministero celebrando la santa Messa nella Cattedrale di San Giuseppe ad Abu Dhabi, sede del vicariato apostolico, insieme al mio predecessore, monsignor Paul Hinder, ai sacerdoti e ai fedeli.

La sua nomina, come si diceva, conferma l’importanza della presenza francescana in questa terra così particolare.

Direi, da una parte, che la famiglia francescana è da sempre coinvolta nel Medio Oriente, nella Terra santa. Questa presenza è radicata nella esperienza stessa di san Francesco d’Assisi. Si tratta di una storia di otto secoli che intreccia i francescani con il Medio Oriente. Dall’altra parte i frati cappuccini sono impegnati da tanto tempo proprio nella penisola arabica e portano avanti una preziosa presenza con i migranti e di dialogo interreligioso, in particolare con i fedeli musulmani.

Tornando a Hinder, cosa le ha consigliato in particolare?

Ci sentiamo regolarmente, mi sta piano piano introducendo in questa nuova missione. È un uomo di grande sapienza ed equilibrio. Ha fatto cose straordinarie in questi anni. La realtà del vicariato è molto cresciuta sotto il suo episcopato. Avremo modo di stare insieme presto e sono desideroso di ascoltare tutti i suoi preziosi

consigli.

Immagino che un ruolo importante come punto di riferimento lo svolgerà il Documento sulla fratellanza umana.

Si tratta di un testo fondamentale. Essendo stato firmato proprio ad Abu Dhabi da papa Francesco e dal grande Imam di Al-Azhar penso che noi abbiamo il dovere e la responsabilità di custodirne la memoria e di approfondirne le implicazioni culturali, sociali e religiose. Data l’attuale situazione mondiale, questo documento sta diventando ogni giorno sempre più importante.

Elemento molto importante in una realtà dove i cristiani sono minoranza sarà il dialogo interreligioso, da calare nella realtà quotidiana.

Credo ci siano diversi livelli di relazioni interreligiose. Da una parte è necessario approfondire la conoscenza reciproca, favorire il dialogo; dall’altra parte occorre mostrare il contributo che le religioni possono e devono dare allo sviluppo della pace, della giustizia e della fratellanza universale. In questa prospettiva è molto interessante il lavoro che il vicariato sta facendo attraverso le scuole cattoliche. Oltre all’immenso lavoro fatto dalle parrocchie, che servono pastoralmente oltre un milione di cattolici presenti in questa zona, è decisivo il lavoro fatto dalle nostre scuole; infatti molti studenti sono musulmani. Si tratta di una grande occasione di confronto. Il ruolo dell’educazione è fondamentale per il dialogo concreto tra cattolici e musulmani.

Qual è la maggior preoccupazione, se c’è, e la più grande gioia che l’accompagnano all’inizio di questo cammino?

Da una parte sento certamente il timore di essere chiamato ad affrontare una esperienza pastorale tanto diversa da quanto ho vissuto finora. Si tratta di una realtà complessa, non mancano ricchezze ma anche situazioni dolorose come quella drammatica dello dello Yemen. Dall’altra parte sono contento di poter contare su collaboratori molto validi e ben radicati sul territorio. Non pochi frati cappuccini che troverò nell’Arabia meridionale sono stati miei studenti a Roma, quando insegnavo teologia. Questa è per me una grande gioia. Sono soprattutto certo che il Signore è presente ed è all’opera anche in quella terra. È importante rinnovare il mio affidamento totale al Signore.

Lei è stato a lungo vescovo ausiliare di Milano, cosa vorrebbe esportare di ambrosiano in questa nuova esperienza?

Porto con me la ricchezza di questi otto anni vissuti al servizio della Chiesa ambrosiana. Inoltre, anche la Chiesa di Milano sta riflettendo da anni sull’essere “Chiesa dalle genti”, popolo di Dio formato da fedeli portatori di culture, tradizioni e carismi diversi. Porto con me questo spirito perché anche in Arabia meridionale la Chiesa sia sempre più unita e pluriforme.

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