Palermo. Il messaggio di Mattarella: combattere indifferenza e zone grigie

Messaggio di Mattarella in ricordo della strage di via D'Amelio

Messaggio di Mattarella in ricordo della strage di via D’Amelio – Ansa

Il capo dello Stato: Falcone e Borsellino hanno dimostrato che la criminalità organizzata può essere sconfitta. L’omaggio della premier, che non parteciperà alla fiaccolata serale: “Ma non scappo”

«Nell’anniversario della strage di via D’Amelio la Repubblica si inchina alla memoria di Paolo Borsellino, magistrato di straordinario valore e coraggio, e degli agenti della sua scorta – Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina – che con lui morirono nel servizio alle istituzioni democratiche». Lo scrive il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in una dichiarazione aggiungendo che «quel barbaro eccidio, compiuto con disumana ferocia, colpì l’intero popolo italiano e resta incancellabile nella coscienza civile». «Il nome di Paolo Borsellino, al pari di quello di Giovanni Falcone, mantiene inalterabile forza di richiamo ed è legato ai successi investigativi e processuali che misero allo scoperto per la prima volta l’organizzazione mafiosa e ancor di più è connesso al moto di dignità con cui la comunità nazionale reagì per liberare il Paese dal giogo oppressivo delle mafie. Loro «avevano dimostrato che la mafia poteva essere sconfitta. Il loro esempio ci invita a vincere l’indifferenza, a combattere le zone grigie della complicità con la stessa fermezza con cui si contrasta l’illegalità».

Intanto la premier Giorgia Meloni è arrivata nella caserma Lungaro per la cerimonia in memoria dei cinque agenti di scorta assassinati nella strage di via D’Amelio, dove 31 anni fa fu ucciso il giudice Paolo Borsellino. L’ingresso non è consentito ai giornalisti come comunicato ieri sera dalla questura. Meloni deporrà una corona sulla lapide in ricordo dei poliziotti Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Poi si è recata nei luoghi in cui sono sepolti Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, al cimitero di Santa Maria di Gesù e nella chiesa di San Domenico. Subito dopo in Prefettura per presiedere il Comitato per l’ordine e la sicurezza. Meloni non sarà presente questa sera alla tradizionale fiaccolata organizzata da Fdi «per altri impegni concomitanti». «La strage di Via D’Amelio, dove Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta vennero uccisi dalla mafia, è stato il motivo per il quale ho iniziato a fare politica. La data del 19 luglio 1992 rappresenta una ferita ancora aperta per chi crede in un’Italia giusta». Lo scrive in un post su Facebook la presidente del Consiglio. «Paolo sfidò il sistema mafioso senza mai temere la morte, insegnandoci a non restare a guardare e a non voltarci mai dall’altra parte. Il suo coraggio e la sua integrità sono doni che ci ha lasciato e che tanti giovani hanno deciso di raccogliere per affermare due valori imprescindibili: la legalità e la giustizia», prosegue la premier. «Oggi, a 31 anni di distanza da quel terribile attentato, ricordiamo tutti quegli eroi che non ebbero paura di denunciare al mondo il vero volto della criminalità organizzata e che servirono lo Stato fino all’ultimo. Nel loro esempio portiamo avanti il nostro impegno quotidiano per estirpare questo male dalla nostra Nazione: solo così – continua Meloni – il loro sacrificio non sarà mai vano».

Intercettata dai cronisti durante la visita mattutina a Palermo, la premier ha risposto sulla mancata partecipazione al corteo serale: «Chi fa queste polemiche non aiuta le istituzioni. Mi ha stupito quello che ho letto sui quotidiani: una polemica inventata sul fatto che avrei scelto di non partecipare alla manifestazione per paura di essere contestata. Chi mi può contestare? La mafia? La mafia può contestare un governo che ha fatto tutto quello che andava fatto sul contrasto alla criminalità organizzata. Ma io non sono mai scappata in tutta la mia vita. Io sono un persona che si permette sempre di camminare a testa alta. Sono qui oggi e sarò qui sempre per combattere la mafia», afferma la premier al margine delle commemorazioni di Palermo.

avvenire.it

“La forza mite che unì il pool anti-mafia”. Pietro Grasso ricorda Antonino Caponnetto

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AGI – “Conobbi personalmente Antonino Caponnetto quando, studiando le carte del maxiprocesso, lo incontrai nella sua stanza. Mi dette un buffetto sulla guancia, che somigliava più ad una carezza e mi disse ‘fatti forza ragazzo, vai avanti a schiena dritta e testa alta e segui soltanto la voce della tua coscienza’. Ancora oggi, in mezzo alle difficoltà, quelle parole mi permettono di affrontare situazioni anche spiacevoli“.

Nel giorno del ventennale dalla morte del giudice Antonino Caponnetto, è il presidente Pietro Grasso a tratteggiarne all’AGI il ricordo ed a spiegare il suo “rigore morale, la spina dorsale d’acciaio, che gli italiani impararono a conoscere dopo le stragi, quando la sua corazza per un attimo si abbasso’, con la frase ‘è tutto finito'”.

Caponnetto arrivò a capo dell’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo il 9 novembre 1983. Tre mesi e mezzo prima, il 29 luglio, era stato ucciso il Consigliere Rocco Chinnici. Proseguì l’idea di Chinnici di dare organicità alla lotta alla mafia, creando il famoso pool che istruì il Maxiprocesso. Pietro Grasso, giudice a latere del Maxi ed amico personale di Caponnetto, ne ricorda il contributo professionale e morale.

“Prima ancora di incontrarlo, nel novembre 1985, potei apprezzare il contributo giuridico che aveva dato. È sempre stato misconociuto, era un grande giurista, oltre che un magistrato d’azione. Non fu un notaio, o un grande sacerdote del rito del Maxi, ma si vide subito la sua autorevolezza, un’opera nascosta, certosina, con la quale riuscì a tenere ben saldo il pool, creando un clima di armonia, di affiatamento nel lavoro, supportando i loro sacrifici e facendo da scudo per le polemiche che già nascevano. Diede lui il collante”.

Eppure Caponnetto “aveva una naturale ritrosia – spiega Grasso – a mettere in evidenza il suo contributo personale, solo dopo tempo si è compreso quanto le decisioni prese dal pool portassero il suo contributo, la sua sensibilità“.

Tornando a quelle parole che Caponnetto pronunziò con volto disperato per la morte di Falcone prima e Borsellino poi, Grasso spiega: “Quella frase la rinnego’ subito dopo, con il suo discorso in Chiesa, con cui diede dignità civile ad un sentimento di speranza presente nella societa’ e testimoniato anche dallo sdegno dei palermitani onesti. Lo fece subito dopo, e’ importante ricordarlo”.

Poi ci fu una “vita successiva” per Caponnetto, quella nelle scuole, quella dedicata ai giovani. “Lui ha offerto il suo volto spendibile, pulito, spingeva i ragazzi a mantenere un costante rapporto con le Istituzioni“. Ed ancora l’esperienza dei vertici antimafia, quelli di Campi Bisenzio, nati da una sua intuizione, in cui metteva insieme le intelligenze migliori della società.

“Creò un osservatorio privilegiato, con la cartolina precetto, metteva insieme le migliori forze intellettuali del Paese, per fare il punto sulla situazione e sui diversi fronti della lotta alla mafia. Poi – spiega Grasso – per lui era centrale la ‘questione morale’, soprattutto in politica, sempre particolarmente attuale. Si era reso conto da tempo che la via della repressione non bastava”.

Ed ancora “cercava di ricucire il rapporto tra politica e magistratura, continuava a dire che nei momenti difficili il Paese dovesse stare unito. Rifiutò qualsiasi incarico e fu una vera spinta per i movimenti antimafia“. Il ricordo finale? “Per me è un punto di riferimento, lo è sempre stato, per questo continuo a parlarne nelle scuole”.

Infine forse il ricordo più dolce, quello del rapporto con la moglie, per tutti “nonna Betta”, ovvero la signora Elisabetta. Un amore vero che si poggiava su basi solide. Un’intesa che si è protratta, oltre la vita terrena del marito. “Lei era dolcissima con lui e condivideva appieno il suo impegno, i suoi ideali, i suoi valori. Avevano un’affinità elettiva straordinaria. E lei ha continuato nella sua opera, persino con i precetti nei vertici antimafia” e nella Fondazione che porta il suo nome, Antonino Caponnetto.

Trent’anni dopo «Borsellino, la sua morte ci riguarda» L’anniversario divide ancora Palermo

Trent’anni di dolore, di ombre, di processi e di speranza. Trent’anni, da quel giorno che rivive, nel cuore di chi c’era, come in quello di chi è arrivato dopo, con le sue sequenze drammatiche in rapida successione. Ieri, alla vigilia dell’anniversario della morte di Paolo Borsellino, l’Agesci ha organizzato la manifestazione ‘Costruttori di memoria operante’. La notte di via D’Amelio è stata rischiarata da canti e preghiere, durante la Messa celebrata dall’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice. Ecco un passaggio del suo discorso a braccio: «Se vogliamo cogliere il senso di una ricorrenza come il trentennale delle stragi di Capaci e Via D’Amelio senza cadere nella retorica, dobbiamo intendere la memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino come una provocazione che riguarda ognuno di noi da vicino e ci chiama a coinvolgerci in un progetto di liberazione individuale e collettiva. Parlando dei martiri della mafia, ho più volte ribadito l’esortazione a diventare loro ‘soci’, ovvero a credere con loro e come loro che l’amore è più forte della morte».

Erano le cinque di pomeriggio, meno qualche minuto, il 19 luglio 1992. Improvvisamente, Palermo venne scossa da un boato. Si sollevò una nuvola di fumo, visibile da tutti i punti di osservazione.

I palermitani furono subito turbati. Quasi due mesi prima avevano vissuto un trauma nazionale: il giudice Giovanni Falcone, sua moglie, il magistrato Francesca Morvillo, e tre uomini della scorta, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani, assassinati in autostrada, all’altezza dello svincolo di Capaci, dal tritolo della mafia. Da quel tragico 23 maggio, gli occhi di tutti finirono sull’amico e ‘gemello’ di Falcone, l’uomo che ne aveva condiviso battaglie, successi e sconfitte. Si trattava del giudice Paolo Emanuele Borsel- lino, il magistrato che, nella percezione di molti, era più a rischio.

Le prime notizie offrirono lo scarno e drammatico resoconto di un attentato dinamitardo. «È stato coinvolto un magistrato» si disse. Non si disse ancora che il luogo dell’esplosione era via Mariano D’Amelio, una strada residenziale e tranquilla, oggi, a pochi passi dall’hub dei vaccini anti-Covid della Fiera del Mediterraneo. Passò un tempo angosciato, fino al tragico dispaccio che diede una forma compiuta alla strage. Paolo Borsellino era morto. Era al citofono, davanti al palazzo abitato dalla mamma, Maria Pia Lepanto, e dalla sorella, Rita, quando la bomba di Cosa nostra esplose. Con lui vennero spazzati via gli agenti della scorta: Agostino Catalano, Eddie Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Claudio Traina. È sopravvissuto soltanto l’agente Antonio Vullo con le sue ferite, nel corpo e nell’anima.

Sarà proprio Vullo a rivivere, per sempre, gli ultimi istanti. Il giudice che scende dalla macchina, che si accende la sigaretta e che va incontro alla sua morte. A trent’anni di distanza, Toni Vullo racconta ancora, come se fosse ieri, con la stessa intensità: «Ho visto il giudice che suonava al citofono esterno del palazzo. Aveva una faccia contratta, era preoccupato. Erano giorni difficili. Poi, si è scatenato l’inferno».

Tanti gli appuntamenti in agenda anche oggi. Alla commemorazione sarà presente il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, che incontrerà le ragazze e i ragazzi che partecipano all’iniziativa ‘Coloriamo via d’Amelio’, organizzata dal Centro Studi Paolo e Rita Borsellino. Stamattina, alle dieci, il capo della polizia Lamberto Giannini deporrà una corona d’alloro all’interno dell’ufficio scorte della Questura; alle undici, in Cattedrale, la messa officiata dall’arcivescovo. In serata si svolgerà invece la tradizionale fiaccolata da piazza Vittorio Veneto in via D’Amelio organizzata dal Forum 19 luglio.

«Sono passati trenta lunghi anni senza verità – dice Salvatore Borsellino, fratello del giudice –. Sono stati celebrati numerosi processi ma ancora attendiamo di conoscere tutti in nomi di coloro che hanno voluto le stragi del ’92-93. Abbiamo chiaro che mani diverse hanno concorso con quelle di Cosa Nostra per commettere questi crimini ma chi conosce queste relazioni occulte resta vincolato al ricatto del silenzio. Ora chiediamo noi il silenzio. Silenzio alle passerelle. Silenzio alla politica».

L’ultima sentenza del tribunale di Caltanissetta, nel processo sul depistaggio, ha dichiarato prescritte le accuse a due poliziotti, assolvendo il terzo. Un pronunciamento che ha provocato la reazione di Maria Falcone, sorella di Giovanni: «Come sorella di Giovanni Falcone e come cittadina italiana, provo una forte amarezza perché ancora una volta ci è stata negata la verità piena su uno dei fatti più inquietanti della storia della Repubblica».

«Uno Stato che non riesce a fare luce su questo delitto non ha possibilità di futuro. Dopo trent’anni di depistaggi e di tradimenti noi non ci rassegniamo e continueremo a batterci perché sia fatta verità sull’uccisione di nostro padre – ha detto, qualche settimana, fa Fiammetta Borsellino, indomita figlia del magistrato –. È per questo motivo che la mia famiglia ha deciso di disertare le cerimonie ufficiali sulle stragi del ’92, non a caso mia madre non volle funerali di Stato, proprio perché aveva capito…».

Diverse le domande ancora senza risposta. Che fine ha fatto l’agenda rossa, il diario su cui il giudice annotava le cose importanti? C’è il marchio insanguinato della mafia, ma è stata davvero solo Cosa nostra a organizzare la strage o ha potuto contare sul concorso di altre entità?

Punti interrogativi che rinnovano l’angoscia di tutti e il dolore di chi perse qualcuno che amava. Trent’anni dopo, come se fosse ieri.

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L’arcivescovo Corrado Lorefice: «Se vogliamo cogliere il senso di una ricorrenza senza cadere nella retorica, dobbiamo intendere la memoria come una provocazione che riguarda ognuno di noi da vicino e ci chiama a coinvolgerci in un progetto di liberazione»

Sopra: Salvatore Borsellino alza al cielo l’’agenda rossa’, riferimento a quella del fratello, sparita. In alto: una commemorazione.Sopra: via D’Amelio dopo la strage/ Ansa

Il caposcorta di Borselino. «Una strage che attende ancora giustizia»

L’anniversario della strage di via D’Amelio, il ritratto intimo del giudice dal suo “angelo custode”, all’epoca costretto a restare a casa per una malattia
Il luogo della strage del 19 luglio 1992

Il luogo della strage del 19 luglio 1992 – .

Sono passati trent’anni dalla strage di via D’Amelio. Palermo fu sconvolta da un’altra esplosione, a poche settimane dalla strage di Capaci in cui erano morti Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e la scorta: Rocco Dicillo, Antonio Montinaro,Vito Schifani. Erano ancora calde le lacrime del 23 maggio, quando il 19 luglio del 1992 la violenza della mafia portò via Paolo Borsellino e i suoi “angeli custodi”: Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi, Claudio Traina.Trent’anni di ricerca della verità, di processi e di ombre che, ancora, si addensano sulla strage. Pochi giorni fa, c’è stata la sentenza sul depistaggio: il tribunale di Caltanissetta ha dichiarato prescritte le accuse contestate a due dei tre poliziotti imputati, mentre un terzo è stato assolto. Un evento che è stato commentato duramente dai parenti delle vittime di mafia. Sia Maria Falcone, sorella di Giovanni, che Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, hanno espresso, con toni diversi, la loro amarezza. «Ancora una volta ci è stata negata la verità piena su uno dei fatti più inquietanti della storia della Repubblica», ha detto la sorella del giudice Falcone. Il giudice Antonio Balsamo, oggi presidente del Tribunale di Palermo ed ex presidente della Corte d’assise di Caltanissetta, ha lanciato un appello: «Credo che un modo fortemente significativo di rendere onore alla memoria di questi grandi italiani, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sia di farsi carico di un impegno di ricerca della verità senza compromessi da parte di tutte le istituzioni e dello Stato». (R.P.)

 

 

«Io li voglio ricordare per come li ho conosciuti anche se quello che ho visto quel 19 luglio non sono bei ricordi. Vedere quei pezzi di carne bruciata…Quello è un giorno che mi ha segnato tantissimo, ma sono convinto che loro sono ancora qui. Forse quando avranno finalmente giustizia saliranno in Cielo. Un giorno, proprio qui, cominciai a sentire un fortissimo profumo dei gelsomini, poi arrivò una fortissima folata di vento e finì. Per me loro sono qui».

Si commuove l’assistente capo della Polizia, Emanuele Filiberto, mentre in via D’Amelio, sotto l’ulivo memoria della strage, ricorda “il mio amico Paolo” e i suoi colleghi, Agostino Catalano, Claudio Traina, Walter Eddie Cosina e Emanuela Loi, “la mia sorellina”. Lui era il caposcorta del magistrato ma in quel mese di luglio era in malattia per un’operazione, «ma volevo rientrare al più presto». Cinquantaquattro anni, in Polizia da 30 anni, dal 1990 nel servizio scorte, ancora oggi tutela le persone più a rischio. E tutti i giorni passa per via D’Amelio, dove l’ulivo piantato dalla famiglia Borsellino si riempie continuamente di foto, lettere, disegni. «Per noi è un luogo sacro. Ci vengo molto spesso. Gli accendo una sigaretta… Paolo fumava tantissimo. La accendo, la appoggio sui quei sassi, e mi sembra di vederla aspirare».

E in questa lunga chiacchierata ricordi tristi si accompagnano a quelli allegri. «Un giorno entrai nella sua stanza e mi bloccai. “Ma perché mi guardi così?”. “Dottore mi sa che per lei è arrivato il momento di smettere di fumare”. “E perché?”. “Perché ne ha una in bocca e una accesa in mano”». Parlare con lui è conoscere anche il Borsellino privato. «Ricordo benissimo il primo giorno. Arrivai a casa sua, suonai il campanello e mi aprì la signora Agnese. Le dissi: “Buon giorno mi chiamo Emanuele Filiberto e sono il caposcorta di suo marito”. Mi rispose: “Scusi come ha detto che si chiama?”.

Pensai: “È la solita storia del principe Emanuele Filiberto…”. Allora lei chiamò. “Paolo, Paolo”. Arriva lui con in mano una tazzina di caffè. “Agnese cosa è successo?”. “Può dire lei a mio marito come si chiama?”. “Dottore buon giorno, come ho detto a sua moglie mi chiamo Emanuele Filiberto…”. “Hai visto Paolo, il ministero dell’Interno ti ha mandato un principe”. Mi fissò, poi guardò Agnese e disse: “E tu Agnese tieni un principe davanti alla porta? Si accomodi, le offro la prima tazzarella di caffè”. E da lì è nata un’amicizia incredibile, per me è stato un secondo padre, il mio fratello maggiore, un amico». E i ricordi si accavallano nel tempo. «Avevamo tante cose in comune, il mare, la barca, la squadra del cuore, l’Inter. Proprio nel 1992 mi disse che aveva intenzione di andare a vedere una partita a Milano. “Sabato alloggiamo alla Pinetina, dove si allena la squadra, la domenica andiamo a San Siro a vedere la partita e poi rientriamo a Palermo”. “Beato lei dottore”.

 

 

“Forse non hai capito, tu verrai con me”. Mi rese felice. Ma purtroppo non si è realizzato questo suo sogno. Erano le ultime partite del campionato. Non abbiamo avuto tempo… ». Perché arriva la bomba di Capaci e cambia tutto. «Non aveva più il sorriso di prima. La preoccupazione gliela leggevamo in faccia. Un giorno mentre lo riportavamo a casa mi fissò negli occhi e mi disse: “Emanuele pigghiati i picciotti, vatinne e non bienere più. Vattene e non tornare più”. “Dottore ma cosa sta dicendo?”. “Senti a me, vattene e non tornare più”. Mi ha traumatizzato il modo con cui lo aveva detto ». Ma Emanuele e gli altri ragazzi non se ne vanno. «Gli dissi, “dottore di cosa si tratta?”. “È arrivato il tritolo per me, ecco perché ho detto andatevene”. “Tritolo, bombe? Come quella di Capaci?”. “Sì, ecco perché te lo ripeto di nuovo, andatevene, io devo continuare”.

La mia risposta fu: “Se lei continua, anche noi continuiamo con lei”». Un lavoro difficile, in una città dove si protestava per le auto blindate che correvano a sirene spiegate. «Noi eravamo in emergenza, non potevamo tenere ferma in mezzo al traffico la personalità che scortavamo. Dovevamo utilizzare i segnali acustici e questo infastidiva la gente che però doveva anche capire il nostro rischio». E i poliziotti sapevano bene i rischi che correvano. «Ogni giorno nel momento del cambio, passavo le consegne ai colleghi e tra di noi c’erano abbracci continui, “noi siamo rientrati, anche voi dovete rientrare stasera”. Invece quel giorno i ragazzi sono usciti dall’ufficio, sono partiti dall’abitazione estiva di Borsellino, sono arrivati qui…».

E la voce di Emanuele si blocca, per l’emozione del ricordo. «Quando sono arrivato anche io, ho visto Lucia (la figlia di Borsellino, ndr), e ci siamo abbracciati. L’unico corpo che era quasi integro era proprio quello di Paolo, perché i ragazzi nel momento dell’esplosione lo circondavano, come sempre. Non facevamo mai avvicinare nessuno. Lo hanno protetto fino all’ultimo. Quando è stata trovata la mano di Emanuela aveva ancora la pistola in pugno». Ricordi che uniscono «dolore e rabbia. Noi il nostro lo avevamo fatto. Avevamo fatto da tempo la richiesta per la zona rimozione, non certo il 19 mattina». Così i mafiosi avevano potuto tranquillamente parcheggiare la 126 piena di tritolo. «Dopo l’attentato mi proposero di fare domanda di trasferimento ma davanti alla macchina da scrivere mi sono bloccato perché mi sono ritornate in mente le parole di Paolo quando mi disse “io devo continuare”. Mi alzai e non ho fatto domanda. Dopo le stragi mi sarei sentito un vigliacco ad andare via. E fino a oggi non sono mai andato via dalle scorte».

E allora parliamo di Emanuela. «Era una ragazza fantastica, bella, solare, rideva sempre. Siamo tutti e due del 1967 e abbiamo frequentato il corso assieme a Trieste. Poi il trasferimento a Palermo. Lei al commissariato Libertà e io al commissariato Zisa. E poi insieme nel servizio scorte. Emanuela voleva fare la maestra, le piaceva studiare. In questo mi ha aiutato, così come io poi l’ho aiutata per le tecniche con le auto in movimento. I primi tempi cadeva sempre, poi è diventata bravissima. Al commissariato Libertà la mandarono a fare vigilanza. La fece anche al presidente Mattarella. Non so se sa che mentre dormiva, sotto casa sua c’era Emanuela. Una volta il collega che doveva darle il cambio non era potuto venire.

Allora le portai un panino. Stava parlando con due bambini filippini e coi genitori. Prese il panino, lo divise in due e lo diede ai due bambini. Questa era Emanuela. Amava tanto i bambini. Anche Paolo amava i bambini». E proprio sui giovani sono le ultime riflessioni. «Quando Paolo incontrava i ragazzi e parlava del cambiamento, diceva che erano loro che avrebbero sconfitto la mafia. Io parlo tantissimo con le mie figlie, parlo di Emanuela, parlo di Paolo. Loro mi fanno tante domande. Vanno ricordati ogni giorno non solo il 19 luglio. Se tu credi in lui, se credi in quei ragazzi che sono morti per tutti noi, bisogna ricordarli sempre. Ricordare che Paolo è stato un grandissimo uomo, un grandissimo padre di famiglia, un grandissimo magistrato. Mi piacerebbe che quest’anno in questa via ci fossero tantissimi bambini, perché saranno le idee dei bambini con le stesse idee di Paolo ad andare avanti. Solo così il consenso ai mafiosi non lo daremo più, perché saranno i bambini a distruggere i mafiosi».

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