Papa: adoriamo Dio non “io”, male chi diffonde false notizie

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– CITTÀ DEL VATICANO, 06 GEN – “Come i Magi, prostriamoci, arrendiamoci a Dio nello stupore dell’adorazione.

Adoriamo Dio e non il nostro io; adoriamo Dio e non i falsi idoli che ci seducono col fascino del prestigio e del potere, con il fascino delle false notizie.

Adoriamo Dio per non inchinarci davanti alle cose che passano e alle logiche seducenti ma vuote del male”. Lo ha detto il Papa nell’omelia della messa per l’Epifania.
Papa Francesco ha chiesto anche di fare spazio nella vita a Dio che è l’amore vero “che non passa, che non tramonta, che non si spezza neanche dinanzi alle fragilità, ai fallimenti e ai tradimenti”. “Il cammino della fede inizia” quando “smettiamo di conservarci in uno spazio neutrale e decidiamo di abitare gli spazi scomodi della vita” fatti anche “di sofferenze che scavano nella carne”. “In questi momenti si levano dal nostro cuore quelle domande insopprimibili, che ci aprono alla ricerca di Dio” e tra queste: “Dov’è quell’amore che non passa, che non tramonta, che non si spezza neanche dinanzi alle fragilità, ai fallimenti e ai tradimenti?”. (ANSA).

Il dibattito. Comunicare il Vangelo e la Chiesa in Rete: perché è così difficile?

Su Internet bisogna per forza fare i conti con la cultura “orizzontale” che caratterizza oggi tutte le dinamiche sociali e relazionali. Conoscerne le caratteristiche può essere un valido aiuto
Comunicare il Vangelo e la Chiesa in Rete: perché è così difficile?
Avvenire

Chi vuole fare in rete una comunicazione “di contenuti” e non soltanto “di intrattenimento”, si trova a navigare in un mare burrascoso tra Scilla e Cariddi: nel sovraccarico informativo della rete si rischia di essere sommersi, di non riuscire ad ottenere visibilità, ma se si cerca la visibilità con le tecniche e il linguaggio propri della rete, si rischia di rendere la comunicazione poco significativa, omologata alla cultura della rete. Questi temi sono stati tra gli oggetti di una riflessione attenta da parte dell’Ufficio comunicazioni sociali della Conferenza episcopale italiana, della Fisc e di WeCa, del Servizio informatico della Cei e di tanti Uffici diocesani, che si sono incontrati in due diverse iniziative di convegno a ottobre e a novembre.

Se l’analisi della situazione è chiara e condivisa, occorre adesso tentare di avviare qualche sperimentazione concreta, che possa diventare indicazione praticabile da tutti. Le modalità di funzionamento della Rete favoriscono una cultura “orizzontale”, in cui ogni opinione ha diritto di cittadinanza con un pari valore di autorevolezza e di verità.

È un effetto del venire meno dei riferimenti oggettivi, dell’affievolirsi del pensiero critico e del discernimento culturale, ma è anche il risultato di caratteristiche specifiche della Rete: l’intercambiabilità di ruoli tra chi produce contenuti e chi li riceve, la progressiva disintermediazione del sapere per cui non ci sono più figure riconosciute con il ruolo di trasmissione delle conoscenze, che viene invece demandato alla rete, ai motori di ricerca, ai social.

La “cultura orizzontale”, tipica del nostro tempo, privilegia l’azione rispetto al pensiero, la decisione basata su reazioni immediate, sul pensiero “veloce”, emotivo, rispetto a quella frutto di riflessione e di razionalità, di pensiero “lento”.

Apparentemente la cultura orizzontale sembra favorire la partecipazione e la condivisione, ma tende piuttosto all’appiattimento, all’omologazione, all’espulsione delle opinioni che si discostano dal pensiero prevalente, indipendentemente dal valore oggettivo che possono avere.

E la Rete, che facilita l’accesso veloce a una grande quantità di informazioni, induce a un certo impoverimento della capacità di cogliere i significati e i collegamenti di senso, con la progressiva incapacità a comprendere e gestire la complessità dei concetti e degli avvenimenti.

La “cultura orizzontale” rischia sempre più diffusamente di trasformarsi in “cultura dell’ignoranza”, caratterizzata dal “sapere tutto e non capire niente”, dal rifiutare ogni parere autorevole per affermare solo le proprie opinioni, confrontandosi con gli altri solo per riceverne conferma. La Rete, ambiente di vita e non più soltanto strumento di comunicazione, diventa costantemente “mediatore culturale”, si interpone tra noi e il nostro stesso pensiero, cambiando le nostre capacità cognitive e le nostre attitudini di apprendimento.

Se a ciò si aggiunge che la Rete è stata anche, in questi ultimi due anni soprattutto, mediatrice di relazioni tra le persone, possiamo intuire quanto l’ambiente di rete sia oggi un potente “filtro” che influenza in profondità la nostra vita. Se nell’era della comunicazione tradizionale, definita da “il mezzo è il messaggio”, bastava apprenderne le tecniche e i linguaggi, nella Rete che “deforma il messaggio” e “inventa l’ambiente” di comunicazione, occorre la capacità di comprendere il contesto e decodificare i messaggi.

Chiesa viva e Chiesa estraniante

Chiesa viva e Chiesa estraniante: Enrico Peyretti sul settimanale diocesano di Torino

Adista
«La Chiesa sa di vecchio, per i giovani, sa di museo». La considerazione è di Enrico Peyretti e compare in un articolo pubblicato sull’edizione stampata del settimanale diocesano di Torino La Voce e il Tempo (4/12/22) con il titolo “Germogli, giovani e Chiesa”. Sono riflessioni critiche– pur nella pacatezza dell’esposizione – della Chiesa istituzione che difficilmente trovano spazio sulla stampa diocesana, sotto stretto controllo episcopale.

«Grandi ricchezze e grandi povertà spaccano la società. Le città sono come formazioni cancerogene nella natura. I giovani portano il peso maggiore di questa situazione», osserva Peyretti. «Le generazioni precedenti crescevano sui libri e sull’esperienza trasmessa, i giovani crescono sugli schermi, irreali. Il villaggio che è necessario per educare un bambino, è imbarbarito. I vicini (genitori, adulti) sono lontani, e tutto ciò che è lontano (social, immagini) è vicino, addosso, senza dimensione temporale. La sua reperibilità continua è irreale. Il compito delle religioni è indicare e ricondurre alle fonti della realtà, alla vita come tempo e cammino e orizzonte».

«Nella chiesa cattolica torinese – seguita l’Autore, venendo alla diocesi della città dove abita – il nuovo vescovo Repole chiede se si vedono germogli nuovi per la chiesa di domani. Su questo ci si interroga nelle realtà ecclesiali locali». «La chiesa è viva in comunità territoriali, nel contatto con altre realtà sociali», è la risposta di Peyretti, come anche «in associazioni e movimenti di scopo, trans-territoriali; la Chiesa vive non solo a opera del clero, ma grazie a sempre più importanti ministeri laicali, grazie alla presenza attiva delle donne, non riconosciute in piena parità, ed è grave inspiegabile danno alla credibilità della Chiesa; è importante l’ecumenismo non diplomatico ma reale, come la più che decennale esperienza torinese della reciproca ospitalità eucaristica tra cattolici e protestanti; molto importante è rinnovare il linguaggio, le modalità di comunicazione, le immagini che la Chiesa dà di sé».

Se «la Chiesa sa di vecchio, per i giovani», nondimeno essi «vedono che su pace e guerra essa parla, anzitutto con papa Francesco, in modo molto più vero e chiaro della politica, di tutta la politica. Così sui gravi problemi dell’ambiente, della giustizia sociale, della selezione mondiale tra ultra-garantiti e sradicati…».

E tuttavia «partecipare alla Chiesa è un’altra cosa. A partire dagli edifici, per lo più monumenti del passato, agli abiti liturgici, strani e teatrali (la mitria vescovile di origine faraonica): sono scene estranianti. Dov’è davvero la chiesa, dove la si trova? Tertulliano (155-230), scrittore cristiano molto severo, ricordava lo stupore dei pagani quando incontravano una comunità cristiana: «Vedete come si vogliono bene?» (Apologetico, 39,7). Non è forse proprio questo il maggiore criterio evangelico per una pur piccola Chiesa? Quanto spesso si verifica? Senza però farsi setta chiusa, ma sempre accogliente, non discriminante».

I giovani non avvicinano più la Chiesa per trasmissione familiare, «le vere scelte interiori avvengono per esperienza personale, non determinate dall’ambiente, sia pure affettivo. (…) È positivo che la fede non sia un’influenza sociologica, ma una vicenda personale autentica. Il fatto conta molto più dei numeri. La Chiesa è minoranza sociale, anche piccola: non coincide più con la “società cristiana”, come si illudeva ieri, a prezzo di conformismi insinceri, una chiesa numerosa, ma non tutta vera. I nuovi “segni dei tempi” spazzano via certe apparenze, e questo è bene, anche se fa soffrire chi si appoggia a forme tramontate, come le belle pietre del tempio, che Gesù vede già rotolate a terra. Il “segno dei tempi” è Cristo Gesù, sempre nuovo e veniente, con la sua parola, con l’offerta totale di sé per ispirare vita buona e vera, che non muore». In questa situazione, aggiunge Peyretti, «la Chiesa – lo ricorda sempre papa Francesco – non ha da fare “proselitismo”, non ha da agitarsi per reclutare, non ha da temere la povertà di presenze. Ha solo da essere viva, da respirare vangelo, che potrà comunicarsi ad altri, per grazia, come la Chiesa l’ha ricevuto».

«Se un ragazzo mi dice», esemplifica infine Peyretti, «“Io non credo in Dio”, posso chiedergli: quale dio? quello lontano, extraterrestre, sorvegliante, legislatore e giudice severo, amministrato da una potenza religiosa? Oppure puoi pensare che quel dio astratto sia un nome improprio ed equivoco del Bene vivente, dell’Amore, del Respiro di cui sentiamo il bisogno, della Bontà ispirata in noi che ci anima alla giustizia, alla dedizione? Puoi pensare che sia il nome popolare della Speranza portata da Cristo che la forza bruta e la morte non regnino sulla vita e sulla giustizia? Se possiamo dire questo a un ragazzo, in modo credibile, abbiamo fatto quanto dovevamo come Chiesa, mi pare».