Ancora violenze in Francia. Il Paese a ferro e fuoco

francia terza notte violenze

Schierati 40 mila agenti. Quasi 700 persone fermate. A Parigi saccheggiati numerosi negozi anche nella centralissima rue de Rivoli. Assaltati scuole, commissariati e municipi nonostante il coprifuoco notturno in diversi comuni. Macron convoca una nuova riunione dell’unita di crisi.

AGI – Terza notte di violenze in Francia. I 40mila agenti delle forze dell’ordine schierati non hanno impedito un’altra notte a ferro e fuoco per l’uccisione, martedì scorso a Nanterre, nella periferia di Parigi, del giovane Nahel da parte di un poliziotto. Il ragazzo di 17 anni, che guidava una Mercedes senza patente, non si è fermato come richiesto da due agenti, e uno di loro ha aperto il fuoco con l’arma di servizio uccidendolo.

Giovedì sera, in numerose città, compresi i sobborghi di Parigi, si sono verificati nuovi scontri. Sono stati assaltati commissariati, scuole e municipi e sono stati saccheggiati negozi. A tutto questo vi sono state decine di macchine incendiate, un fenomeno ricorrente nelle banlieues. Nella regione parigina bus e metro hanno smesso di circolare alle 21 nei quartieri dove sono esplose le violenze.

Quasi 700 persone fermate
Intanto è salito a 667 il numero delle persone che sono state fermate dalla polizia per dei controlli durante la notte. Lo riferiscono fonti del ministero dell’Interno, secondo quanto riporta Le Figaro. A Parigi sono stati saccheggiati numerosi negozi anche nella centralissima rue de Rivoli.

Macron convoca riunione unità di crisi
Il presidente francese Emmanuel Macron ha convocato una nuova riunione dell’unità di crisi interministeriale per oggi alle 13. Il capo dell’Eliseo, che si trova a Bruxelles per il Consiglio europeo, potrebbe dunque anticipare il rientro a Parigi prima ancora che le discussioni con gli altri capi di Stato e di governo Ue siano concluse. Una conferenza stampa dovrebbe comunque essere confermata prima della sua partenza.

Crisi ecclesiale e abusi sessuali

di: Ewa Kusz

abusi polonia

Pubblichiamo questo saggio, sintesi di uno studio più ampio che l’autrice, vicepresidente del Centro per la protezione dei minori presso l’Accademia ignaziana di Cracovia (Polonia), ha scritto sul tema degli abusi nella Chiesa. La riconduzione del problema alla fede e all’identità della Chiesa è stimolante e rappresenta una voce originale nella Chiesa polacca che affronta in questi mesi l’acutizzarsi delle denunce.

Tra le molte domande che il tema degli abusi sessuali sui minori provoca, due sono particolarmente urgenti. Come è stato possibile (come è possibile) che i chierici che avrebbero dovuto indirizzare i giovani loro affidati a Dio abbiano «profanato il volto di Dio alla cui immagine siamo stati creati»[1] commettendo violenze sessuali? Come è stato possibile (come è possibile) che da parte dei superiori sia mancata una risposta adeguata?

Le domande non esauriscono l’esame di coscienza della Chiesa. Dobbiamo infatti mettere in questione anche noi stessi. Dove eravamo (dove siamo) quando i bambini venivano feriti? Ma vi è una domanda più importante: in che stato sei, Chiesa, se non reagisci, se nascondi o sminuisci il fatto che i bambini a te affidati siano stati feriti da chi doveva proteggerli?

La crisi nata dai casi di abuso sessuale non è un problema che riguarda solo i preti. Se vogliamo trattarlo adeguatamente dobbiamo adottare un atteggiamento olistico, più generale, già auspicato da anni, a partire dalle prime analisi dello scandalo nella Chiesa degli Stati Uniti.[2] I pontefici sono intervenuti più volte, da Giovanni Paolo II a Benedetto, a Francesco.[3] Come molti altri tentativi di porre rimedio alla situazione sollevano diversi aspetti della crisi e cercano di affrontare le cause nel loro complesso.

La posizione di Benedetto XVI

Uno degli interventi più importanti che tentano una risposta alla domanda centrale che abbiamo formulato e, a mio avviso, il saggio del papa emerito, peraltro molto criticato, dal titolo «La Chiesa e lo scandalo degli abusi sessuali» pubblicato nell’aprile 2019 del mensile tedesco Klerusblatt.

Il papa emerito, rispondendo alla domanda su «come ha potuto la pedofilia raggiungere una tale dimensione» nella società, risponde sinteticamente: «in ultima analisi il motivo sta nell’assenza di Dio». Ecco come argomenta. «Una società nella quale Dio è assente – una società che non lo conosce più e lo tratta come se non esistesse – è una società che perde il suo criterio. […] Quando in una società Dio muore, essa diviene libera, ci è stato assicurato. In verità, la morte di Dio in una società significa anche la fine della sua libertà, perché muore il senso che offre orientamento. E perché viene meno il criterio che ci indica la direzione insegnandoci a distinguere il bene dal male. […]

E per questo è una società nella quale si perde sempre più il criterio e la misura dell’umano. In alcuni punti, allora, a volte diviene improvvisamente percepibile che è divenuto addirittura ovvio quel che è male e che distrugge l’uomo. È il caso della pedofilia. Teorizzata ancora non troppo tempo fa come del tutto giusta, essa si è diffusa sempre più. E ora, scossi e scandalizzati, riconosciamo che sui nostri bambini e giovani si commettono cose che rischiano di distruggerli. Che questo potesse diffondersi anche nella Chiesa e tra i sacerdoti deve scuoterci e scandalizzarci in misura particolare».

Anche la Chiesa perde il proprio criterio di riferimento ed è comunemente percepita, secondo il papa emerito, come «apparato politico». E questo «vale persino per dei vescovi che formulano la loro identità sulla Chiesa di domani in larga misura quasi esclusivamente in termini politici». La crisi provocata dagli abusi fa sì che la Chiesa sia vista come qualcosa non da rinnovare, ma da rifondare. «Ma – conclude Benedetto XVI – una Chiesa fatta da noi non può rappresentare alcuna speranza». Che cosa vuol dire più in profondità il papa emerito denunciando la causa principale degli abusi per una Chiesa che «ha perso il suo criterio ed è diventata un apparato politico»?

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Apparato politico o comunità di fede

Nel suo saggio Benedetto XVI definisce la fede un «bene prezioso» di cui dobbiamo prenderci cura. Paradossalmente si può dire che la premura per la fede non sia ancora percepita come il compito fondamentale per rispondere al problema degli abusi. E questo vale per tutte le regioni del mondo, indipendentemente dalla fase di gestione della crisi in un determinato paese.

La cura della fede in quanto «bene prezioso» non è percepita come compito prioritario né da parte dei responsabili ecclesiali, né da chi sostiene le vittime. In definitiva, non è percepita come tale da alcuno. E questo, a mio avviso, è dovuto alla dinamica dei processi di comprensione e di confronto con il tema degli abusi sessuali, sia nella società[4] che nella Chiesa.

Nella prima fase di confronto con il problema, quando le cose iniziano a venire alla luce, sia per noi che per i superiori nella Chiesa, l’obiettivo primario è mantenere lo status quo. Una fase in cui non si registra la premura per la persona come tale: per la vittima, per i suoi familiari, per la comunità ecclesiale incapace di gestire quanto sta succedendo. Assente anche l’attenzione per l’attore dell’abuso, per l’aggressore. E, più radicalmente, viene ignorata la cura della fede come «bene prezioso».

Quando l’abuso viene commesso in famiglia si tende a mantenere la stabilità della stessa. Non si pensa al bene del bambino ferito. Si fa di tutto perché nessuno venga a sapere, per non rovinare il micro-sistema familiare. Questo succede perché l’attore del crimine svolge spesso una funzione importante. Uno scontro aperto risulta difficile per tutti i membri.

Analogamente succede quando i familiari di un bambino vengono a sapere di un abuso commesso da qualcuno considerato come autorità, come ad esempio un sacerdote. A prescindere se il crimine è recente o commesso in un lontano passato. L’obiettivo rimane quello di mantenere stabile la famiglia. Denunciare l’atto scuoterebbe il micro-sistema. I vicini, ad esempio, verrebbero a sapere che nella nostra famiglia è avvenuto qualcosa di grave.

Oppure si teme di ferire l’aggressore che è sempre stato considerato una persona in gamba. Succede così che il predatore seducendo il bambino condiziona l’intera famiglia, essendo entrato in intimità con essa, divenendo un amico di casa, un benefattore. Risulta più facile credere a lui che al proprio figlio. E anche l’intero processo seduttivo con il quale prepara la vittima diventa difficile da percepire.

In famiglia e nella comunità

Quando l’abusante è un sacerdote, gli altri preti sono propensi a difenderlo. Sanno di avere anche loro dei peccati e delle colpe che preferiscono tenere nascoste. Istintivamente scelgono di tacere quello che sanno del proprio collega. E si giustificano argomentando di non volergli fare del male. Non reagiscono a comportamenti scorretti. Invece di cogliere il segnale di pericolo di alcuni comportamenti ambigui, si limitano a concludere che quel confratello «è semplicemente fatto così»: tenerone, spontaneo, estroverso, originale. Qualche volta eccede.

I superiori ecclesiastici hanno protetto (e proteggono) innanzitutto il buon nome dell’istituzione, della diocesi o dell’ordine religioso. Non vogliono nascondere il male, «proteggono solo il sacerdozio». Così non sono le violenze ad essere uno scandalo, ma il fatto di renderle note, perché così si danneggia l’immagine dell’istituzione e del clero. Viene meno la centralità della persona e della sua dignità, sia essa vittima, familiari, comunità e lo stesso aggressore. Quello che conta è l’istituzione, quell’«apparato politico» che non deve perdere la propria influenza e godere della rispettabilità.

Così la Chiesa non rappresenta più una comunità di peccatori redenti con il sangue dell’Agnello, ma un’istituzione che cerca ad ogni costo di mantenere un’immagine positiva. In questa prima fase, tutti tendiamo a sminuire il problema ed è convinzione diffusa che «ci perdiamo tutti» a confessare di aver sbagliato o di non aver reagito. Ignoriamo di operare non secondo la scala dei valori evangelici, ma dal punto di vista della sopravvivenza nel mondo delle istituzioni che contano.

Una seconda fase di confronto con il problema degli abusi si avvia dopo il riconoscimento, da parte nostra e dei responsabili ecclesiastici, che il problema c’è. Ma ci aspettiamo che siano gli altri a risolverlo. Così i fedeli aspettano che i superiori facciano qualcosa. Protestano, inviano lettere, diffondono notizie cercando spiegazioni in cause esterne. Diventa sempre più diffusa l’immagine negativa del prete, mentre i superiori vengono indicati come irresponsabili.

I media alimentano nel mainstream numerosi articoli dedicati al tema. Denunciano, in modo più o meno attendibile, nuovi casi, nascondendo sotto una buona dose di moralismo la propria impotenza e ignoranza nell’affrontare il fenomeno in tutta la sua vastità sociale. Non sorprende che in tale situazione il richiamo più facile sia l’invocazione ad abolire il celibato sacerdotale come rimedio credibile per la prevenzione. I media cattolici trattano sempre più frequentemente il tema. In linea di principio non denunciano casi specifici di abuso, limitandosi a fare riferimento agli interventi del papa o raccontando i problemi delle Chiese locali di altri paesi. Preferiscono sottolineare i fatti che dimostrano l’attività positiva della Chiesa per tutelare i bambini e i giovani.

I sacerdoti si sentono ingiustamente aggrediti. Non capiscono perché si sospetti di loro. Argomentano, non senza qualche ragione, che in altri ambienti ci sono casi più numerosi di abuso sessuale verso bambini e giovani. Alcuni alimentano i sospetti verso gli omosessuali. Si rinchiudono nel proprio mondo, restringendo il lavoro pastorale con i bambini per paura di essere giudicati. I superiori ecclesiastici avviano misure di censura-contenimento, prevalentemente di natura giuridica. Programmano aiuti e assistenza alle vittime. Gli abusanti sono espulsi dallo stato clericale o comunque puniti.

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Fare proprio il problema

Sono pochi quelli che «fanno proprio» il problema. Come laici, preti e superiori affrontiamo il dramma additando gli altri come responsabili di cercare una soluzione, di fare qualcosa. E ci si accontenta di quello che i vari gruppi intraprendono come esaustivi di quello che si può e si deve fare. Se il sistema non funziona, è colpa e responsabilità degli altri. Fedeli, preti e vescovi applicano strumenti per una soluzione umana, sociologica. Sono certamente buoni e utili.

Ma emerge la domanda se siano all’altezza della cura della fede come «bene prezioso», se davvero siano soluzioni in grado di «creare spazi di vita per la fede». La crisi mondiale degli abusi nella Chiesa lo smentisce. Nel 2018 negli Stati Uniti la Chiesa ha sperimentato un’altra fase acuta di crisi dopo il rapporto della Corte suprema di Pennsylvania e le denunce relative ai crimini del card. McCarrick che era stato il volto e il garante del cambiamento nel 2002. Sotto le pressioni delle rivelazioni la Chiesa aveva allora avviato procedure modello. Erano stati previsti aiuti alle vittime, un sistema di controllo degli aggressori, introdotti meccanismi per la trasparenza e la prevenzione.

Gli esperti avevano confermato che, grazie alle misure adottate, la Chiesa cattolica era diventata una delle istituzioni più sicure per i bambini e i giovani degli Stati Uniti. Il rapporto della Corte suprema della Pennsylvania e il caso McCarrick hanno mostrato l’insufficienza degli sforzi intrapresi. Si è capito che non era stato adeguatamente affrontato un fattore che Giovanni Paolo II segnalava nell’aprile del 2002 come elemento rilevante della crisi, ovvero il fatto che nelle comunità ecclesiali molte persone si sentivano ferite dal modo in cui i vescovi e i superiori avevano reagito ai reati di abuso.

Costruire sistemi efficaci di assistenza e di prevenzione è indispensabile, ma è solo un lato della medaglia. Forse sufficienti per una Chiesa come «apparato politico», ma largamente inadeguati per una Chiesa vissuta come «comunità vivente della fede». La Chiesa intesa e vissuta come istituzione e non come una comunità viva della fede è all’origine di altri problemi.

Si riuscirà a fermare l’erosione del mondo cristiano?

Papa Francesco nel discorso alla curia del 21 dicembre 2019 ricorda che «la storia del popolo di Dio… è segnata sempre da partenze, spostamenti, cambiamenti». Questo ha importanti implicazioni per la comprensione del nostro essere e agire nel mondo per via della fede in Dio che si rivela nel tempo ed entra nella storia con l’incarnazione. Il papa non chiede cambiamenti per il gusto di cambiare. È consapevole dei rischi di seguire le mode e lo spirito del tempo.

Per lui quello che conta è la prospettiva della fede il cui nucleo, decisivo anche per i cambiamenti da intraprendere, è la fedeltà di Dio, la costanza del suo amore. Da credenti ci misuriamo con il fatto che: «non siamo nella cristianità, non più! Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale, che non vuol dire passare a una pastorale relativistica. Non siamo più in un regime di cristianità perché la fede – specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente – non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata».

L’analisi di papa Francesco dovrebbe spingere a riflettere anche noi credenti che viviamo nell’Europa centro-orientale. Impegnano sempre maggiori energie per influire sui politici e sull’opinione pubblica, per garantire una tutela giuridica dei valori cristiani, compresi i diritti e i privilegi particolari di varie istituzioni ecclesiastiche. Questo modo di «investire» nella Chiesa ha delle ricadute sull’insieme della sua vita sotto il supremo interesse dell’istituzione.

È facile che la vita personale secondo la misura evangelica passi in secondo piano, pur di non compromettere l’immagine pubblica. La storia della crisi insegna che la Chiesa, quando opera da «apparato politico», come espresso dal papa emerito, quando si limita ad applicare mezzi e regole di natura tecnica necessari per creare ambienti sicuri non potrà riavere la credibilità. Solo se si converte e si sottomette alla potenza del Vangelo le persone possono essere attirate dallo splendore della sua bellezza e verità, e non grazie a successi confrontabili con quelli delle altre istituzioni.

Ignorare

La conoscenza che abbiamo degli abusi sessuali sui minori risale a un passato relativamente recente. Fino ad oggi in molte popolazioni dell’Europa centro-orientale non si è ancora avviato un processo di consapevolezza diffusa del problema degli abusi. Per valutare quello che la Chiesa intraprende a tutela dei bambini e dei giovani dobbiamo riferirci alla consapevolezza sociale e istituzionale di questa parte del continente europeo.

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Tuttavia, anche se il tema degli abusi comincia ad essere trattato più ampiamente solo a partire da questo secolo, nel 2020 sarebbe legittimo attenderci di vedere una sensibilità sociale più matura, anche dentro la Chiesa. Invece è ancora ben diffusa la convinzione che se ne parli e se ne scriva già troppo, ampliando l’impressione del problema. La non conoscenza fa sì che è messa in dubbio la veridicità delle persone che denunciano l’abuso sessuale dopo molti anni.

La loro credibilità è contestata per via delle emozioni o di alcune incoerenze che si possono rintracciare nelle loro testimonianze. Le conseguenze sono sottostimate o considerate come esagerazioni. Anche nei confronti degli abusatori scatta la manipolazione e si concede credito alla loro strategia di scaricare la responsabilità sulle vittime. Un’ignoranza che sminuisce gli effetti delle ferite inferte ai bambini e ai giovani riguarda tutti: i politici, i responsabili ecclesiastici e tutti noi.

Panico morale

Il confronto con la crisi degli abusi sessuali nella Chiesa favorisce decisioni che nascono da un meccanismo chiamato «panico morale» dal sociologo italiano Massimo Introvigne.[5] I media si concentrano sul tema degli abusi sessuali nella Chiesa, mentre i vescovi omettono di dimostrare una preoccupazione sufficiente per la materia. Tutto ciò porta, da un lato, a scaricare la responsabilità su altri ambienti e, dall’altro, a tentare veloci soluzioni semplicistiche tipiche degli esperti delle pubbliche relazioni. Viene preferito un «effetto placebo» a breve, nocivo per le vittime e dimentico della necessità di trattamento degli abusatori.

Non si esamina il fenomeno con un’analisi basata su ricerche che tengano conto di fattori strutturali che favoriscono quel tipo di delitti e che sono presenti all’interno dell’istituzione nel modo di gestire, motivare e promuovere il personale, reagendo alle irregolarità riscontrate. Di conseguenza, vengono intraprese misure suggerite dagli esperti di pubbliche relazioni il cui obiettivo principale è quello di dare soddisfazione all’opinione pubblica. È facile comprendere che, in questo modo, non solo la vera soluzione dei problemi è ulteriormente rimandata, ma si dà prova anche che la Chiesa opera effettivamente come «apparato politico» e non come una comunità vivente di fede.

Il «panico morale» motiva anche l’assenza di un lavoro con gli autori degli abusi. Abbiamo paura di lavorare con loro per evitare di essere sospettati di volerli giustificare. Enfatizziamo l’importanza dell’espulsione dallo stato clericale e la riduzione a quello laicale come se questo fosse in qualche maniera «peggiore». Dimentichiamo che anche loro sono nella Chiesa e anche per la loro salvezza Cristo è morto in croce. Temendo l’accusa di complicità, ci scordiamo che la prevenzione sta anche nella riabilitazione sociale che richiede un lavoro con l’abusatore perché non faccia più male a nessuno.

È necessario anzitutto un discernimento comune per cogliere i cambiamenti indispensabili dal punto di vista della fede. Un discernimento che permetta anche l’utilizzo delle conoscenze psicologiche e sociologiche per ottenere risultati che abbiano un carattere evangelico.

La paura dei risarcimenti

Il tema dei risarcimenti mobilita sia chi ricorre al tribunale come accusa, sia chi lo fa come difesa. Gli uni e gli altri dimenticano che le persone ferite hanno bisogno di un aiuto reale. La paura degli alti risarcimenti da pagare fa sì che guardiamo alle vittime come a clienti molesti da sistemare giuridicamente perché non tornino a chiederci altro. Invece di rappresentare per loro la Chiesa-madre che si preoccupa di ogni figlio, i superiori e chi li rappresenta si rivelano funzionari dell’istituzione ecclesiastica che si accontentano di espletare in modo corretto e in linea con le normative i propri doveri.

Così tratta i clienti molesti l’«apparato politico», la Chiesa-istituzione, non la Chiesa-madre. L’ignoranza, il «panico morale» e la paura dei risarcimenti ci fanno dimenticare che Dio ha sempre cura dei suoi figli e figlie ferite. Dio chiama anche gli autori degli abusi perché possano essere aiutati a convertirsi. Egli rivendica il proprio posto nella sua Chiesa.

Di qui la domanda drammatica: Signore Dio, c’è ancora posto per te nella tua Chiesa? Sono convinta che la Chiesa intesa come «istituzione politica» che ha i propri privilegi, il patrimonio, un apparato di funzionari non ce la farà a superare la crisi scaturita dai reati commessi da chierici abusatori. È percepibile dal fatto che tale Chiesa è sempre meno capace di servire il mondo nelle varie crisi che lo travolgono. La causa di tale incapacità sta nell’offuscamento della luce del Vangelo perché il «male ha penetrato il mondo interiore della fede».[6]

La dinamica della crisi che dura ormai da decenni è una dimostrazione dell’impotenza del sistema. Intuisco che sia il Signore stesso a rivendicare oggi il proprio posto nella Chiesa permettendo che sperimenti il dolore di una crisi purificante. Dio difende «i più piccoli»: i bambini, i giovani, i vulnerabili, a prescindere da dove e da chi sono feriti. Per questo purifica la sua Chiesa, la sua Sposa, perché possa essere strumento del suo amore premuroso. Senza un cambiamento interiore di noi tutti, senza una conversione, saremo come il sale insipido che non servirà più a nessuno. In realtà, la crisi, intesa e accolta come grazia di purificazione è la prova che il Signore si prende cura della propria Sposa colta in fallo e ne desidera essere Signore e Dio.


[1] Cf. papa Francesco nell’omelia della santa messa con la partecipazione delle vittime il 07.07.2014. Secondo il papa: «Si tratta di qualcosa di più che di atti deprecabili. È come un culto sacrilego perché questi bambini e bambine erano stati affidati al carisma sacerdotale per condurli a Dio ed essi li hanno sacrificati all’idolo della loro concupiscenza.

[2] Uno dei primi a intraprendere tale tentativo è stato p. Thomas Doyle, OP, il quale nel 1985 con Ray Mouton il rev. Michael Peterson ha presentato la prima analisi degli abusi sessuali nella Chiesa statunitense, sollecitando la necessità di un approccio che tratti il fenomeno nel suo complesso. Cf. qui.

[3] Tutti gli interventi dei pontefici sono disponibili qui.

[4] Le fasi di denuncia dell’abuso sessuale. Cf. J. Włodarczyk: Rola backlashu w instytucjonalizacji problemu wykorzystywania seksualnego dzieci. Analiza przypadku Stanów Zjednoczonych pod koniec XX wieku w: Dziecko krzywdzone, vol 13 n. 1(2014) pp. 33-50.

[5] Cf. M. Introvigne: Preti pedofili. La vergogna, il dolore e la verità sull’attacco a Benedetto XVI. Milano, Ed. San Paolo, 2010, pp. 29-31.

[6] Così il papa emerito Benedetto XVI in una lettera al matematico italiano Piergiorgio Odifreddi, pubblicata su Repubblica il 24.08.2013.

settimananews

La legge di bilancio dietro la crisi (e le tre strade del Pd)

Pubblichiamo questa riflessione di Giorgio Tonini, consigliere provinciale a Trento e presidente del gruppo del Partito Democratico del Trentino. Senatore dal 2001 al 2018, Tonini è stato vicepresidente del gruppo del Partito democratico in Senato, presidente della Commissione Bilancio e membro della segreteria nazionale del Pd.

E’ stato presidente nazionale della Fuci, sindacalista della Cisl, coordinatore politico dei Cristiano sociali e dirigente dei Democratici di Sinistra.

Il suo articolo, comparso sul sito di Libertà Eguale, un’associazione di cultura politica nata nel 1999 per opera di riformisti provenienti dalle più diverse esperienze nell’ambito del centrosinistra italiano.

La decisione di Matteo Salvini di porre fine, dopo appena un anno e mezzo, all’esperienza di governo della Lega col Movimento Cinquestelle, ha aperto davanti all’Italia uno dei passaggi più drammatici della sua storia. La ragione alla base della decisione del leader della Lega è chiara come il sole e non ha nulla a che vedere con l’alta velocità ferroviaria. La mozione grillina sulla Torino-Lione, bocciata in Senato, era inoffensiva e rappresentava nei fatti una resa di Di Maio e compagni al partito trasversale e largamente maggioritario a favore del tav.

Salvini non vuole assumersi la responsabilità della prossima legge di bilancio

No, la verità è un’altra: Salvini ha aperto la crisi perché non vuole e non può assumersi la responsabilità della prossima legge di bilancio. Come deve avergli spiegato il fido Giorgetti, che non a caso è stato il primo a parlare di crisi di governo, la legge di bilancio è strutturalmente incompatibile con l’escalation di promesse della quale il leader leghista si è reso protagonista negli ultimi mesi. Dunque Salvini si è trovato dinanzi ad una scelta ineludibile: o fare la legge di bilancio, o continuare con la sua propaganda. E ha scelto la propaganda.

Non si tratta di dietrologia maliziosa, ma di aritmetica elementare. In un contesto economico in bilico tra stagnazione e recessione, la prossima legge di bilancio deve trovare, solo per il 2020, 23 miliardi per evitare che scatti la clausola di salvaguardia dell’aumento delle aliquote IVA. Un punto e mezzo di pil solo per cominciare. Con altre spese obbligatorie si sale subito a 30. Poi arriva il conto delle promesse ripetute in tutte le piazze (e le spiagge) d’Italia: a cominciare dalla “flat tax” e dalla “pensionabilità” del bonus Renzi (i famosi 80 euro). Mal contati fanno quasi 50 miliardi. Salvini vorrebbe finanziarli in deficit, ma Giorgetti gli ha spiegato che l’Europa non ce lo permetterebbe mai. E se anche lo facesse, sarebbero i mercati a punirci, facendo salire lo spread a livelli insostenibili.

La “doccia gelata” e le tre strade del Pd

Dunque, se non vogliamo uscire dall’euro e dall’Europa, che ci costerebbe come una guerra, c’è una sola via d’uscita dalla trappola populista nella quale Salvini ha cacciato se stesso, la Lega, il governo e l’Italia: andare a votare subito, incassare i risultati, in termini di consenso elettorale, della propaganda di questi mesi e far fare poi, dopo il voto, al paese, con la manovra di bilancio, la doccia gelata del brusco ritorno alla realtà.

La strategia di Salvini ha dunque una sua cinica lucidità. E mette il suo unico vero avversario, il Partito democratico, dinanzi ad una scelta di inedita difficoltà. Il Pd ha davanti a sé tre strade, una più difficile dell’altra, fra le quali scegliere quella da imboccare.

1- Il voto subito

La prima, la più piana e diritta, è quella di accettare la sfida di Salvini e non opporsi quindi all’ipotesi di andare a votare subito, tra ottobre e novembre. La sconfitta sarebbe altamente probabile, ma il Pd si rafforzerebbe come principale partito di opposizione, unica vera alternativa possibile alla Lega. E tuttavia, Salvini si troverebbe la strada spianata, e potrebbe avanzare senza trovare alcuna vera resistenza, verso la conquista non solo di Palazzo Chigi, ma anche del Quirinale. Roma, in asse inedito con Mosca, diverrebbe la capitale dell’antieuropeismo e forse della post-democrazia…

2- Il patto di legislatura

La seconda strada, quella più ripida e tortuosa, ma anche ambiziosa, è rispondere alla sfida di Salvini con il lancio di un patto di legislatura col M5S, fondato su due pilastri: il no all’arroganza cinica del leader leghista, arrivata fino all’invocazione dei “pieni poteri”; e il sì ad una linea di cambiamento coraggioso, ma dialogico e costruttivo, in Europa, linea ben rappresentata dal ministro Moavero e in definitiva seguita anche dal ministro Tria e dallo stesso Conte. Si potrebbe riassumerla nella costruzione di un asse Roma-Parigi, orientato a spingere Berlino su una linea di politica economica più espansiva, anche attraverso l’istituzione, sul modello americano, di nuovi strumenti di governo federale dell’economia, finalizzati a sostenere la crescita e l’occupazione attraverso gli investimenti nelle infrastrutture, nelle politiche ambientali, nella ricerca e nella formazione superiore. Il punto debole di questa seconda strada, apparentemente affascinante, è la scommessa sulla capacità del M5S di compiere un gigantesco salto di qualità. Nonostante il segnale molto positivo giunto da Strasburgo, col voto di fiducia dei grillini alla presidente Ursula von der Leyen, è tutto da vedere che ce ne siano i tempi e le condizioni.

3- Il governo della paura

Il rischio è che la ricerca della seconda strada porti in realtà alla terza, a mio modo di vedere la più pericolosa: un governo della paura, politicamente fragile e che finirebbe per collaborare involontariamente con Salvini, togliendogli le castagne dal fuoco, ossia facendo la manovra, coi relativi costi in termini di impopolarità, e lasciandogli la propaganda. Per poi tornare comunque presto al voto, che il leader leghista affronterebbe nelle condizioni tattiche per lui migliori.

Scegliere quale strada imboccare, per il Pd, è dunque una grande e grave responsabilità. Per poter affrontare un passaggio così difficile, è bene tenere bene a mente un vincolo e un’opportunità. Il vincolo è l’unità e la solidarietà interna al partito. Uniti e solidali possiamo farcela, divisi siamo perduti e con noi è perduto il paese. L’opportunità, o meglio si direbbe la risorsa, è l’equilibrio e la saggezza del presidente Mattarella, attorno al quale il Pd unito farebbe bene a stringersi.

fonte: Adista

Le tappe. Cosa succede ora: iI timing e i nodi della crisi dell’Esecutivo giallo-verde

Voto di (s)fiducia al Senato, poi le consultazioni di Mattarella e due possibili scelte: esecutivo di transizione o governo dimissionario per le elezioni
'Parlamentarizzare' la crisi allunga i tempi e mette a rischio il varo della legge di bilancio da parte della nuova maggioranza. L’ipotesi 'esecutivo di transizione'

‘Parlamentarizzare’ la crisi allunga i tempi e mette a rischio il varo della legge di bilancio da parte della nuova maggioranza. L’ipotesi ‘esecutivo di transizione’

Avvenire

A meno che il premier Conte non si dimetta subito senza passare dall’Aula, imprimendo un’accelerazione alla crisi, il pallino passa in mano ai presidenti delle Camere Fico e Casellati. Sono loro due, adesso, insieme ai capigruppo, che devono valutare i tempi e i modi più opportuni per portare la crisi in Aula. L’ipotesi ieri più accreditata è che Conte chieda la fiducia solo al Senato, la prima Camera che gli ha dato il mandato a governare più di 14 mesi fa. Un passaggio sarebbe sufficiente e renderebbe superfluo un ‘raddoppio’ a Montecitorio.

A Palazzo Madama si innescherebbe ufficialmente la crisi: Conte chiederebbe la fiducia, non la otterrebbe e di conseguenza si recherebbe dimissionario al Colle, decretando la fine del governo Conte. A seguire si apre la fase due. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella svolge le consuete consultazioni con i gruppi parlamentari guidati dai rispettivi leader. Se le Camere sfiduciano Conte il 20 agosto, le consultazioni possono svolgersi già il 21. Non dovrebbero durare più di una giornata. A conclusione, il capo dello Stato comunicherebbe le sue decisioni: se ritiene – cosa al momento poco probabile – che ci sia una nuova maggioranza possibile, potrebbe offrire incarichi esplorativi o un pre-incarico. Ma non sembra questa la circostanza. Piuttosto, Mattarella dovrebbe trovarsi di fronte a un mare di veti incrociati.

In tal caso, avrebbe due strade. La prima: sciogliere le Camere e lasciare in carica per gli affari correnti il governo dimissionario di Giuseppe Conte. La seconda: fare una proposta al Parlamento per un governo di transizione che, se bocciata, condurrebbe il Paese alle urne. Con questi passaggi, si arriverebbe intorno al 26-27 agosto.

Sciogliendo le Camere in quei giorni, si potrebbe andare al voto il 27 ottobre, nel pieno della sessione di bilancio. Un bel rischio. Considerando poi che le nuove Camere vengono convocate 20 giorni dopo il voto, e che prima di mettere mano al governo si eleggono i presidenti di Montecitorio e Palazzo Madama, il nuovo esecutivo metterebbe le mani sui conti molto tardi.

Servirebbe un’intesa specifica con l’Europa per avere più tempo. Il tutto in un contesto segnato dal rischio di un forte aumento delle aliquote Iva. Tutto questo, come detto, a meno che Conte, valutata nelle prossime ore la degenerazione della situazione politica, non decida di dimettersi. Al momento così non pare. M5s vuole una ‘crisi lunga’ e ha i numeri in Parlamento per imporre i suoi tempi e la sua strategia. E in questi tempi relativamente lunghi possono innescarsi meccanismi e dinamiche al momento imprevedibili.

Salvini, il voto anticipato, deve ancora sudarselo.