Quest’anno il premio Dossetti per la pace va a mons. Corrado Lorefice vescovo di Palermo

Il premio per la pace 'Giuseppe Dossetti' all'arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice – La Libertà online

Più che mai oggi abbiamo bisogno di credibili operatori di pace, e uno di questi lo riconosciamo in Mons. Corrado Lorefice, Arcivescovo di Palermo che venerdì 13 maggio 2022, riceverà a Reggio Emilia il XIII “Premio per la Pace Giuseppe Dossetti”, riconoscimento che gli viene assegnato “per la sua azione costante verso la pace, il dialogo interreligioso, la cura, la carità e l’attenzione ai poveri”. Tra le tante opere e parole evangeliche al servizio dei poveri che potremmo citare a proposito di Mons. Lorefice, sia prima che dopo la sua consacrazione ad arcivescovo di Palermo nel 2015, mi pare ci sia la sua profonda sensibilità che lo avvicina alla spiritualità e all’operato dello stesso Don Dossetti e del Cardinal Lercaro, grande anima del Concilio Vaticano II. Figure a lui molto care e vicine idealmente, sulle quali ha scritto lo splendido testo edito nel 2011 “Dossetti e Lercaro: la Chiesa povera e dei poveri nella prospettiva del Concilio Vaticano II”, con un’analisi puntuale e rigorosa della “fede” che ispirò questi due grandi profeti del nostro tempo.

Un premio, dunque, che sembra agganciarsi alla lunga eco della vitalità del Concilio, se riascoltiamo le parole dello stesso Cardinal Lercaro, nel suo famoso discorso su “Chiesa e povertà” (intervento pronunciato il 6 dicembre 1962 nel corso della Congregazione Generale 35).  In questo breve passo il cardinale afferma: “Che nel lavoro da svolgere dal concilio d’ora in poi trovi, non soltanto un posto, ma vorrei dire il primo posto, la formulazione della dottrina evangelica della divina povertà del Cristo nella chiesa: il mistero dell’elezione divina che ha scelto la povertà come un segno e un modo – «sacramentum magnum, dico in Christo et in ecclesia» (Ef 5,32) – come un segno e un modo preferenziale di presenza e di forza operativa e salvifica del Verbo incarnato tra gli uomini.”

Un’attenzione ai poveri che sembra proprio anche il fil rouge di tutto l’operare apostolico di Mons. Lorefice che,  da arcivescovo di Palermo, continua a muoversi come instancabile annunciatore tra la gente di una bella notizia, per citare le parole pronunciate nella sua recente visita lungo le strade del quartiere CEP – San Giovanni Apostolo di Palermo: “Qui ci sono tante storie di sofferenza, tanti sogni non ancora realizzati, tante realtà negate; ma c’è anche il profumo del Crisma, ci sono i segni del Messia, di colui che prende su di sé le sofferenze degli altri… Tornando alla commozione, io oggi mi sono commosso perché oggi io non sono venuto a fare la predica su Gesù ma perché l’ho incontrato nella sua Parola e nella sua carne: in quei volti che ho incrociato, in quelle mani che ho stretto, in quelle case che mi hanno ospitato; io oggi non ho fatto una buona azione ma ho continuato a incontrare lo stesso Gesù che incontro quando celebro l’Eucaristia e ascolto la sua Parola. E poi, se non c’è la strada non c’è Vangelo – non c’è Evangelo (εὐ in greco significa “bello”) – perché noi non possiamo annunciare una notizia bella, non possiamo dire che i sogni si realizzano; e Vangelo non è mai astratto, mai come in questo caso il Vangelo è la strada».

Un cammino di Vangelo per le strade di Palermo che è presente anche nel suo recente libro “Il Vangelo e la strada”, scritto in collaborazione con Anna Staropoli e Vito Impellizzeri, quasi una sorta di percorso di discernimento comunitario e sinodale tra le strade e la gente della sua città a partire dall’Enciclica “Fratelli Tutti” di Papa Francesco: questo infatti lo sta portando a visitare via via uno dopo l’altro tutti i quartieri più poveri e disagiati per ascoltare proprio tutti. Un dialogo con la città che per Lorefice ha sempre avuto molti volti, e ha saputo rinnovare anche tradizionali appuntamenti ufficiali come il consueto discorso alla città che si tiene ogni anno per il Festino di Santa Rosalia, patrona di Palermo. Anche in questa occasione, ben lungi da ogni retorica, Lorefice ha saputo parlare al cuore dei palermitani creando manifesti programmatici di puro vangelo, che scuotessero le coscienze e incoraggiassero ognuno ad un bene comune coraggioso, da costuirsi insieme senza paura. Ne citiamo solo qualche passo, molto più eloquente di qualsiasi commento.

Dal primo coraggioso discorso, appena insediato da pochi mesi, nel 2016, dove subito chiariva verso quale giustizia si schierava: “Si può apparire potenti, si possono avere tanti soldi vivendo da mafiosi, da sfruttatori, ma non facciamoci annebbiare, non fatevi annebbiare care ragazze e cari ragazzi che siete qui stasera: chi vive così è un disperato, chi vive così non gusta nulla della vita! È solo un latitante della vita!! … Per questo voglio rivolgermi da qui agli uomini che hanno violato e ferito così profondamente la nostra Città, a tutti quelli che intendono continuare su questa strada: ‘Fermatevi! Riflettete! Pensate a quando il sole tramonta, scende la sera, e voi tornate a casa, dalla vostra famiglia, dai vostri figli. E sapete di non poter essere fieri davanti a loro di aver annientato la bellezza, di aver dato fuoco agli alberi, di aver violato la natura, di aver estorto denaro e trafficato narcotici devastanti la mente ed il cuore delle nuove generazioni, di aver disprezzato la giustizia e l’onestà. Risvegliate il vostro cuore. Non rimanete in questo nulla. Vi dico stasera, da vescovo – cioè da uno che è chiamato a ‘vegliare’ sulla Chiesa e sulla Città – che nonostante tutto voi siete e io mi sento vostro fratello, che sono qui pronto ad ascoltare le vostre parole, a sentire il risentimento o la mancanza da cui si genera la vostra determinazione nel male. Sono qui ad aspettarvi e a darvi un’occasione, a piangere come Gesù ma anche a sperare. Non tradite Palermo e non tradite voi stessi!”

E più avanti, nel 2020, in piena pandemia, si rivolgeva alla stessa “Santuzza” con queste parole: “È come se tu stasera ci ricordassi che la pandemia, ogni pandemia, è stata ed è una grande lezione di sobrietà… Rosalia, tu ci inviti a riscoprire la lentezza, le piccole cose, la gioia di gesti e di atti di cui non ci rendevamo più conto, che non apprezzavamo più. Dire una parola buona, guardare negli occhi chi ci ama, aspettare che venga su il caffè e berlo accanto alle persone con cui condividiamo la vita, innaffiare una pianta o scambiare quattro chiacchiere per il puro piacere della compagnia, dare una mano al vicino, alla vicina di casa di cui non ci siamo mai accorti. Mi ha colpito molto che nel tempo del lockdown, abbia potuto conoscere e frequentare ogni giorno dal balcone le famiglie che abitano di fronte al vescovado…”

Nell’ultimo discorso del 2021 presentava, infine, con calore lo stile di un possibile stare insieme evangelico: “la sfida oggi, della casa e della città: nonostante la diversità di visioni e di interessi, ritrovare nuovamente la rete umana di cui facciamo parte. Essere interconnessi non è né un’imposizione dall’alto, né un precetto morale: è un’istanza di identità e di sopravvivenza. Restare in questa interconnessione, restare nella condivisione, è l’unica via per la vita piena. Questo per i cristiani è la Pentecoste. Lo Spirito unisce perché comprende e rispetta ogni lingua. Come quando si mette in atto la traduzione da una lingua all’altra che ha la stessa dignità della prima, così una comunione è vera se ad ogni lingua, ad ogni persona, ad ogni gruppo viene riconosciuta pari dignità”.

Un premio, diremmo, certamente meritato quello a Monsignor Lorefice, anche perché inserito in un tempo sinodale della Chiesa dove, per dirla con le sue stesse parole, “la comunità cristiana si rimette in ascolto innanzitutto del suo Signore e poi ascolta tutti, ma proprio tutti, anche coloro che non hanno una partecipazione attiva – magari sporadica – alle nostre comunità, anche coloro che, lontani dalla Chiesa seppur battezzati, possono offrire molto in questo momento.”

Fonte: Vino Nuovo

L’ARCIVESCOVO DI PALERMO LOREFICE: “UNA CHIESA NEUTRA È ANCHE PEGGIO DI UNA CHIESA MAFIOSA”

 Il pastore della diocesi siciliana ha scritto “Siate figli liberi. Alla maniera di Pino Puglisi”, sull’eredità del sacerdote ucciso 25 anni fa da Cosa nostra.



famiglia cristiana

“Don Pino Puglisi e la sua testimonianza  non sono alle nostre spalle, ma davanti a noi. Capita che una volta arrivati agli onori degli altari, si sia posti in una nicchia e sia tutto finito lì. Ma non è il caso di un uomo come don Pino, perché il sangue dei martiri è germe di una testimonianza evangelica capace di affrontare l’oggi. E don Puglisi ci rimanda a una chiesa che pende dalle labbra del Signore. Una chiesa discepola, che ripercorre vie, strade, profumi, ma anche gli olezzi della storia dell’uomo e non cerca esenzioni dai poteri costituiti. La chiesa di Papa Francesco”.

Le parole sono di chi lo ha conosciuto bene il beato don Pino e ci ha lavorato assieme:monsignor Corrado Lorefice, arcivescovo di Palermo, che a 25 anni dalla morte per mano di mafia del sacerdote siciliano, ha voluto dedicare un libro (Siate figli liberi! Alla maniera di Pino Puglisi, appena uscito per le Edizioni San Paolo) alla preziosa eredità che questo martire ha lasciato alla chiesa.     

Una testimonianza limpida che non parla solo alla terra siciliana. E’ così?

“Sì, don Pino è un sacerdote che ha da dire molto alla chiesa in Italia, e non solo. Siamo negli anni ’90, quando il sacerdote è parroco nel quartiere palermitano di Brancaccio proprio dove risiede il clan dei fratelli Graviano, lì dove sta la base di Cosa Nostra. E pensa in termini evangelici una presenza della comunità cristiana che annunci non il… padrino nostro, bensì il Padre Nostro, chiamando proprio così anche il centro aperto in città. E dice: “Siate figli liberi, non di Cosa Nostra, assumendosene paternità e maternità”.

Ma che significa fare memoria del martire a 25 anni dalla sua uccisione?

“Partirei dalla scelta fatta dal Papa Francesco che ha scelto di venire in Sicilia il 15 settembre 2018, una data non qualunque: 25 anni dopo la morte del sacerdote, avvenuta proprio quel giorno. Il Papa nei suoi viaggi in Italia non si muove mai a caso, ma sembra tracciare una specie di filo rosso della testimonianza della chiesa italiana che parte da Nord e scende a Sud. E’ partito infatti da Bozzolo, paese lombardo di don Primo Mazzolari, per scendere come pellegrino a Barbiana, dove operò don Lorenzo Milani; per poi passare in Puglia, patria di don tonino Bello. Infine è stata la volta della Sicilia e di Palermo, per incontrare don Pino”.

Tutti preti scomodi…        

“Sì,  preti di avamposto. Che hanno dato testimonianza di profezia, insita nel Vangelo, e che quindi ha bisogno di essere capita e accolta. Come sempre la profezia destabilizza un certo ordine, ma lo fa per riconsegnare la storia a Dio e al suo Regno, che trasforma e libera. Questo è il significato della testimonianza di don Puglisi, che diventa via maestra di una chiesa libera, asservita solo al vangelo, capace di testimonianza fino al martirio, secondo le orme di Gesù”.

Una chiesa povera, come ha sottolineato nel libro più volte, quella propugnata da papa Francesco. Vuol dire che non si dà libertà senza povertà?

Sì, e come insegna Francesco, non si tratta di povertà solo in termini teoretici, ma in termini di consapevolezza ecclesiale: la chiesa povera è ricca solo del Vangelo e solo questa forza può dare l’audacia del  martirio, fino all’effusione del sangue, creando passaggio dalle tenebre alla luce, dal potere strozzino che schiavizza,  tipico della mafia, alla libertà dei figli di Dio”.

Ci sono state resistenze al pieno riconoscimento del martirio di don Puglisi?

“Forse qualche opposizione sì, com’è inevitabile che sia. Ma ha prevalso il sensus fidei del popolo di Dio, un po’ come accadde con il martirio di Monsignor Romero. Perché il popolo di Dio ha naso nel riconoscere i veri testimoni del Vangelo”.

Pino Puglisi non amava essere definito prete anti-mafia. Come lo definirebbe?

“Don Pino è un prete senza aggettivi,  che non rientra nei canoni del prete anti-mafia. Non si faceva spazio solo con le parole, ma lavorava lontano dai riflettori, nella ferialità. E’ stato un grande educatore, proprio per aver fatto leggere ad altri, ad iniziare dai più piccoli,  l’esperienza umana seminata della Pasqua di Cristo. E se oggi a Palermo c’è gente capace di  esprime una fede adulta e impegnata, è perché ha avuto accanto lui”.

Pare sia riuscito a toccare addirittura il cuore di chi lo ha ucciso. Giusto?

“Lui fu uomo del sorriso, fino alla fine. L’ultima immagine che è rimasta impressa nei suoi occhi è quella dei suoi killer che ha portato con sé al cospetto del Signore. Ecco il “convertitevi” e il senso della mitezza evangelica: don Pino ha dato la vita per tutti, anche per chi lo ha ucciso, sulle orme di Cristo”.

Lei dedica un capitolo del libro alla pietà popolare, ricordandone l’importanza. Quella religiosità che non dev’essere strumentalizzata dalla mafia, come ammoniva Papa Francesco al clero raccolto in cattedrale a Palermo. Un rischio ancora attuale?

“Papa Francesco ha voluto riprendere il tema della pietà popolare, a lui carissima per la sua formazione teologica. Sapendo che in Sicilia è ancora forte il sentimento di pietà popolare, ma sapendo anche che permangono in essa anche delle forme equivoche, ha esaltato quella vera che è il “sistema immunitario della Chiesa”, patrimonio da custodire gelosamente; di converso la volontà di piegare Dio alla finalità di potere, insito nella cultura mafiosa,  deve trovare nella testimonianza della Chiesa una decisa parola critica. E’ una sfida educativa oggi per certi versi ancor più ardua, perché affronta una mentalità invasiva”.

Perché, secondo lei,  oggi il contrasto alle mafie è ancor più arduo rispetto a 25 anni fa?

“La mafia s’è trasformata: non ci sono più i delitti efferati degli anni Ottanta e Novanta; ma la sua azione è più subdola, perché s’è aziendalizzata e questo fenomeno oggi non riguarda più solamente il Sud, ma prolifera ovunque. A renderla ancora più pericolosa, poi, è il fatto che vive e prospera all’interno di una cultura performante. Una cultura invasiva idolatrica, che venera il dio Mammona. Il Vangelo non può essere che forza di debolezza, per dirla alla San Paolo, che, senza uso di violenza, si oppone alla mafia”.

Perché ha scritto che il  “dopo-Pino” deve ripartire dai bambini?

“E’  lo stesso stile pastorale di don Pino a dircelo:  utile e giusto manifestare in piazza contro la mafia, ma da buon pedagogo sapeva che era ben più importante l’educazione delle nuove generazioni: è da lì che si deve ripartire. Cosa Nostra vuole figli dipendenti. Invece il Vangelo crea figli liberi, adulti”.

Lei ha scritto che “una chiesa neutra è anche peggio di una chiesa collusa”. Parole forti, non crede?

Parole che leggiamo anche nell’Apocalisse: “sei freddo, non ti riconosco”, dice l’Angelo. Invece il Vangelo fa prendere sempre posizione, non per spirito di contraddizione, ma perché rende autenticamente liberi. Una chiesa neutra è già segnata, perché si adegua al contesto, senza più diventare ciò che deve essere, cioè lievito e sale del mondo”. 

La chiesa di papa Bergoglio non è certo neutra, ma ci sono opposizioni a questa linea…

 “E’ facile rispondere: vuol dire che Papa Francesco, che pensa a una chiesa umile e discepola del Vangelo, che dimentica tutti i linguaggi e i segni del potere, sta facendo sul serio col Vangelo. Chi fa resistenza sono coloro che  sono preoccupati di perdere potere, che hanno nostalgia del passato di potere, un’idea sbagliata della  sacralità”.

Lei ha conosciuto Pino Puglisi. In che occasione e che impressione le fece?

“Lo conobbi perché negli anni ’80 era il direttore del Centro Regionale Vocazioni e io, sacerdote fresco di nomina, nel 1988 fui nominato direttore del Centro vocazioni della diocesi di Noto, quindi ero membro anche del Centro regionale, per cui fino al 1990 ci si vedeva spesso a incontri e convegni. Riconosco nell’esito finale della sua vita lo spessore di un’umanità bella, capace di incrociare l’umanità degli altri, soprattutto dei giovani, e di un uomo coerente innamorato del Vangelo e della Chiesa. Era, inoltre, un grande lettore che frequentava le Scritture e le scienze antropologiche. Un vero formatore”.