Così il Concilio sancì il diritto alla libertà religiosa

«Questo Concilio Vaticano dichiara che la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa». Era il 7 dicembre di 55 anni fa, e i vescovi riuniti nella basilica di San Pietro approvavano uno dei documenti conciliari più a lungo discussi, la dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa. «Il contenuto di una tale libertà — affermava il documento — è che gli esseri umani devono essere immuni dalla coercizione da parte dei singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potere umano, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad essa: privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata. Inoltre dichiara che il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana quale l’hanno fatta conoscere la parola di Dio rivelata e la stessa ragione. Questo diritto della persona umana alla libertà religiosa deve essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell’ordinamento giuridico della società».

Il contributo di Papa Montini

Dignitatis humanae è un testo che ha subito una trasformazione radicale nel corso di ben cinque diverse stesure prima di essere approvato. Il problema fondamentale, che creava maggiori difficoltà, era il modo di definire questa libertà. Nel secondo degli schemi preparati questa veniva presentata come un diritto positivo, come facoltà di agire e diritto a non essere impedito di agire. «Ma già nel terzo schema — ricordava il cardinale domenicano Jérôme Hamer, all’epoca uno degli esperti teologi che aveva collaborato alla stesura — l’ambiguità di una libertà religiosa definita come diritto positivo e negativo era scomparsa. Si parlava ormai di un diritto all’immunità, un diritto a non subire coercizioni da parte di qualsiasi potere umano non solo nella formazione della coscienza in materia religiosa, ma anche nel libero esercizio della religione». Un contributo decisivo per la formulazione del documento e della definizione della libertà religiosa come immunità era arrivato da Paolo VI, che nel corso di un’udienza pubblica, il 28 giugno 1965, descrivendo la libertà religiosa aveva detto: «Voi vedrete riassunta una gran parte di questa dottrina capitale in due proposizioni famose: in materia di fede che nessuno sia impedito! Che nessuno sia costretto!» (nemo cogatur, nemo impediatur).

L’ordine di votare la bozza

Il dibattito in aula era stato acceso, con 62 interventi orali e un centinaio di contributi scritti. Permangono delle difficoltà e gli organismi direttivi del Concilio decidono di non far votare il testo, come invece chiedeva il Segretariato per l’unità dei Cristiani. I timori espressi erano sempre gli stessi: uguali diritti conferiti “a chi è nella verità e a chi è nell’errore”, la proposizione di un modello “di Stato neutro condannato dalla Chiesa”, una dottrina “in opposizione a quella tradizionale della Chiesa in materia”. È Papa Montini a intervenire il 21 settembre, impartendo l’ordine di far votare i padri, e chiedendo loro se il testo predisposto potesse rappresentare la base di lavoro per la futura dichiarazione. La votazione registra, su 2.222 presenti, la risposta affermativa di 1.997, quella negativa di 224 e un voto nullo. Il cardinale Pietro Pavan definirà “storico” l’intervento papale che aveva stabilito di far votare la bozza.

La dignità della persona

Il testo definitivo del documento, al paragrafo primo, recita: «E poiché la libertà religiosa… riguarda l’immunità dalla coercizione nella società civile, essa lascia intatta la dottrina tradizionale cattolica sul dovere morale dei singoli e della società verso la vera religione e l’unica Chiesa di Cristo». L’affermazione del diritto alla libertà religiosa non equivale dunque né a mettere verità e falsità sullo stesso piano, né ad affermare indifferenza o arbitrio in ambito religioso. «Poiché rimane il dovere di formarsi una coscienza vera — ha osservato padre Gianpaolo Salvini — non c’è alcuna opposizione con la consapevolezza della Chiesa di essere l’unica vera religione… Il fondamento della libertà religiosa è espresso in modo assertivo e viene indicato nella dottrina cattolica della dignità della persona umana. Inoltre è visto in modo nuovo il rapporto con i dati biblici e con la rivelazione che, benché non parli espressamente di questo diritto (che è una determinazione civile e giuridica), tuttavia rivela la dignità della persona umana in tutta la sua ampiezza in modo congruo con la libertà dell’atto di fede cristiano».

Contro l’ateismo di Stato nei Paesi dell’Est

«Il contributo personale di Paolo VI su quel documento conciliare è stato determinante», attesta il cardinale Pietro Pavan. Il Papa era intervenuto per far votare comunque lo schema in lavorazione e aveva contribuito alla definizione di libertà religiosa come un diritto all’immunità. Il contributo di Montini va letto anche alla luce dell’importante viaggio all’Onu dell’ottobre 1965, e degli iniziali contatti con i regimi d’Oltreocortina finalizzati a migliorare in qualche modo le condizioni di vita dei cristiani e più in generale delle popolazioni sottoposte alla dittatura comunista. La dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa sarà infatti un utile strumento per rivendicare il rispetto di questo elementare diritto nei Paesi dove si professava l’ateismo di Stato.

Giovanni Paolo II: tra i testi più rivoluzionari

In un messaggio del 7 dicembre 1995, in occasione del trentennale dell’approvazione della dichiarazione, Giovanni Paolo II — che da padre conciliare aveva potuto seguire da vicino il cammino del documento contribuendo alla sua stesura — affermava: «Il Concilio Vaticano II rappresentò una grazia straordinaria per la Chiesa e una tappa decisiva della sua storia recente. Dignitatis Humanae è senza dubbio uno dei testi conciliari più rivoluzionari. Suo è il particolare e importante merito di aver appianato la strada per quel notevole e proficuo dialogo tra la Chiesa e il mondo tanto ardentemente sollecitato e incoraggiato da un altro notevole documento conciliare, la Costituzione Pastorale Gaudium et Spes, emessa in quello stesso giorno. Guardando retrospettivamente agli ultimi trent’anni, bisogna ammettere che l’impegno della Chiesa per la libertà religiosa quale diritto inviolabile della persona umana ha sortito effetti superiori a ogni previsione dei Padri Conciliari». Quattro anni prima, nel messaggio per la Giornata della pace del 1991, Papa Wojtyła aveva ribadito che «nessuna autorità umana ha il diritto di intervenire nella coscienza di alcun uomo». La coscienza è infatti “inviolabile”, in quanto costituisce la «condizione necessaria per la ricerca della verità degna dell’uomo e per l’adesione ad essa, quando e stata adeguatamente riconosciuta». Ne deriva che «tutti devono rispettare la coscienza di ognuno e non cercare di imporre ad alcuno la propria “verità”… La verità non si impone che in virtù di se stessa».

Benedetto XVI e l’esempio dei martiri

Da ricordare sono anche le parole che Benedetto XVI aveva dedicato a questo tema nel suo primo discorso alla Curia romana, il 22 dicembre 2005, quando invitava a «considerare la libertà di religione come una necessità derivante dalla convivenza umana, anzi come una conseguenza intrinseca della verità che non può essere imposta dall’esterno, ma deve essere fatta propria dall’uomo solo mediante il processo del convincimento. Il Concilio Vaticano II, riconoscendo e facendo suo un principio essenziale dello Stato moderno, ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa. Essa può essere consapevole di trovarsi con ciò in piena sintonia con l’insegnamento di Gesù stesso, come anche con la Chiesa dei martiri, con i martiri di tutti i tempi. La Chiesa antica, con naturalezza, ha pregato per gli imperatori e per i responsabili politici considerando questo un suo dovere; ma, mentre pregava per gli imperatori, ha invece rifiutato di adorarli, e con ciò ha respinto chiaramente la religione di Stato». «I martiri della Chiesa primitiva — affermava ancora Papa Ratzinger — sono morti per la loro fede in quel Dio che si era rivelato in Gesù Cristo, e proprio così sono morti anche per la libertà di coscienza e per la libertà di professione della propria fede — una professione che da nessuno Stato può essere imposta, ma invece può essere fatta propria solo con la grazia di Dio, nella libertà della coscienza. Una Chiesa missionaria, che si sa tenuta ad annunciare il suo messaggio a tutti i popoli, deve impegnarsi per la libertà della fede».

Sfida al mondo globalizzato

In un intervento rivolto ai partecipanti al convegno internazionale “La libertà religiosa secondo il diritto internazionale e il conflitto globale dei valori”, Papa Francesco ha affermato: «La ragione riconosce nella libertà religiosa un diritto fondamentale dell’uomo che riflette la sua più alta dignità, quella di poter cercare la verità e di aderirvi, e riconosce in essa una condizione indispensabile per poter dispiegare tutta la propria potenzialità. La libertà religiosa non è solo quella di un pensiero o di un culto privato. È libertà di vivere secondo i principi etici conseguenti alla verità trovata, sia privatamente che pubblicamente. Questa è una grande sfida nel mondo globalizzato, dove il pensiero debole — che è come una malattia — abbassa anche il livello etico generale, e in nome di un falso concetto di tolleranza si finisce per perseguitare coloro che difendono la verità sull’uomo e le sue conseguenze etiche».

di Andrea Tornielli – osservatoreromano.va

Papa Francesco e il Vaticano II

«Volendo scorgere e studiare quale sia la visione ecclesiologica sottesa ai documenti principali e agli interventi di papa Francesco, viene da dichiarare, sin da subito e in maniera sintetica, che ci si trova alle prese con una nuova fase di recezione dell’insegnamento ecclesiologico espresso dal Vaticano II».

È la convinzione di Roberto Repole,[1] docente di teologia sistematica presso la Facoltà teologica di Torino e presidente dell’Associazione teologica italiana, peraltro ampiamente condivisa in ambito teologico. Basti citare Ghislain Lafont, docente emerito di ecclesiologia presso la Gregoriana e l’Ateneo Sant’Anselmo: «Il quadro generale nel quale collocare l’evento Francesco, che è uno sviluppo dell’evento Vaticano II», è «il passaggio a un’intelligenza e a una pratica rinnovate del Vangelo».[2] O Piero Coda, docente di teologia e ontologia trinitaria presso l’Istituto Universitario Sophia di Loppiano e membro della Commissione teologica internazionale: «Papa Francesco è il primo papa che non ha partecipato al concilio Vaticano II. L’insegnamento conciliare scorre nelle sue vene, illumina i suoi pensieri, accende i suoi sogni, ispira le sue decisioni. In altri termini, non vi è più per lui conflitto d’interpretazioni… nell’interpretazione dell’ultimo Concilio».[3] O ancora Christoph Theobald, per il quale l’esortazione apostolica Evangelii gaudium – il documento programmatico del pontificato di Francesco – «mantiene, ad un tempo, un rapporto vivo con il Concilio, da una parte, e una reale libertà rispetto al corpus conciliare dall’altra, corpusche essa interpreta riscrivendolo, se posso esprimermi così».[4]

“Il Vaticano II? Bisogna farlo”

Che cosa papa Francesco pensi del concilio ecumenico Vaticano II è lui stesso a dircelo.

Nell’intervista concessa a La Civiltà Cattolica nell’agosto/settembre 2013, alla domanda di Antonio Spadaro «Che cosa ha realizzato il concilio Vaticano II? Che cosa è stato?», Francesco risponde: «Il Vaticano II è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea. Ha prodotto un movimento di rinnovamento che semplicemente viene dallo stesso Vangelo. I frutti sono enormi».[5]

Martedì 8 ottobre 2013, presentando a Roma il suo libro La sorpresa di papa Francesco,[6] Andrea Riccardi, storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, ha affermato che, nel corso di un suo colloquio con Francesco, gli ha fatto notare: «Lei non parla molto del Concilio». Risposta del papa: «Il Concilio bisogna farlo, più che parlarne».

Nella Evangelii gaudium scrive che «il concilio Vaticano II ha presentato la conversione ecclesiale come l’apertura ad una permanente riforma di sé per fedeltà a Gesù Cristo»[7] e che la dottrina della costituzione dogmatica conciliare Lumen gentium sta alla base delle linee che intende proporre al fine di «incoraggiare e orientare in tutta la Chiesa una nuova tappa evangelizzatrice».[8]

Nella bolla di indizione del Giubileo straordinario della misericordia scrive che, «nel 50° della conclusione del concilio ecumenico Vaticano II, la Chiesa sente il bisogno di mantenere vivo quell’evento», inizio di un nuovo percorso della sua storia.[9]

Nel discorso fatto il 29 dicembre 2017 ai membri dell’Associazione teologica italiana, Francesco afferma: «La Chiesa deve sempre riferirsi a quell’evento, con il quale ha avuto inizio una nuova tappa dell’evangelizzazione e con cui essa si è assunta la responsabilità di annunciare il Vangelo in un modo nuovo, più consono a un mondo e a una cultura profondamente mutati. È evidente come quello sforzo chieda alla Chiesa tutta, e ai teologi in particolare, di essere recepito all’insegna di una fedeltà creativa: vi chiedo di continuare a rimanere fedeli e ancorati, nel vostro lavoro teologico, al Concilio e alla capacità che lì la Chiesa ha mostrato di lasciarsi fecondare dalla perenne novità del Vangelo di Cristo».

In sostanza – scrive la biblista Marinella Perroni – «Francesco sa molto bene che, mai, elementi di continuità con il passato possono impedire fermenti di discontinuità che preparano il futuro e non si lascia quindi intrappolare nella contrapposizione tra ermeneutica della continuità ed ermeneutica della rottura. Si inserisce, invece, nel complesso iter della recezione del Vaticano II, delle aspettative mancate, delle parole ambigue e dei silenzi eloquenti, delle scelte fatte da alcuni e dell’acquiescenza di molti, e prova a riannodare i fili di quell’evento che tanto ha ancora da dire alla Chiesa».[10]

visione ecclesiologica

Nuova fase di recezione del Concilio Vaticano II

Roberto Repole individua in almeno una decina di argomenti[11] la nuova fase di recezione e di rilancio dell’insegnamento ecclesiologico espresso dal Vaticano II avviata da Francesco.

1. Una prima nuova fase di recezione dell’insegnamento del concilio Vaticano II è individuata dal prof. Repole nel dinamismo del mistero della Chiesa messo in evidenza nel primo capitolo dellaLumen gentium, laddove si afferma che la luce delle genti non è la Chiesa ma Cristo,[12] e la Chiesa può brillare solo di luce riflessa.

Nell’enciclica Lumen fidei il papa scrive testualmente: «La luce di Gesù brilla, come in uno specchio, sul volto dei cristiani e così si diffonde, così arriva fino a noi, perché anche noi possiamo partecipare a questa visione e riflettere ad altri la sua luce, come nella liturgia di Pasqua la luce del cero accende tante altre candele. La fede si trasmette, per così dire, nella forma del contatto, da persona a persona, come una fiamma si accende da un’altra fiamma».[13] La riforma per antonomasia di cui la Chiesa necessita «non si esaurisce nell’ennesimo piano per cambiare le strutture» ma consiste, in primo luogo, nell’«innestarsi e radicarsi in Cristo lasciandosi condurre dallo Spirito. Allora tutto sarà possibile con genio e creatività».[14]

La Chiesa è semper reformanda essenzialmente perché in essa deve risplendere la forma Christi. Scrive Repole: «Solo una Chiesa trasparente al Dio apparso in Cristo può far sì che egli rimanga vivo e capace di interpellare l’umanità di oggi e di sempre» e «soltanto una Chiesa realmente evangelica può consentire al Vangelo di continuare la sua strada nel mondo».[15]

2. In occasione dell’apertura del concilio ecumenico Vaticano II, l’11 ottobre 1962, Giovanni XXIII aveva indicato con le seguenti parole la via da seguire: «Ora la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imboccare le armi del rigore». E Paolo VI, al termine dei lavori del Concilio, aveva affermato che la religione del Concilio era stata «principalmente la carità» e che il paradigma della spiritualità conciliare era stata «l’antica storia del Samaritano».[16]

Con la centralità che il «Vangelo della misericordia» ha nell’insegnamento di Francesco si è in presenza di una nuova fase di recezione del magistero conciliare: la misericordia «esprime qualcosa di fondamentale del volto di Dio che si è rivelato compiutamente in Cristo».[17] Nella parola «misericordia» è rinvenibile la sintesi del mistero della fede cristiana.[18] Nel nostro tempo il tema della misericordia «esige di essere riproposto con nuovo entusiasmo e con una rinnovata azione pastorale».[19] «Volgere lo sguardo a Dio, Padre misericordioso, e ai fratelli bisognosi di misericordia, significa puntare l’attenzione sul contenuto essenziale del Vangelo di Gesù».[20]

Per Roberto Repole, la centralità della misericordia nel magistero di Francesco costituisce addirittura un «balzo in avanti» rispetto al quanto affermato con il Vaticano II.[21]

3. Per quanto riguarda il sogno della «Chiesa povera e per i poveri», con Francesco si è in presenza di un vero e proprio rilancio di quanto il Concilio aveva messo in evidenza al paragrafo 8 della Lumen gentium, laddove, da un lato, si afferma che «la Chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria terrena, bensì per diffondere, anche con il suo esempio, l’umiltà e l’abnegazione», dall’altro, si ricorda che «la Chiesa circonda d’affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa premura di sollevarne l’indigenza e in loro cerca di servire il Cristo».[22]

Annota Repole: «Si tratta di un passo – occorre riconoscerlo – passato spesso sotto silenzio nei cinquant’anni che ci distanziano dal Vaticano II».[23] Lo stile di vita sobrio di Francesco e il suo sogno di «una Chiesa povera per i poveri» non possono non richiamare alla memoria il famosoPatto delle catacombe, con il quale alcuni vescovi di tutto il modo, tra cui diversi latino-americani, il 16 novembre 1965, vollero suggellare il punto di partenza della loro recezione del concilio ecumenico Vaticano II. Chi oggi legge quel profetico documento – silenziato di fatto per 50 anni – non può che avere la netta sensazione «che Jorge Mario Bergoglio lo abbia incarnato come vescovo di Buenos Aires e lo incarni oggi come vescovo di Roma».[24]

4. Anche la categoria del «popolo di Dio», che risulta essere assolutamente centrale nei testi conciliari (la si richiama per ben 184 volte), per una serie di motivi era stata di fatto tacitata. Con Francesco se ne ha un vigoroso rilancio, con la conseguente entrata in una nuova fase di recezione del Vaticano II.[25] «Ci fa bene ricordare che la Chiesa non è un’élite dei sacerdoti, dei consacrati, dei vescovi, ma che tutti formano il santo popolo fedele di Dio. Dimenticarci di ciò comporta vari rischi e deformazioni nella nostra stessa esperienza, sia personale sia comunitaria, del ministero che la Chiesa ci ha affidato. Siamo, come sottolinea bene il concilio Vaticano II, il popolo di Dio, la cui identità è «la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come in un tempio (Lumen gentium, n. 9)».[26]

Ne consegue che «ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare ad uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati in cui il resto del popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni. La nuova evangelizzazione deve implicare un nuovo protagonismo di ciascuno dei battezzati».[27]

Scrive Repole: «Ponendosi, dunque, nella prospettiva del popolo di Dio, per Chiesa Francesco intende la totalità e la comunione dei battezzati, la cui dignità è data dall’essere figli nel Figlio in forza dell’unzione dello Spirito, che abita in ciascuno di essi».[28] Nella Chiesa, «nessun gruppo – né di chierici né di laici – può avanzare la pretesa di essere il tutto e sostituire altri».[29]

visione ecclesiologica

5. La prospettiva di un’ecclesiologia strutturata sulla categoria di «popolo di Dio» aveva indotto i padri conciliari a recuperare la dottrina del sensus filelium.[30] Ma anche questo recupero nel periodo postconciliare era stato di fatto accantonato.

La novità di Francesco, al riguardo, non sta nell’inventare la dottrina del sensus fidelium, ma – come scrive Repole – nel trattarne «in modo diffuso».[31] «In tutti i battezzati, dal primo all’ultimo, opera la forza santificatrice dello Spirito che spinge ad evangelizzare. Il popolo di Dio è santo in ragione di questa unzione che lo rende infallibile “in credendo”. Questo significa che, quando crede, non si sbaglia, anche se non trova parole per esprimere la sua fede. Lo Spirito lo guida nella verità e lo conduce alla salvezza. Come parte del suo mistero d’amore verso l’umanità, Dio dota la totalità dei fedeli di un istinto della fede – il sensus fidei – che li aiuta a discernere ciò che viene realmente da Dio. La presenza dello Spirito concede ai cristiani una certa connaturalità con le realtà divine e una saggezza che permette loro di coglierle intuitivamente, benché non dispongano degli strumenti adeguati per esprimerle con precisione».[32]

A partecipare del sensus fidei, conoscendo con le loro sofferenze il Cristo sofferente, sono in primo luogo i poveri, dai quali tutti dobbiamo lasciarci evangelizzare, avendo essi molto da insegnarci.[33]

6. La Chiesa, popolo di Dio, nella quale la dignità e l’eguaglianza di tutte le persone battezzate sono considerate un dato originario e basilare rispetto a qualsiasi distinzione in funzioni e ministeri,[34] non può non essere una Chiesa “sinodale”, che cammina insieme per annunciare e testimoniare in modo efficace il Vangelo: un camminare insieme non solo di vescovi, ma di tutto il popolo di Dio.

Nella Chiesa sinodale «ciò che riguarda tutti, da tutti è trattato», nessuno si eleva al di sopra degli altri e chi esercita le funzioni di governo lo fa ricordandosi che il più grande è come il più piccolo e chi governa come colui che serve (Lc 22,16).

L’immagine privilegiata è quella della piramide capovolta, il cui vertice si trova al di sotto della base. In una Chiesa sinodale non si può separare rigidamente un’ecclesia docens e un’ecclesia discens.[35]

Di sinodalità diffusa – alla quale tutti siamo chiamati, ciascuno nel ruolo che il Signore gli affida – al Vaticano II non se era parlato: «nella visione ecclesiologica del popolo di Dio e nella conseguente concezione del sensus fidei vi erano, però, le premesse di un suo sviluppo».[36] Per Francesco, il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio è quello della sinodalità.[37] Chiesa e Sinodo sono sinonimi.[38]

7. La visione di una Chiesa «in uscita missionaria», che sta particolarmente a cuore a Francesco, non è altro che la riproposizione dell’insegnamento conciliare del carattere strutturalmente missionario della Chiesa.[39] La recezione del Vaticano II in questo caso si caratterizza come necessità, per la Chiesa, intesa come totalità di persone battezzate, di “riformarsi”. Se la Chiesa è «semper reformanda» essenzialmente perché in essa deve risplendere la forma Christi, lo è non di meno perché tutto in essa (strutture, linguaggi, comportamenti) diventi un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale.[40]

Repole ritiene che il discorso di Francesco sulla Chiesa in uscita missionaria, non solo sia l’aspetto «più rilevante e probabilmente originale dell’ecclesiologia soggiacente il suo magistero»,[41] ma anche appaia «singolarmente incisivo e ricco proprio per le Chiese di antica cristianità, segnate oggi dalla scristianizzazione e dalla secolarizzazione»,[42] che hanno assoluta necessità di un annuncio cristiano che si concentri «sull’essenziale, su ciò che è più bello, più attraente e, allo stesso tempo, più necessario».[43]

8. Sulla scia conciliare e nella prospettiva di una Chiesa missionaria si rende necessario il richiamo all’esistenza di una «gerarchia delle verità»[44] che vale tanto per i dogmi quanto per l’insieme degli insegnamenti, anche morali, della Chiesa.[45]

Lungi dal menomare l’integralità del Vangelo e della verità, questo criterio «è piuttosto l’invito a ritrovare il cuore del Vangelo, che consiste nell’incontro salvifico con Cristo e, dunque, con l’Amore di Dio, affinché ogni verità possa essere ritrovata e integrata nella giusta prospettiva».[46]

Secondo Repole, il criterio della «gerarchia delle verità» dovrebbe essere tenuto in debita considerazione per approfondire quattro aspetti di particolare urgenza: «la ristrutturazione delle comunità cristiane sulla base della necessità di annunciare il Vangelo a quanti non lo conoscono o ne hanno una percezione errata; la costituzione di luoghi di autentica fraternità; la scelta preferenziale dei giovani; il coinvolgimento reale e responsabile dei cristiani laici».[47]

9. «Il Vaticano II è stato l’espressione di una Chiesa desiderosa di entrare finalmente in dialogo con la cultura moderna, rispetto alla quale si erano da secoli create abissali distanze».[48]

La missione di una Chiesa in uscita implica sempre una inculturazione e una evangelizzazione delle culture. Anche se il Vangelo all’inizio si è inculturato nelle culture occidentali, a cominciare da quella greca e quella latina, tutte le trascende e in tutte è chiamato ad incarnarsi.[49] Il papa afferma che «la grazia suppone la cultura e il dono di Dio si incarna nella cultura di chi lo riceve».[50]

L’inculturazione della fede attende di essere fatta anche nella cultura post-moderna. Il cristianesimo, «mantenendosi fedele alla sua identità e al tesoro di verità che ha ricevuto da Gesù Cristo, sempre si ripensa e si riesprime nel dialogo con le nuove situazioni storiche, lasciando sbocciare così la sua perenne novità».[51] «Non si può conservare la dottrina senza farla progredire né la si può legare a una lettura rigida e immutabile senza umiliare l’azione dello Spirito Santo».[52]

10. Il Vaticano II ha voluto essere un Concilio pastorale. Il che, per Francesco, significa anche sostituire al consueto e compassato “ecclesiastichese” riservato agli specialisti un linguaggio immediatamente comprensibile da persone comuni fatte non solo di ragione e pensiero ma anche di emozioni e affetti.[53] «Nell’insegnamento di Francesco appare ormai come un punto di non ritorno ciò che tanto la teologia recente quanto il magistero conciliare hanno insegnato: che la dottrina, cioè, non è né può essere qualcosa di estraneo rispetto alla cosiddetta pastorale.

La verità che la Chiesa è chiamata a custodire è quella del Vangelo di Cristo, che dev’essere comunicato alle donne e agli uomini di ogni luogo e ogni tempo. Per questo il compito del magistero ecclesiale deve essere anche quello di favorire la comunicazione del Vangelo. E per questo, la teologia non potrà mai ridursi ad un asettico esercizio da tavolino, sganciato dalla vita del popolo di Dio e dalla sua missione di far incontrare le donne e gli uomini del proprio tempo con la novità perenne e inesauribile del Vangelo di Gesù».[54]


[1] Roberto Repole, Il sogno di una Chiesa evangelica – L’ecclesiologia di papa Francesco, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2017, p. 16.
[2] Ghislain Lafont, Piccolo saggio sul tempo di papa Francesco, Edizioni Dehoniane, Bologna 2017, p.15.
[3] Piero Coda, “La Chiesa è il vangelo” – Alle sorgenti della teologia di papa Francesco, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2017, pp. 59-60.
[4] Christoph Theobald, Fraternità – Il nuovo stile della Chiesa secondo papa Francesco, Edizioni Qiqajon, Magnano (BI) 2016, p. 26.
[5] Concetto ribadito il 3 marzo 2015 in una lettera inviata al Gran Cancelliere della “Pontificia Università Cattolica Argentina” nel centesimo anniversario della Facoltà di teologia: «Il concilio Vaticano II è stato un aggiornamento, una rilettura del Vangelo nella prospettiva della cultura contemporanea. Ha prodotto un irreversibile movimento di rinnovamento che viene dal Vangelo. E adesso, bisogna andare avanti».
[6] Andrea Riccardi, La sorpresa di papa Francesco, Crisi e futuro della Chiesa, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2013.
[7] Evangelii gaudium n. 26.
[8] Evangelii gaudium n. 17.
[9] Misericordiae vultus n. 4.
[10] Marinella Perroni, Kerigma e profezia – L’ermeneutica biblica di papa Francesco, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2017, p. 70.
[11] Tutti richiamati nel già citato scritto Il sogno di una Chiesa evangelica – L’ecclesiologia di papa Francesco.
[12] Lumen gentium n. 1.
[13] Lumen fidei n. 37.
[14] Francesco, discorso del 10 novembre 2015 in occasione del V Convegno nazionale della Chiesa italiana.
[15] Roberto Repole, ib., p. 40.
[16] Paolo VI, Allocuzione del 7 dicembre 1965 in occasione dell’ultima sessione pubblica del concilio ecumenico Vaticano II.
[17] Roberto Repole, ib., p. 28.
[18] Misericordiae vultus n. 1.
[19] Misericordiae vultus n. 12.
[20] Francesco, Udienza generale di mercoledì 9 dicembre 2015.
[21] Roberto Repole, ib., p. 31.
[22] Lumen gentium n. 8.
[23] Roberto Repole, ib., p. 43
[24] Marinella Perroni, op. cit., p. 72.
[25] Roberto Repole, ib., p. 49.
[26] Francesco, lettera del 19 marzo 2016 al cardinale Marc Ouellet, presidente della Pontificia commissione per l’America Latina.
[27] Evangelii gaudium n. 120.
[28] Roberto Repole, ib., p. 59.
[29] Roberto Repole, ib., p. 61.
[30] Lumen gentium n. 12.
[31] Roberto Repole, ib., p. 71.
[32] Evangelii gaudium n. 119.
[33] Evangelii gaudium n. 198.
[34] Lumen gentium n. 32.
[35] Francesco, discorso del 17 ottobre 2015 in occasione del 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei vescovi.
[36] Roberto Repole, ivi, p. 109.
[37] Francesco, discorso per commemorare il 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei vescovi (17 ottobre 2015).
[38] Giovanni Crisostomo, Explicatio in Ps. 149.
[39] Ad gentes n. 5 e 6.
[40] Evangelii gaudium n. 27.
[41] Roberto Repole, ib. pp 81.
[42] Roberto Repole, ib. pp 83-84.
[43] Evangelii gaudium n. 35.
[44] Unitatis redintegratio n. 11.
[45] Evangelii gaudium n. 36.
[46] Roberto Repole, ib., p. 91.
[47] Roberto Repole, ib., pp. 91-96.
[48] Roberto Repole. Ib., p. 64.
[49] Evangelii gaudium n. 118.
[50] Evangelli gaudium n. 115.
[51] Laudato si’  n. 121.
[52] Francesco, discorso dell’11 ottobre 2017 ai partecipanti all’incontro promosso dal Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione.
[53] Evangelii gaudium n. 158 e n. 41.
[54] Roberto Repole. Ib., p. 8.

da Settimananews.it

Il ritratto / Albino Luciani, un Papa «apostolo del Concilio»

Stefania Falasca

Avvenire, 25 agosto 2016

Alla vigilia della sua elezione, citando Avito di Vienne – santo vescovo del VI secolo – Albino Luciani appuntava nella sua agenda personale: «Se il Vescovo di Roma è messo in discussione, non è il Vescovo, ma l’intero episcopato che vacilla». In un’omelia inedita, l’esatto momento della sua elezione a Vescovo di Roma, il cardinale argentino Eduardo Francisco Pironio lo ricordava così: «Ero proprio di fronte a lui, e lo guardavo. Ed eravamo tutti i cardinali in attesa del suo sì. Il suo sì a Cristo, un sì alla Chiesa come servitore, un sì all’umanità come pastore buono. Io l’ho visto con una serenità profonda, che proveniva da una interiorità che non si improvvisa».

Con un consenso unanime, «che aveva il sapore dell’acclamazione» – secondo l’espressione attribuita al cardinale belga Léon-Joseph Suenens -, dopo un Conclave rapidissimo, durato soltanto ventisei ore, il 26 agosto 1978, Albino Luciani saliva al soglio di Pietro. O meglio, vi discendeva, come Servus servorum Dei, abbassandosi al vertice dell’autorità che è quella del sevizio voluto da Cristo, se nella agenda personale del pontificato siglava in calce, con queste parole, l’essere ministri nella Chiesa: «Servi, non padroni della Verità».

Non fu dunque senza significato quella convergenza massiccia e spontanea dei centoundici elettori, per la maggior parte dei quali si trattava della prima esperienza di Conclave, e che non parevano disposti a sbrigare solo un ‘cambio della guardia’. Quanto basta per dire che quella scelta era stata espressione di una comune mentalità ecclesiale ed era arrivata come frutto di una più lontana e attenta riflessione. E proprio questa unanimità rivelava che non era un Papa programmato per un determinato progetto politico. Il Conclave che elesse il successore di Paolo VI è stato il primo dopo la conclusione del Concilio ecumenico Vaticano II. E quell’elezione voleva significare la volontà di progredire nell’attuazione degli orientamenti. I cardinali avevano mirato pertanto alla virtù dirimente della pastoralità. E avevano scelto il pastore. Non ci fu bisogno di particolari valutazioni o compromessi sul suo nome. Il valore di Luciani, riconosciuto da tempo, era tutto nella sua fisionomia incentrata sull’essenziale. Era il pastore nutrito di umana e serena saggezza e di forti virtù evangeliche, che precede e vive nel gregge con l’esempio, senza alcuna separazione tra la vita personale e la vita pastorale, tra la vita spirituale e l’esercizio di governo, nell’assoluta coincidenza tra quanto insegnava e quanto viveva.

Esperto di umanità e delle ferite del mondo, delle esigenze dell’immensa moltitudine dei derelitti che vivono fuori dall’opulenza, un sacerdote di vasta e profonda sapienza che sapeva coniugare in felice e geniale sintesi nova et vetera. E se il Concilio voleva essere «un segno della della misericordia del Signore sopra la sua Chiesa», come prospettato nella giovannea Gaudet Mater Ecclesia – ed effettivamente è stato la sede in cui la Chiesa ha scelto ‘la medicina della misericordia’ -, era stato eletto un apostolo del Concilio, che aveva fatto del Concilio il suo noviziato episcopale, di cui spiegò con cristallina lucidità gli insegnamenti e ne tradusse rettamente in pratica, con coraggio perseverante, le direttive. Anzi le incarnava. Naturaliter et simpliciter. In primis nella povertà, che per Luciani costituiva la fibra del suo essere sacerdote e nell’essere propter homines, nella feriale, evangelica carità.

Con l’inedita scelta del binomio ‘Giovanni Paolo’, aveva eretto l’arco di congiunzione di coloro che erano stati le colonne portanti di tale opera. Colonne che furono da taluni giudicate staccate. Luciani conosceva questo dissidio serpeggiante in seno alla Chiesa e lo considerava offensivo della verità e nemico dell’unità e della pace. La scelta del binomio è stata pertanto una delle espressioni non rare dell’intuito geniale con cui il Papa di origini bellunesi sapeva con prontezza afferrare le questioni, vedendone con sicurezza il fondo, e sciogliere il nodo delle situazioni e dei problemi difficili nella Chiesa.

Nel corso del pur breve pontificato si sono così manifestate le priorità di un Pontefice che ha fatto progredire la Chiesa lungo la dorsale di quelle che sono le strade maestre indicate dal Concilio: la risalita alle fonti del Vangelo e una rinnovata missionarietà, la collegialità, il servizio nella povertà ecclesiale, il dialogo con la contemporaneità, la ricerca dell’unità con i fratelli ortodossi, il dialogo interreligioso, la ricerca della pace. In ognuna di queste priorità lo abbiamo visto esprimersi, nei gesti e nelle parole dei trentatré giorni di pontificato. Come frutto di un lavoro da tempo cominciato, attraverso un magistero inauditamente suadente e attrattivo, piantato nella radicale scelta teologica di un linguaggio semplice, conversevole e accessibile, di quel sermo humilis canonizzato da sant’Agostino, che è comprensivo del mondo e degli uomini ed è con essi dialogante e comprensibile, affinché il messaggio della salvezza possa giungere a tutti. Ed è proprio sull’espressione di queste priorità il filo diretto con il presente.

La stringente e provocante attualità di Luciani. Non occorre perciò chiedersi quale sarebbe stata la strada che con lui avrebbe percorso la Chiesa. L’immagine che della Chiesa nutriva Giovanni Paolo I è quella del discorso delle Beatitudini, dei poveri di spirito, più vicina al dolore delle genti e alla loro sete di carità, che non si nasconde né si confonde con la logica degli scribi e dei farisei, né con quella dei manipolatori ideologici o degli spiriti mondani mischiati nella trama dei partiti. È quella che affonda le radici nel mai dimenticato tesoro di una Chiesa antichissima, senza trionfi mondani, che vive della luce riflessa di Cristo, vicina all’insegnamento dei grandi Padri, e alla quale era risalito il Concilio. È qui che va riconsiderato lo spessore della sua opera. È qui che va ripresa la valenza storica del suo pontificato. Quella che è stata ignorata, sminuita e persino ridicolizzata, perché sfuggente ai riscontri in chiave ideologica di quanti allora, come oggi, non solo nella stampa, confrontano i gesti e le parole con la tabella dei valori stabiliti o dai progressisti o dai conservatori, per decidere come incasellare la figura, come darle una connotazione ideologica, perché appunto è reale, e invece conta solo ciò che diventa ideologico, solo ciò che può ridursi alle alternanze del gioco politico destra-sinistra, progresso-reazione, tradizione-rivoluzione. Non la sua morte repentina, ma la fumettistica sulla sua morte ha liquidato Luciani dalla dignità storica. Una dignità storica che è ancora tutta da riconsegnare, riscoprire e studiare. Per ricomprendere anche il presente.

«Tutti noi, specialmente noi di Chiesa, dobbiamo chiederci: Abbiamo veramente compiuto il precetto di Gesù che ha detto: ‘Ama il prossimo tuo come te stesso?’». Si definì «povero Cristo» e arrivò a quell’inaudito «Dio è madre» per esprimere il viscerale amore di Dio. «Che io vi ami sempre più» sono state le sue ultime parole. Non è stato forse Luciani il Papa per eccellenza della misericordia? Quanto alla collegialità, che era stata materia argomentata del suo intervento scritto al Concilio, tornò insistentemente sulla fraternità episcopale.

All’udienza con i cardinali, il 30 agosto, in riferimento alla Lumen gentium 22 toccava uno dei punti chiave dell’ecclesiologia del Concilio. «I vescovi – disse a braccio – devono pensare anche alla Chiesa universale… dietro voi vedo i vostri vescovi, le Conferenze, che nel clima instaurato dal Concilio devono dare forte appoggio al Papa… Ecco, questo è vero, però oggi c’è un gran bisogno che il mondo ci veda uniti… Abbiate pietà del povero Papa nuovo, che veramente non aspettava di salire a questo posto. Cercate di aiutarlo e cerchiamo insieme di dare al mondo spettacolo di unità, anche sacrificando qualche cosa alle volte; ma noi avremmo tutto da perdere se il mondo non ci vede saldamente uniti».

Con la sua repentina morte si è interrotta questa storia della Chiesa, piegata a servire così il mondo? La sua elezione fu il segno di uno scandalo. Uno scandalo salutare, che doveva sollevare attorno al seggio di Pietro un’ondata antichissima di emozioni e di fede in tutto il mondo. Quella fu la prova che il sovrannaturale non abbandona la Chiesa lasciandone intravvedere il mistero della sua presenza storica.

Albino Luciani non è passato come una meteora, il suo passaggio ha lasciato un segno duraturo e bruciante con la sua sconvolgente pietà. Non explevit tempora multa. È rimasta nel tempo come la brace sotto la cenere, forte e indeclinabile testimonianza di ciò che è l’essenza, il fondamento autentico del vivere nella Chiesa e per la Chiesa. Non si è chiuso perciò con lui un capitolo della storia dei Papi, non si torna indietro, non si incomincia da capo. Ciò che la Chiesa sta rivivendo nel suo interno da Giovanni XXIII, dal Concilio Vaticano II, da Paolo VI, non è una parentesi.

Se il governo di Albino Luciani non poté dispiegarsi nella storia egli ha concorso più di ogni altro a rafforzare oggi e a testimoniare oggi il disegno di una Chiesa che con il Concilio è risalita alle sorgenti, più essenziale, più evangelica. Non parrà poco. Perché il segno di questa storia è quello della Grazia che entra nel mondo, e per vie misteriose lo compenetra per vincere, come l’alba la notte, le ipocrite finzioni, le inenarrabili alienazioni di questa nostra umanità lacerata. Fuori e dentro la Chiesa.

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38 anni fa moriva Paolo VI, grande timoniere del Concilio

Ricorre oggi il 38.mo anniversario della morte di Papa Paolo VI, avvenuta il 6 agosto 1978 a Castel Gandolfo, proprio nella Festa della Trasfigurazione.  Giovanni Battista Montini, nato a Concesio, in provincia di Brescia, il  26 settembre 1897, viene eletto al soglio pontificio il 21 giugno 1963. Guida la Chiesa con saggezza in un periodo di grandi cambiamenti, portando a compimento il Concilio Vaticano II aperto da San Giovanni XXIII. Avvia i grandi viaggi internazionali dei Papi e promuove con decisione l’impegno ecumenico della Chiesa. Venerabile dal 20 dicembre 2012, dopo che Benedetto XVI ne aveva riconosciuto le virtù eroiche, è stato beatificato il 19 ottobre 2014 da Papa Francesco.

Nell’omelia per la Beatificazione, Francesco ha ricordato la sua “profetica testimonianza di amore a Cristo e alla sua Chiesa”, definendolo “grande timoniere del Concilio”, “coraggioso cristiano” e “instancabile apostolo”. Ha sottolineato come Paolo VI scrutasse “attentamente i segni dei tempi” cercando «di adattare le vie ed i metodi … alle accresciute necessità dei nostri giorni ed alle mutate condizioni della società» (Lett. ap. Motu proprio di Paolo VI Apostolica sollicitudo).

“Mentre si profilava una società secolarizzata e ostile” – aveva aggiunto Francesco – Paolo VI  “ha saputo condurre con saggezza lungimirante – e talvolta in solitudine – il timone della barca di Pietro senza perdere mai la gioia e la fiducia nel Signore. Paolo VI ha saputo davvero dare a Dio quello che è di Dio dedicando tutta la propria vita all’«impegno sacro, solenne e gravissimo: di continuare nel tempo e sulla terra la missione di Cristo» (Omelia nel Rito di Incoronazione: Insegnamenti I, 1963, p. 26),  amando la Chiesa e guidando la Chiesa perché fosse «nello stesso tempo madre amorevole di tutti gli uomini e dispensatrice di salvezza» (Lett. enc. Ecclesiam Suam, Prologo)”.

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Concilio Pan-ortodosso: Bartolomeo ringrazia Papa Francesco

Con un “cordiale grazie” a Papa Francesco che ieri all’Angelus ha ricordato e pregato con i fedeli presenti in piazza San Pietro per il “santo e grande Concilio della Chiesa ortodossa”, il Patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo, ha aperto questa mattina a Chania, nell’isola di Grecia, i lavori conciliari che entreranno nel vivo oggi, dopo la celebrazione ieri della Divina Liturgia nella festa ortodossa di Pentecoste. Prima di leggere la prolusione – riporta l’agenzia Sir – il Patriarca Bartolomeo ha ricordato quanti stanno supportando il Concilio e tra loro ha citato Papa Francesco.

Le Chiese assenti hanno ribadito le ragioni della mancata partecipazione
Nel prendere la parola, Bartolomeo ha ricordato ai presenti che “il mondo ci sta guardando” e questo – ha aggiunto – ci chiede “una responsabilità più grande”. Prima poi di dare lettura alla prolusione, Bartolomeo ha fatto riferimento alle assenza delle Chiese di Mosca, Bulgaria, Georgia e Antiochia. E ha dato lettura dei messaggi ricevuti dal Patriarca Giovanni X di Antiochia e dal Patriarca Kirill di Mosca in cui sono ribadite le ragioni della mancata partecipazione.

Ieri la solenne celebrazione della Pentecoste
I primati delle Chiese ortodosse hanno concelebrato ieri la grande Festa della Pentecoste nella Chiesa di Saint Menas in Heraklion, con una liturgia di 4 ore. A presiedere la liturgia, il Patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo, circondato dai Patriarchi Teodoro di Alessandria, Theophilos di Gerusalemme, Irinej di Serbia, Daniel di Romania; gli arcivescovi Chrysostomos di Cipro e Ieronymos di Atene e di tutta la Grecia, il metropolita Sawa di Varsavia e di tutta la Polonia e gli arcivescovi Anastasios di Albania e Rastislav di Cechia e Slovacchia. Alla liturgia erano presenti anche il Presidente della Repubblica di Grecia, Prokopis Pavlopoulos, membri del governo e autorità politiche locali.

Appello all’unità di Bartolomeo I
Rivolgendosi ai primati e a una folla di vescovi, clero e laici sia all’interno che all’esterno della Chiesa, il Patriarca ecumenico ha parlato dell’unità e della cattolicità della Chiesa. “Oggi è anche un giorno in cui gridiamo al Paraclito e lo imploriamo di venire e rimanere tra noi, di custodirci nella sua verità e santità, secondo la preghiera dolorosa del Signore nel giardino del Getsemani”. La preghiera di Gesù per l’unità è “la domanda primordiale dell’umanità in un mondo diviso”.

La via dell’unità esige sacrificio e molto lavoro
“Indipendentemente dalle nostre differenze – ha detto Bartolomeo – noi ortodossi dobbiamo sottolineare che l’unica via da intraprendere nel mondo è l’unità. Certamente, questa via esige un sacrificio vivente, molto lavoro e richiede dura lotta per non allontanarsi. È certo che questo Concilio contribuirà in questa direzione, stabilendo – attraverso la consultazione nello Spirito Santo, e il dialogo franco e costruttivo – un clima di fiducia e di comprensione reciproca”. “La nostra missione è l’unità della Chiesa ortodossa e dei suoi fedeli”, ha quindi ribadito il Patriarca.

Il mondo ha sete di un messaggio di verità, purezza e speranza
“Mettendo da parte i problemi causati dalla nostra diversa provenienza etnica, imploriamo il Paraclito perché scenda su tutti noi, così che illuminati da Colui che è luce e vita e fonte spirituale di saggezza, possiamo rivolgerci al mondo che ha sete di un messaggio di verità, purezza e speranza”. (R.P.)

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