Pastorale. «Siamo andati a convivere e ora preghiamo di più»

L’Ufficio Cei di pastorale familiare ha avviato una ricognizione delle proposte attive nelle diocesi per le coppie di conviventi e per le giovani coppie. L’analisi del teologo Francesco Pesce

«Siamo andati a convivere e ora preghiamo di più»

Archivio

avvenire.it

“Adesso che siamo andati a convivere, preghiamo insieme ogni giorno e ci sentiamo più vicini anche nella fede”. Non è una frase inventata. L’hanno detta due fidanzati a don Francesco Pesce, direttore del Centro Famiglia della diocesi di Treviso. E don Francesco, docente di teologia, l’ha raccontata in forma anonima ieri sera nel corso dell’incontro periodico tra i responsabili diocesani di pastorale familiare coordinati dal direttore nazionale dell’Ufficio Cei, padre Marco Vianelli.

Al centro del confronto il tema dell’accompagnamento delle coppie conviventi e delle giovani coppie, una questione complessa, con diverse angolazioni, su cui l’Ufficio Cei di pastorale familiare ha sentito il bisogno di mettere a confronto le diverse esperienze avviate nelle comunità. Dovrebbe uscirne un quadro esauriente per una riflessione più mirata, ma anche una serie di spunti legati alle esperienze locali, per capire qual è l’oggi l’atteggiamento del giovani – e meno giovani – che chiedono alla Chiesa di essere accompagnati nelle loro storie d’amore. Dai primi risultati si delinea una diffusione di questi percorsi – che sono diversi da quelli tradizionali di preparazione al sacramento del matrimonio – in oltre il 50% delle diocesi.

Don Francesco Pesce, che studia da tempo queste dinamiche di antropologia pastorale, ha messo in luce come il desiderio di accompagnamento, di confronto e di accoglienza delle coppie conviventi assuma diverse forme, quasi impossibili da definire con uno sguardo univoco. “Spesso, durante questi incontri – ha riferito l’esperto – mi chiedono se le coppie conviventi possono fare la comunione. La mia risposta è “dipende”, perché la varietà delle situazioni impedisce le chiusure troppo nette, ma anche la tolleranza generalizzata”. Difficile, per esempio, nel caso della coppia di cui si diceva all’inizio, quella che prega insieme con più fervore proprio grazie all’avvio della convivenza, capire se deve prevalere la considerazione positiva per il rinnovamento impegno nella fede oppure il dato problematico legato alla convivenza.

“A rigore di dottrina – ha aggiunto don Pesce – dovremmo dire che le coppie impegnate a vivere come fratello e sorella possono accedere ai sacramenti, le altre no”. Ma, ha argomentato ancora il teologo, cosa significa vivere “come fratello e sorella”? Non si tratta di uno sguardo che impoverisce il concetto di fraternità? E ancora – diciamo noi – perché per le coppie conviventi non può valere l’apertura previste dal capitolo VIII di Amoris laetitia? Don Francesco ieri sera ha citato il punto 304 dell’Esortazione postsinodale: “… meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano”.

Più che la norma, serve allora un confronto sereno ed autentico sulla “qualità cristiana” della vita di coppia dei conviventi. Stanno percorrendo un cammino di fede? Pregano insieme? Affrontano insieme, con un dialogo non banale, le questioni fondamentali della vita? Esprimono il desiderio di aprirsi alla vita? Si pongono il problema di avvicinarsi al sacramento del matrimonio? “Ci sono coppie di conviventi che dopo dieci anni di vita in comune – ha riferito ancora il teologo – sono ferme, anche umanamente, all’ABC della relazione e mostrano anche scarso interesse a condividere la vita quotidiana, per esempio hanno il contocorrente rigorosamente separato. E altre, invece, che vivono con pienezza umana e cristiana la loro unione”. Evidentemente la considerazione, anche sotto il profilo pastorale, non può che essere diversa. Anche di fronte a una coppia convivente lo strumento di valutazione si chiama discernimento.

Don Pesce ha parlato per la maggior parte delle coppie di un percorso che sempre più spesso segue una sorta di “cammino a tappe”. E, con un pizzico di ironia, ha elencato i vari momenti: conoscenza, innamoramento, week end insieme, poi vacanze estive, poi trasferimenti periodici l’uno nella casa dell’altra e viceversa, poi convivenza, adozione di un cane (“giusto per provare che sono in grado di prendersi cura insieme di un altro essere vivente”) e infine – quando le cose vanno bene – la grande decisione, un figlio. Al termine, se tutto ha funzionato al meglio, arriva il matrimonio. “Inutile scandalizzarsi o rimpiangere i “bei tempi andati”, anche i nostri ragazzi sono immersi in questa cultura. Cosa facciano? Prendiamo le distanze o poniamo il massimo impegno per non far sentire sole queste coppie? Perché non mostrare loro che vita quotidiana insieme è un’opportunità per crescere anche nella vita spirituale?”.

La grande sfida – ha concluso il teologo – è quella di tenere insieme l’annuncio del matrimonio sacramento e l’invito a integrare tutti. “Integrare tutti – ha argomentato – non significa oscurare il significato del matrimonio sacramento. Ma mettere al cento il matrimonio non significa neppure svalutare tutte le altre situazioni”. Che, come spiegato, sono davvero tante e comprendono persone che non vogliono o non possono in quel determinato momento della loro vita puntare al matrimonio sacramento. La Chiesa continua ad annunciare che il matrimonio è la via fondamentale per vivere l’amore in pienezza, ma tutte le altre situazioni non sono da demonizzare. Anche se non sono l’ideale della proposta cristiana per la vita di coppia, hanno in sé quei semina Verbi che una pastorale attenta e prudente ha il dovere di accogliere e di far maturare con strumenti nuovi e atteggiamenti attenti alle trasformazioni socio-culturali.

Su questa strada, i coniugi Barbara Baffetti e Stefano Rossi, collaboratori del direttore nazionale dell’Ufficio Cei, hanno illustrato le diverse esperienze avviate nei territori la cui varietà dimostra l’ampiezza della richiesta: dai percorsi per chi convive e chiede il matrimonio, ad altri finalizzati ad approfondire soltanto il legame affettivo, oppure che, a partire dalla preparazione per il battesimo dei figli, invitano a riflettere sugli snodi della vita di coppia, sugli strumenti per il discernimento, sui momenti di preghiera e di festa. Una bella e opportuna ricognizione quella avviata dall’Ufficio Cei per la pastorale familiare che continuerà nei prossimi mesi e si preannuncia densa di spunti e di proposte innovative.

La diocesi di Livorno ha reso nota oggi una disposizione in cui si dà possibilità a chi magari da tempo convive o ha contratto solo un matrimonio civile, di poter celebrare il Sacramento del matrimonio nella semplicità della propria casa, insieme anche solo ai testimoni

La disposizione ha ricevuto il via libera da parte del consiglio presbiteriale e fa riferimento all’esortazione apostolica Amoris laetitia: “Nel cuore di tanti conviventi e di coloro che hanno celebrato un matrimonio solo civile, spesso vi è il desiderio di celebrare un matrimonio religioso, ma vi sono alcuni impedimenti di natura morale e sociale che creano ostacoli. Dobbiamo far sentire la vicinanza della Chiesa che accompagna la coppia nel loro discernimento, affinché nei futuri sposi cristiani vi sia quella maturità umana, sostenuta dalla grazia di Dio, che li sostenga durante la vita coniugale”.

“Su questa base – sottolinea il vescovo mons. Simone Giusti – con questa disposizione abbiamo pensato di facilitare in parte un ritorno al matrimonio religioso. È paradossale che alcune coppie rifiutino di sposare in chiesa dicendo che non hanno i soldi per il matrimonio, come se il Sacramento costasse ed anche molto! In realtà è la festa del matrimonio che è diventata sempre più costosa nell’era del consumismo: con suonatori in chiesa, servizio fotografico da star, ricevimenti da favola, viaggi di nozze nelle località più incredibili. La celebrazione del Dacramento del matrimonio non costa nulla, al massimo se una coppia lo vuole, lascia un’offerta per i poveri e non per il prete. Ma la situazione d’impoverimento delle famiglie italiane, ha provocato già a partire dal 2008, un crollo drastico dei matrimoni celebrati in chiesa e purtroppo da molti la motivazione apportata è proprio quella di natura economica.  Certo sappiamo bene che accanto a questa reale motivazione ce ne sono anche altre legate alla privatizzazione del matrimonio, divenuto evento intimo che si pensa riguardi solo la coppia; pertanto persa la sua valenza sociale non si afferra più perché ci si debba sposare con rito pubblico alla presenza di un rappresentante della comunità civile o religiosa. Perché, molti dicono, il prete deve inserirsi in una questione che viene percepita come solo privata, solo riguardante la coppia: “cosa c’entra il prete con il nostro amore?” Le motivazioni quindi sono diverse e complesse ma occorre dare dei segnali di accoglienza ai tanti che sono cristiani ma hanno difficoltà oggi a sposarsi in chiesa”.

Come si afferma nell’esortazione apostolica Amoris laetitia: “Nel cuore di tanti conviventi e di coloro che hanno celebrato un matrimonio solo civile, spesso vi è il desiderio di celebrare un matrimonio religioso, ma vi sono alcuni impedimenti di natura morale e sociale che creano ostacoli. Dobbiamo far sentire la vicinanza della Chiesa che accompagna la coppia nel loro discernimento, affinché nei futuri sposi cristiani vi sia quella maturità umana, sostenuta dalla grazia di Dio, che li sostenga durante la vita coniugale”.

“Su questa base – sottolinea il vescovo mons. Simone Giusti – con questa disposizione abbiamo pensato di facilitare in parte un ritorno al matrimonio religioso. È paradossale che alcune coppie rifiutino di sposare in chiesa dicendo che non hanno i soldi per il matrimonio, come se il Sacramento costasse ed anche molto! In realtà è la festa del matrimonio che è diventata sempre più costosa nell’era del consumismo: con suonatori in chiesa, servizio fotografico da star, ricevimenti da favola, viaggi di nozze nelle località più incredibili. La celebrazione del Dacramento del matrimonio non costa nulla, al massimo se una coppia lo vuole, lascia un’offerta per i poveri e non per il prete. Ma la situazione d’impoverimento delle famiglie italiane, ha provocato già a partire dal 2008, un crollo drastico dei matrimoni celebrati in chiesa e purtroppo da molti la motivazione apportata è proprio quella di natura economica.  Certo sappiamo bene che accanto a questa reale motivazione ce ne sono anche altre legate alla privatizzazione del matrimonio, divenuto evento intimo che si pensa riguardi solo la coppia; pertanto persa la sua valenza sociale non si afferra più perché ci si debba sposare con rito pubblico alla presenza di un rappresentante della comunità civile o religiosa. Perché, molti dicono, il prete deve inserirsi in una questione che viene percepita come solo privata, solo riguardante la coppia: “cosa c’entra il prete con il nostro amore?” Le motivazioni quindi sono diverse e complesse ma occorre dare dei segnali di accoglienza ai tanti che sono cristiani ma hanno difficoltà oggi a sposarsi in chiesa”.

toscanaoggi.it

Il teologo risponde: Possono un divorziato e la sua convivente far battezzare il proprio bambino? Sì

Possono un divorziato e la sua convivente far battezzare il proprio bambino? Sì, a condizione che ambedue i genitori, o almeno uno di essi, garantiscano l’educazione cristiana.

La Chiesa, che con tutte le sue forze difende l’ideale evangelico del matrimonio unico e indissolubile, non chiude la porta del Battesimo ai bambini, figli di conviventi, che con storie assai diverse si trovano in una evidente situazione familiare “irregolare”, cioè non secondo il progetto ideale cristiano.I bambini davanti a Dio sono tutti uguali e ugualmente chiamati a instaurare un rapporto di comunione con Dio. Anche nel caso in cui non fosse possibile regolarizzare la posizione matrimoniale dei genitori, è possibile battezzare il bambino «a condizione che ambedue i genitori, o almeno uno di essi, garantiscano di dare ai loro figli una vera educazione cristiana».

Se i genitori non si sentono in grado di farlo, il padrino o la madrina, o un parente prossimo o un membro qualificato della comunità cristiana, deve assumersi seriamente questa responsabilità e impegnarsi ad accompagnare il bambino fino al completamento della sua iniziazione cristiana con la Cresima e la prima partecipazione all’Eucaristia. E, possibilmente, anche dopo, fin quando necessario o opportuno.

Silvano Sirboni – famigliacristiana.it