Cantare la parola

Con La Libertà di questa settimana esce l’inserto “Per te canterò” volume 3, la rivista per gli animatori musicali della liturgia a cura dell’Ufficio Liturgico Diocesano.

“Per te canterò” è in edizione cartacea e in edizione pdf in allegato a La Libertà n.20 del 25 maggio 2022.

laliberta.info

Il canto nella bellezza della liturgia

di: Renato Borrelli

liturgia

Il canto liturgico è parte integrante della liturgia solenne (SC 112) perché favorisce la partecipazione di tutta l’assemblea dei fedeli. Difatti, «non c’è niente di più solenne e festoso nelle sacre celebrazioni di un’assemblea che, tutta, esprime con il canto la sua pietà e la sua fede… L’azione liturgica riveste una forma più nobile quando i divini uffici sono celebrati solennemente con il canto, con i sacri ministri e la partecipazione attiva del popolo» (SC 13).

Il canto, adeguato alla nobiltà della liturgia, fa parte dell’ars celebrandi a servizio della bellezza; non va considerato come un’aggiunta ornamentale in vista di una maggiore solennità, ma appartiene alla forma simbolico-rituale propria della celebrazione eucaristica, in cui il Risorto si fa presente nella sequenza del rito che dispiega, nel tempo e nello spazio, ciò che, avvenuto nel Cenacolo e sul Calvario, si fa Evento che, nella fede, i cuori amanti e oranti possono intuire e sperimentare nello Spirito, attraverso i segni.

L’arte del celebrare si apprende “in ginocchio”, frutto e riflesso di una intensa vita spirituale, di un rapporto intimo col Signore, di comprensione teologica e orante di ciò che si sta compiendo nella celebrazione col popolo. Lo stile di celebrare, «sebbene bisognoso – come tutte le arti – anche di formazione tecnica, affonda le sue radici nel cuore amante di coloro che con l’ordinazione, l’istituzione o di fatto sono stati chiamati a manifestare e a comunicare il mistero di Dio e il dono della sua salvezza» (Silvano Sirboni, RPL 4/2020).

Il popolo di Dio accorreva alle messe celebrate dai santi attratta più dallo stile di vita e dalla fede ben riflessi nel modo di celebrare, che da regie liturgiche molto elaborate.

Ciò comunque non significa che si debba prescindere dall’esigenza di curare la bellezza, che è frutto di quella «nobile semplicità» che deve coinvolgere anche il canto, grazie al quale la celebrazione «acquista un’espressione più gioiosa, gli animi si innalzano più facilmente alle cose celesti» (Musicam sacram, 16).

«La ricerca della sobrietà, contro la artificiosità di aggiunte inopportune si unisce ad un fondamentale rispetto per il linguaggio singolare della liturgia, che non confonde la semplicità con la sciatteria e che non rinuncia alla ricerca di un linguaggio degno della grandezza del Signore, attento alla qualità “poetica” di un linguaggio, che proprio come la poesia, si presenta come una “differenza che attrae”» (CEI, Un messale per le nostre assemblee, pag 34).

Criteri per discernere un canto liturgico

Il canto, che esprima la lode perenne, dev’essere dotato di autentiche qualità artistiche, di bellezza nella forma, ma anche di verità espressiva e autenticità di coinvolgimento.

Non sarebbe né autentico né vero liturgicamente se fosse contaminato da motivazioni ambigue e fuorvianti, come certe pretese, per celebrazioni particolari, di repertori suggeriti dal cattivo gusto; o avesse connotazioni che vanno dal festaiolo leggero al solenne lordo e pesante. Tutto ciò crea interferenza, disturba, confonde, dissocia, devia l’attenzione dai messaggi fondamentali e dagli atteggiamenti primari e diventa retorica pesante, ridondanza ingombrante, cicaleccio intemperante.

Tutte queste precisazioni non intendono certo suggerire una liturgia compassata, seriosa, guidata da un criterio perfezionista. Karl Barth diceva: «Forse gli angeli, quando sono intenti a rendere lode a Dio, suonano la musica di Bach; sono certo, invece che, quando si trovano fra loro, suonano Mozart e allora anche il Signore trova particolare diletto ad ascoltarli».

L’atmosfera della celebrazione deve essere dunque di gioiosa festività, evitando due estremi: una celebrazione vissuta all’insegna di una perenne allegria a fronte di tanti drammi, oppure seriosa e ingessata e quindi opprimente.

Al riguardo, François Varillon diceva senza mezzi termini: «L’eucaristia deve essere una festa, ma non sarà mai un musical» (Gioia di credere e gioia di vivere, p. 287)

Il clima di festa sarà frutto di uno svolgimento sereno e di interventi canori del celebrante in dialogo cantato con l’assemblea e canti propri dell’assemblea. Partiamo da questa.

Interventi canori dell’assemblea

Già il canto all’ingresso segna l’inizio della celebrazione, e per l’assemblea serve da “camera di decompressione” perché gli animi siano introdotti nella celebrazione che prevede il canto del Kyrie e del Gloria che non siano riservati al solo coro. È opportuno cantare almeno il ritornello del salmo responsoriale, l’acclamazione al vangelo sia prima che dopo. È importante il dialogo con il celebrante al prefazio.

Il Santo, non essendo classificato tra i canti, ma tra le acclamazioni, deve essere eseguito da tutti. Il Messale offre la possibilità di interventi all’anamnesi, all’acclamazione dopo la dossologia, al Padre nostro, dopo l’embolismo.

L’Agnello di Dio dev’essere cantato interamente dall’assemblea, così pure il canto che accompagna la processione per la comunione eucaristica. Non è previsto un canto allo scambio della pace.

La celebrazione liturgica è armonica quando al canto del celebrante risponde l’assemblea con interventi brevi previsti dal rito e tali da coinvolgere tutti nell’azione liturgica e per tutta la sequenza del rito.

Le parti destinate al canto del presidente iniziano con il segno di croce e il saluto iniziale e il canto della colletta, proseguono col il dialogo prima e dopo la proclamazione del vangelo, il dialogo e il canto al prefazio, il canto dell’anamnesi – anche se non si è cantato al racconto della Cena –, come pure quello della dossologia al termine dell’anafora, l’invito alla preghiera del Signore, la preghiera del Signore, l’embolismo e la successiva preghiera per l’unità e la pace (quest’ultimo intervento cantato è una novità introdotta nella nuova edizione del Messale).

Anche i riti di conclusione prevedono il canto di tutte le parti. Per favorire e facilitare il canto del celebrante, sono state inserite nelle pagine dell’ordinario le parti in canto (nell’edizione precedente erano relegate in appendice), con una particolare attenzione ad alcuni tempi e solennità.

Questa corrispondenza speculare tra il celebrante principale e l’assemblea che celebra fa sì che il Messale non sia del solo prete, ma di tutta l’assemblea.

È chiaro però che non si può infarcire la celebrazione con tutti gli interventi suindicati riguardanti sia il celebrante che l’assemblea: tutto sta nel saper dosare, scegliendo in maniera oculata gli elementi da mettere in evidenza di volta in volta, tenendo presente il grado di solennità, il criterio dell’alternanza e del giusto equilibrio fra le varie parti della celebrazione.

Nel caso si voglia solennizzare utilizzando molte parti cantate, è importante però che quelle del popolo siano musicalmente brevi, incisive e non tortuose, in modo che non distraggano dal clima orante, finendo con l’appesantire la celebrazione per saturazione.

Ciò che è scritto nel messale allora prende forma, diventa vita, partecipazione attiva sentita, carica anche di pathos dell’assemblea, che non è più uditrice passiva di parole, a volte in eccesso.

Tutti i linguaggi e i sensi per coglierli sono interessati e coinvolti: parole, canti, gesti, colori, luci, odori, sapori, movimenti. Anche il linguaggio del silenzio, che facilita l’interiorità e accompagna l’offerta (il sacrificio) della vita ordinaria espressa in vari momenti del rito e significata dal rito delle gocce d’acqua versate nel calice.

Gli interventi e il dialogo canoro, se condotti con la semplicità e la naturalezza che sanno evitare toni stentorei, surreali ed enfatici, non metteranno tra parentesi, in quell’oasi temporale che è la messa, la cruda realtà di chi soffre, muore di fame, non sa dove sbattere la testa, vive ore di angoscia. Si sta celebrando il mistero pasquale che è risurrezione, ma attraverso la passione e la morte.

La liturgia poi diventa «trasgressiva» (A. Grillo) nella misura in cui perde di vista la concretezza dell’evento che celebriamo nel mistero: Cristo capofila degli emarginati, il servo sofferente. E aiuta a trarre le conseguenze per la vita personale e sociale.

Per una riuscita fusione tra canto e liturgia

Il repertorio dei canti sia prima di tutto appropriato al momento liturgico che si sta vivendo: si eviti perciò la genericità e la banalità. Ogni celebrazione (battesimo, confermazione, matrimonio, funerali…) richiedono canti che le si addicono.

Fonti sicure a cui attingere sono il Repertorio nazionale e La famiglia cristiana nella Casa del Padre: entrambi forniscono l’indice dei canti tenendo presente lo svolgimento del rito della messa, i vari tempi liturgici e gli altri sacramenti. Questi sussidi sono dei punti fermi in cui si potranno scoprire di anno in anno nuovi canti, senza dover necessariamente ricorrere a quanto viene sfornato di continuo, spesso all’insegna dell’effimero, senza una dignità letteraria e una nobiltà musicale.

Tuttavia, su fascicoli e riviste musicali si possono trovare canti pregevoli dal punto di vista musicale e linguistico.

Per la scelta di canti appropriati Amelio Cimini giustamente fa notare che «un canto va calato realisticamente nel momento rituale; oltre che avere una corrispondenza interna ad esso, deve anche permettere di partecipare alla coralità dell’azione liturgica. È semplicemente assurdo, ad esempio, considerare intercambiabili un canto d’ingresso e un salmo responsoriale, come non è logico utilizzare durante la processione di comunione un canto che richiede particolare attenzione per contenuto ed esecuzione tecnica.

La veloce usura di certi canti deriva proprio dal loro impiego ossessivo e indiscriminato (vedi i cosiddetti canti per tutte le stagioni come lo sono stati Al tuo santo altar, Resta con noi, Esci dalla tua terra, Symbolum ’77 ecc., canti benemeriti, ma eseguiti con disinvoltura a Natale, Pasqua, funerali, matrimoni, cresime e prime comunioni). I tempi forti e le grandi solennità dovrebbero avere i loro canti caratteristici, non intercambiabili con quelli di altri tempi o feste».

Ci sono infatti i “canti segnale” per i tempi forti che devono essere necessariamente presenti durante la celebrazione perché le danno una coloritura particolare in sintonia col tempo liturgico, liberi ovviamente di introdurne altri, evitando però di celebrare per esempio le messa del tempo natalizio prescindendo dai canti che il popolo conosce e ama cantare.

Nella scelta del repertorio spesso si punta sull’effetto, affidando il tutto a un gruppo particolare, trascurando però l’assemblea e lasciando sguarniti, da un punto di vista liturgico-canoro, alcuni snodi fondamentali del rito, con una conseguente estrema povertà liturgica pur in tanto fasto canoro.

I canti saranno scelti tenendo presenti le possibilità dall’assemblea, il contenuto con riferimenti biblici e in linea con la grammatica e la sintassi. Siano tali da rasserenare gli animi, favorendo la calma e la preghiera interiore che scaturisce dal rito stesso, e senza che l’assemblea venga ferita con lagne o al contrario con toni troppo esaltati per essere veri. In medio stat virtus.

Più che essere preoccupati di cambiare continuamente, è consigliabile «un’acquisizione di materiali agili, come dialoghi-risposte, acclamazioni, ritornelli di benedizione o di supplica, litanie. Una regia che sa organizzare con proprietà simili elementi, solo in apparenza poveri, ottiene a volte vantaggi non inferiori a quelli legati all’impiego di materiali laboriosi in fase sia di apprendimento che di esecuzione… Una messa parrocchiale di una comunità volenterosa e fedele ai valori profondi, benché povera di possibilità musicali, può essere più solenne di celebrazioni spettacolari, fascinose, ricche di apparati tali da attirare l’attenzione della cronaca e i consensi della critica» (F. Rainoldi). La nuova edizione del Messale favorisce questo criterio.

Nelle celebrazioni con prevalenza di fanciulli si utilizzeranno canti adatti per loro e all’estensione vocale dell’età. Non mancano al riguardo delle belle composizioni.

Tuttavia, volendo al riguardo allargare il discorso, credo opportuno riportare le severe osservazioni di Giuliano Zanchi: «La questione dei bambini nella liturgia per esempio è sotto questo profilo emblematica. Ha persistito la convinzione che iniziare i bambini alla liturgia significasse buttarli nel cuore dell’azione, a leggere, a cantare, a fare musica, a diventare protagonisti di gesti escogitati ad hoc, producendo pazientemente le condizioni per una infantilizzazione della liturgia di cui non si è capaci di mettere in conto il serio effetto deteriore sull’insieme della vita comunitaria.

Il furore dadaista prodotto dall’effetto combinato di questi equivoci ha soffiato su ogni tipo di strategia additiva, di innesto emotivo, di supplemento didattico, di integrazione ludica, finiti a comporre quel senso comune della cura liturgica che ha gaiamente perseguito la strada di espedienti al ribasso, più vicini alla logica dell’intrattenimento che ai processi della mistagogia» (Rimessi in viaggio, p. 56).

La corretta esecuzione dei canti

A questo punto è chiamata in causa la competenza musicale degli animatori del canto liturgico i quali, invece di affidarsi acriticamente alle esecuzioni offerte dai media o alle deformazioni ormai consolidatesi, dovrebbero essere capaci di una corretta interpretazione della partitura, rispettando il solfeggio e tenendo presente la regola d’oro: cantare come si parla. Si elimineranno così progressivamente pronunce e accentuazioni sbagliate di stampo provinciale, liberando la modalità del canto liturgico dal forte condizionamento da parte dei cantautori e dei doppiaggi di certe fiction.

Va corretta pure la tendenza alla lentezza e al portamento arbitrario tra una nota e l’altra: deformazioni che creano il patois tipico di un certo modo di cantare in chiesa che facilmente si presta al birignao da parte del comico di turno che ben sa imitare tutte le deformazioni, a partire dall’alleluia pasquale gregoriano, nobile ed agile fluire di crome secondo arsi e tesi, diventato un monstrum musicale di semiminime, con un assurdo e accentuato rallentando in un’acclamazione di sole tre battute.

La cura dell’agilità e dell’eleganza nel ritmo e nel fraseggio, l’adesione delle parole alla musica e viceversa, senza sdolcinature o forzature, il giusto rilievo dato ad ogni accento nell’ambito della stessa battuta, il leggero crescendo o diminuendo sia nel tono che nel fraseggio, una corretta articolazione orale nell’emissione dei suoni, una corretta respirazione che segua il senso compiuto di una frase, sono tutti elementi che danno le ali al canto che, espresso con decoro, diventa una vera lode che fa trasparire lo splendore e la misteriosa bellezza della liturgia.

settimananews

Voci dal coro (1) / Gregoriano, l’illustre scomparso

L’illustre scomparso «La Chiesa riconosce il canto gregoriano come proprio della liturgia romana: perciò, nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale». Sono parole della Sacrosanctum Concilium, la prima delle costituzioni del Vaticano II, dedicata alla liturgia. Difficile affermare che sia stata presa alla lettera. Sul gregoriano, come sulla riforma della liturgia, sono esplose ed esplodono polemiche tra fazioni – ipertradizionalisti e rottamatori – che non aiutano a capire e uscire dall’impasse. «Una delle accuse che si fa al gregoriano è che impedisce alla gente di cantare – dice Giacomo Baroffio, tra i massimi esperti in Italia –. Ma anche in molte chiese dove si canta in italiano l’assemblea partecipa poco, con il ‘coretto’ che fa tutto da sé…

Sul gregoriano c’è un grande equivoco: la sua crisi non è musicale ma culturale. Il problema è accogliere la parola di Dio secondo una formula collaudata dalla tradizione. Il gregoriano non è musica, è preghiera». È difficile tracciare una geografia della pratica del gregoriano oggi. Non mancano in Italia le scholae, molte delle quali ‘autonome’, composte da appassionati che studiano e poi prestano servizio liturgico, mentre altre sono legate più strettamente a un contesto ecclesiale. Oltre a Baroffio, nomi come Alberto Turco e Fulvio Rampi hanno rilievo internazionale. Eppure è impossibile mappare la sua presenza nella liturgia. E non solo nelle parrocchie. «In molte comunità religiose – prosegue Baroffio – oggi il gregoriano non è praticato né conosciuto.

Rispetto ad alcuni anni fa è aumentata la disponibilità, specie tra le suore, che spesso cantano molto bene: ma sono abituate a farlo in italiano ». Per non parlare dei seminari: «Se i giovani sacerdoti non lo conoscono, non possono apprezzarlo e nella pastorale daranno priorità a mezzi ideali sotto il profilo emozionale e aggregativo, ma che non riescono a sedimentare. Il gregoria- no è, per così dire, un investimento spirituale a lungo termine. È paradossale come l’opposizione maggiore arrivi dal clero. Ci sono parroci per i quali la musica in chiesa pare tabù. Se fosse visto per quello che è, ossia uno strumento per meditare, il gregoriano non sarebbe contestabile».

Certo, serve formazione: «Sembra una battuta, ma nelle parrocchie si spende di più per i fiori che per la musica ». E si arriva così all’esito paradossale di un gregoriano che, ciclicamente, diventa caso discografico: «Spesso sono operazioni commerciali che operano un nuovo tradimento. Il gregoriano viene proposto come musica esotica o terapeutica, infatti è così sfaccettato da poter rispondere alle esigenze più diverse. Ma il rischio è di interpretarlo come suono magico, ermetico». Un equivoco che sembra investire anche molti tradizionalisti.

Ci sono altri equivoci da sfatare. A partire proprio da cosa intendiamo per ‘gregoriano’. «Dobbiamo distinguere tra il gregoriano dei musicologi e quello della tradizione ecclesiale, che potremmo invece definire più propriamente monodia liturgica in lingua latina», spiega Daniele Sabaino, docente di Storia della musica dei riti cristiani all’università di Pavia. «Per i primi è il patrimonio musicale costituito dal fondo antico e soprattutto dai propria della messa, ossia i canti modellati sui testi specifici per ogni celebrazione.

Quel poco che è rimasto nell’uso è invece l’ordinarium, ossia i brani fissi della messa, dal Kyrie all’Agnus Dei ». Il Graduale Romanum, il volume che raccoglie il repertorio ufficiale, conta 18 diverse intonazioni: un ciclo modellato sull’anno liturgico. «Ma quella più diffusa è la Missa de Angelis, che però è una composizione molto tarda, come anche antifone mariane come il Regina coeli o la Salve Regina ». A fare il calcolo, nel canto popolare sono rimasti una manciata di brani. «E per fortuna. Si tratta di un paio di messe, le più facili, e una dozzina di canti. Non è un caso che corrispondano al contenuto di un librettino pubblicato da Paolo VI nel 1975: Jubilate Deo ».

Il cui sottotitolo è rivelatore: «Canti gregoriani più facili, che i fedeli dovrebbero conoscere secondo l’intenzione della costituzione del Concilio Vaticano II sulla sacra liturgia»… Nella pratica il fondo antico è scomparso. «Nel momento in cui l’interesse è focalizzato sull’assemblea, quel tipo di repertorio non funziona più, perché al di sopra delle possibilità non solo di quella ma anche di molti cori». Eppure sarebbe ingenuo pensare che prima per il gregoriano fosse l’età dell’oro. In realtà è solo da metà Ottocento che, con l’iniziativa dei benedettini di Solesmes, questa forma viene recuperata e penetra grazie al movimento liturgico. Ma senza diventare davvero patrimonio popolare.

C’è forse un vero e proprio mito del gregoriano con radici antiche. «Nel 1903 Pio X nel motu proprio Inter sollicitudines sostiene che bisogna riportare il gregoriano nell’uso del popolo. Ma in verità non c’era mai stato. Gli studi avviati negli anni Sessanta da dom Eugène Cardine, che hanno portato alla semiologia gregoriana, hanno dimostrato quale raffinatezza interpretativa si annidi nel fondo antico. Una difficoltà che poteva essere riservata solo alle comunità monastiche e che oggi può essere affrontata soltanto dagli specialisti. E questo pone un problema oggettivo per l’inserimento nella liturgia». Insomma, c’è spazio oggi per il gregoriano nella Messa? «Sì, come per tutti i repertori e tutti i generi. Bisogna piuttosto individuare quale momento, quale scopo». L’ultimo equivoco è il richiamo alla partecipazione attiva dei fedeli, spesso confusa con l’omologazione: «L’assemblea è uno dei soggetti, ma non l’unico: il coro è essenziale».

Avvenire

Con il canto voi pregate e fate pregare

Discorso del Papa ai partecipanti all’incontro promosso dall’Associazione Italiana Santa Cecilia

CITTA’ DEL VATICANO, sabato, 10 novembre 2012 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito il discorso rivolto oggi da papa Benedetto XVI ai partecipanti all’incontro promosso dall’Associazione Italiana Santa Cecilia.

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Cari fratelli e sorelle!

Con grande gioia vi accolgo, in occasione del pellegrinaggio organizzato dall’Associazione Italiana Santa Cecilia, alla quale va anzitutto il mio plauso, con il saluto cordiale al Presidente, che ringrazio per le cortesi parole, e a tutti i collaboratori. Con affetto saluto voi, appartenenti a numerose Scholae Cantorum di ogni parte d’Italia! Sono molto lieto di incontrarvi, e anche di sapere – come è stato ricordato – che domani parteciperete nella Basilica di San Pietro alla celebrazione eucaristica presieduta dal Cardinale Arciprete Angelo Comastri, offrendo naturalmente il servizio della lode con il canto.

Questo vostro convegno si colloca intenzionalmente nella ricorrenza del 50° anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II. E con piacere ho visto che l’Associazione Santa Cecilia ha inteso così riproporre alla vostra attenzione l’insegnamento della Costituzione conciliare sulla liturgia, in particolare là dove – nel sesto capitolo – tratta della musica sacra. In tale ricorrenza, come sapete bene, ho voluto per tutta la Chiesa uno speciale Anno della fede, al fine di promuovere l’approfondimento della fede in tutti i battezzati e il comune impegno per la nuova evangelizzazione. Perciò, incontrandovi, vorrei sottolineare brevemente come la musica sacra può, anzitutto, favorire la fede e, inoltre, cooperare alla nuova evangelizzazione.

Circa la fede, viene spontaneo pensare alla vicenda personale di Sant’Agostino – uno dei grandi Padri della Chiesa, vissuto tra il IV e il V secolo dopo Cristo – alla cui conversione contribuì certamente e in modo rilevante l’ascolto del canto dei salmi e degli inni, nelle liturgie presiedute da Sant’Ambrogio. Se infatti sempre la fede nasce dall’ascolto della Parola di Dio – un ascolto naturalmente non solo dei sensi, ma che dai sensi passa alla mente ed al cuore – non c’è dubbio che la musica e soprattutto il canto possono conferire alla recita dei salmi e dei cantici biblici maggiore forza comunicativa. Tra i carismi di Sant’Ambrogio vi era proprio quello di una spiccata sensibilità e capacità musicale, ed egli, una volta ordinato Vescovo di Milano, mise questo dono al servizio della fede e dell’evangelizzazione. La testimonianza di Agostino, che in quel tempo era professore a Milano e cercava Dio, cercava la fede, al riguardo è molto significativa. Nel decimo libro delle Confessioni, della sua Autobiografia, egli scrive: «Quando mi tornano alla mente le lacrime che canti di chiesa mi strapparono ai primordi nella mia fede riconquistata, e alla commozione che ancor oggi suscita in me non il canto, ma le parole cantate, se cantate con voce limpida e la modulazione più conveniente, riconosco di nuovo la grande utilità di questa pratica» (33, 50). L’esperienza degli inni ambrosiani fu talmente forte, che Agostino li portò impressi nella memoria e li citò spesso nelle sue opere; anzi, scrisse un’opera proprio sulla musica, il De Musica. Egli afferma di non approvare, durante le liturgie cantate, la ricerca del mero piacere sensibile, ma riconosce che la musica e il canto ben fatti possono aiutare ad accogliere la Parola di Dio e a provare una salutare commozione. Questa testimonianza di Sant’Agostino ci aiuta a comprendere il fatto che la Costituzione Sacrosanctum Concilium, in linea con la tradizione della Chiesa, insegna che «il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria ed integrante della liturgia solenne» (n. 112). Perché «necessaria ed integrante»? Non certo per motivi puramente estetici, in un senso superficiale, ma perché coopera, proprio per la sua bellezza, a nutrire ed esprimere la fede, e quindi alla gloria di Dio e alla santificazione dei fedeli, che sono il fine della musica sacra (cfr ibid.). Proprio per questo vorrei ringraziarvi per il prezioso servizio che prestate: la musica che eseguite non è un accessorio o solo un abbellimento esteriore della liturgia, ma è essa stessa liturgia. Voi aiutate l’intera Assemblea a lodare Dio, a far scendere nel profondo del cuore la sua Parola: con il canto voi pregate e fate pregare, e partecipate al canto e alla preghiera della liturgia che abbraccia l’intera creazione nel glorificare il Creatore.

Il secondo aspetto che propongo alla vostra riflessione è il rapporto tra il canto sacro e la nuova evangelizzazione. La Costituzione conciliare sulla liturgia ricorda l’importanza della musica sacra nella missione ad gentes ed esorta a valorizzare le tradizioni musicali dei popoli (cfr n. 119). Ma anche proprio nei Paesi di antica evangelizzazione, come l’Italia, la musica sacra -con la sua grande tradizione che è propria, che è cultura nostra, occidentale – può avere e di fatto ha un compito rilevante, per favorire la riscoperta di Dio, un rinnovato accostamento al messaggio cristiano e ai misteri della fede. Pensiamo alla celebre esperienza di Paul Claudel, poeta francese, che si convertì ascoltando il canto del Magnificat durante i Vespri di Natale nella Cattedrale di Notre-Dame a Parigi: «In quel momento – egli scrive – capitò l’evento che domina tutta la mia vita. In un istante il mio cuore fu toccato e io credetti. Credetti con una forza di adesione così grande, con un tale innalzamento di tutto il mio essere, con una convinzione così potente, in una certezza che non lasciava posto a nessuna specie di dubbio che, dopo di allora, nessun ragionamento, nessuna circostanza della mia vita agitata hanno potuto scuotere la mia fede né toccarla». Ma, senza scomodare personaggi illustri, pensiamo a quante persone sono state toccate nel profondo dell’animo ascoltando musica sacra; e ancora di più a quanti si sono sentiti nuovamente attirati verso Dio dalla bellezza della musica liturgica come Claudel. E qui, cari amici, voi avete un ruolo importante: impegnatevi a migliorare la qualità del canto liturgico, senza aver timore di recuperare e valorizzare la grande tradizione musicale della Chiesa, che nel gregoriano e nella polifonia ha due delle espressioni più alte, come afferma lo stesso Vaticano II (cfr Sacrosanctum Concilium, 116). E vorrei sottolineare che la partecipazione attiva dell’intero Popolo di Dio alla liturgia non consiste solo nel parlare, ma anche nell’ascoltare, nell’accogliere con i sensi e con lo spirito la Parola, e questo vale anche per la musica sacra. Voi, che avete il dono del canto, potete far cantare il cuore di tante persone nelle celebrazioni liturgiche.

Cari amici, auguro che in Italia la musica liturgica tenda sempre più in alto, per lodare degnamente il Signore e per mostrare come la Chiesa sia il luogo in cui la bellezza è di casa. Grazie ancora a tutti per questo incontro! Grazie.