L’intervista. Genomica, biometria, big data: ci serve una nuova bioetica?

Genomica, biometria, big data: ci serve una nuova bioetica?

I temi oggetto del dibattito bioetico riguardano la vita che è di tutti: la generazione, la vulnerabilità, la morte, la cura, gli affetti. È proprio la vita che è di tutti e il pensiero sulla vita al centro del recente volume Dalla bio-etica alla tecno-etica: nuove sfide al diritto (Giappichelli, 395 pagine, 38 euro), di cui è autrice Laura Palazzani, ordinario di Filosofia del diritto all’Università Lumsa di Roma, vice-presidente del Comitato nazionale per la bioetica (2007-2017), componente dello European Group on Ethics in Science and New Technologies (Ege) presso la Commissione europea e membro del Comitato internazionale di bioetica (Ibc) dell’Unesco. L’autrice, muovendo da una prospettiva che promuove e difende l’intrinseca dignità di ogni essere umano, offre una panoramica particolarmente accurata e chiara sia dei temi che via via sono divenuti oggetto della riflessione bioetica sia delle diverse posizioni che si sono andate delineando a livello internazionale.
Può indicarci gli snodi che ritiene più significativi nella storia ormai cinquantennale della bioetica?
Il primo è l’ampliamento della riflessione morale dagli interventi possibili sulla vita dell’uomo a quelli sulla vita non umana (animale, ambiente) e non ancora esistente (future generazioni). Il secondo, nato dall’esigenza di elaborare regolamentazioni per la società, è il passaggio dalla bioetica alla biogiuridica. Il più recente è il percorso dalla bio-etica, o etica della biomedicina, alla tecno-etica, o etica delle cosiddette tecnologie convergenti che includono nanotecnologie, biotecnologie, informatica, scienze cognitive.
In Occidente nel dibattito bioetico si confrontano e si fronteggiano differenti prospettive: quali sono le più rilevanti e quali i loro principi cardine?
Ci sono le teorie libertarie e utilitaristiche che, sulla base del principio di autodeterminazione individuale e di convenienza sociale, ammettono forme di disponibilità della vita, soprattutto nei confini iniziale e finale, e la teoria che riconosce la dignità intrinseca dell’essere umano, dal concepimento alla morte, e considera la vita un bene indisponibile, prioritario rispetto al progresso tecno-scientifico.
In ambito europeo, presso l’Ege, e internazionale, all’Unesco, c’è una posizione che ha assunto posizione dominante?
La funzione prioritaria dei comitati di bioetica è riflettere in modo interdisciplinare e pluralistico sui principali temi emergenti dal progresso tecno-scientifico al fine di informare la società e offrire una consulenza ai governi in vista di una regolazione. L’obiettivo è elaborare documenti condivisi, ricercando una mediazione – nella disponibilità a tenere in considerazione le ragioni degli altri – per identificare valori condivisi. Difficile dire se esista una posizione dominante: certamente si può rilevare che le posizioni estreme dal carattere impositivo e non dialogico tendono a rimanere emarginate dalla discussione.
Nel dibattito internazionale quali sono i valori al momento più condivisi, e quali auspica lo diventino?
L’orizzonte di riferimento entro il quale si sta costruendo il dialogo internazionale è la dottrina dei diritti dell’uomo e il principio condiviso della priorità dell’uomo sul progresso della scienza e della tecnica: un principio che può essere declinato in modi diversi, ma che ha comunque assunto una centralità essenziale nella coscienza collettiva. Si tratta di un minimo etico rilevante che consente di negare la legittimità di alcune posizioni radicali (ad esempio la commercializzazione del corpo e delle sue parti). L’auspicio è che i “minimi etici” possano sempre più consentire l’espressione di “massimi etici”, con il riconoscimento dei valori umani fondamentali.

Laura Palazzani, vicepresidente del Comitato nazionale per la bioetica

Laura Palazzani, vicepresidente del Comitato nazionale per la bioetica


I documenti elaborati dai comitati nazionali di bioetica e da quelli istituiti a livello europeo hanno reale incidenza sulle legislazioni nazionali e comunitarie e sulla comunità scientifica?
L’impressione generale è che i comitati stiano diventando punti di riferimento rilevanti in vista di regolamentazioni percepite come sempre più urgenti a livello nazionale e internazionale. Di fronte alla complessità dei problemi e all’accelerazione del progresso tecno-scientifico, con la conseguente difficoltà del diritto a stare al passo, questi documenti stanno divenendo strumenti per la governance. L’obiettivo che oggi si sta delineando è arrivare a costruire un’etica integrata nel processo di progettazione tecnologica che rifletta l’evoluzione tecno-scientifica prima e durante, non solo dopo: gli eticisti dovrebbero interagire con gli scienziati nella fase dello sviluppo della conoscenza e delle tecnologie per orientare la ricerca e individuare insieme tecnologie che già nella fase di progettazione offrano condizioni e requisiti per l’eticità dell’applicazione. Un compito che gli organismi di bioetica stanno assumendo è anche quello di costruire piattaforme di discussione tra gli esperti (scienziati, eticisti, giuristi) e i cittadini.
Quali saranno i temi oggetto di studio nei prossimi anni?
La discussione, che continua sui “tradizionali” temi bioetici di inizio e fine vita, cura e sperimentazione, si sta aprendo a questioni nuove, che includono le neuroscienze, la genomica, la biometria, i big data, il potenziamento, la roboetica, le tecnologie convergenti.

da Avvenire

“Nanotecnologie” al top “fuochi” e invidie col flop

“L’Espresso” (22/11, p. 117): “Nanotecnolo-gie”. Elogio di un sistema che abbassa la tempera-tura in lavatrice: utile e sicuro. Troppo calore fa male. Stesso “Espresso” (p. 24) opportuna replica (“Top e flop”) a recente affermazione azzardata per cui «tra la sinistra europea e i democratici Usa c’è sempre stato un legame», provata col fatto che il 10/11/1960 “L’Unità” in prima pagina «riporta(va) l’elezione di Kennedy». A quel “top” segue subito il “flop” abbassa-temperatura: la stessa “Unità” (p. 2) esaltava i rapporti tra «la Cgil e i sindacati cecoslovacchi». Si sa oggi, ma già allora – 4 anni dopo Budapest, e 8 prima di Praga – si sapeva quale fosse la realtà della Cecoslovacchia: figurarsi i sindacati! Il giusto bagno freddo in pagina abbassa la temperatura. Tu però poi a p. 26 trovi: «Gesù, è un fuoco di Paglia». Un vero “fuoco”, e tutto di ironie volutamente brucianti. Ce l’ha in blocco e comunque con cattolici e Chiesa: «il card. Bertone e il collega Bagnasco… i gesuiti della Chiesa del Gesù» – ahimè per di più “gremita” – e il «Don Camillo-risolvi problemi», e «Mario Monti e Mario Draghi (purtroppo, vero? Ndr) allievi prediletti dei Gesuiti», e il generale di questi, e il cardinal Ravasi che dialoga – aiuto! – col… direttore del “Corsera”, il quale – orrore! – da “La Casta” sarebbe passato alla “Compagnia”, ovviamente di Gesù. Insomma: proprio «un fuoco di Paglia» – maiuscola mirata – con allusioni ripetute cariche di certa invidia a S. Egidio e… all’Opus Dei, che non poteva mancare. Insomma: un “fuoco” ad altissima temperatura che sbuffa da tutti i laicissimi coperchi. Che dire? Verrebbe bene la “nanotecnologia” di p. 117: abbassa la temperatura e forse garantisce miglior pulizia: dei luoghi comuni. Provare, per… ricredersi.
avvenire.it

Convegno a Bruxelles sugli aspetti etici e religiosi delle nuove frontiere della scienza

di RICCARDO BURIGANA

Cosa accade all’autocomprensione dell’uomo e alla pietà religiosa quando la vita umana è vista come l’oggetto di un progetto tecnologico piuttosto che come il risultato di un’evoluzione o della creazione divina? È questa una delle principali domande alle quali vuole dare una risposta il convegno ecumenico “Human Enhancement: Moral, Religious and Ethical Aspects from a European Perspective”, che si tiene a Bruxelles dal 25 al 27 aprile. L’incontro è promosso dalla commissione Chiesa e società della Conferenza delle Chiese europee (Kek), sotto l’auspicio del segretario generale del Consiglio d’Europa, in collaborazione e con il sostegno, tra gli altri, della Community of Protestant Churches in Europe.
Il convegno, organizzato nel corso del 2011 da una commissione internazionale di teologi e uomini di scienza, è stato pensato come l’inizio di un percorso di approfondimento ecumenico su alcuni temi. La Kek, infatti, desidera offrire un contributo al dibattito contemporaneo sul rapporto tra etica, scienza e tecnologia, ponendo una particolare attenzione ai più recenti sviluppi della bioetica e della biotecnologia. Si tratta di temi sui quali la Kek conduce, spesso in collaborazione con la Chiesa cattolica, una riflessione che ha alle spalle anni di incontri ecumenici, con i quali si è imparato a pensare insieme a come i cristiani devono rispondere alle nuove frontiere della scienza. Infatti, già nel 2003 la commissione Chiesa e società ha organizzato un convegno ecumenico su “Human life in our hands? Churches and Bioethics”. A questo convegno, che affrontava uno dei temi più controversi del tempo, presero parte quasi cento rappresentanti di Chiese e comunità ecclesiali da ventidue Paesi per un primo confronto ecumenico internazionale.
Nel corso degli anni si è venuto ampliando il dibattito ecumenico sul rapporto tra etica e scienza, suscitando molto interesse e determinando qualche difficoltà non solo tra le diverse tradizioni cristiane, ma anche all’interno delle singole confessioni, chiamate a confrontarsi anche con le sollecitazioni delle istituzioni europee e nazionali. Uno dei segni di questo crescente interesse ecumenico è stato il documento sull’Human Enhancement, preparato dal gruppo di lavoro sulla bioetica e la biotecnologia della Kek e presentato all’assemblea generale di Lione, nel 2009. Questo documento, che è stato particolarmente apprezzato in ambito ecumenico, anche fuori dall’Europa, cercava di arricchire il dibattito delle istituzioni politiche e del mondo della scienza con un richiamo all’importanza di una visione teologica sulla creazione. Al tempo stesso il documento voleva ampliare la discussione su questi temi tra i cristiani nella consapevolezza che ancora molto dovesse essere fatto per un maggiore coinvolgimento ecumenico nel dibattito in corso.
Proprio dal dibattito intorno a questo documento è nata l’idea di organizzare un convegno ecumenico internazionale così da moltiplicare le occasioni di confronto con il mondo della scienza per aiutarlo a non perdere di vista la centralità della persona umana. Il convegno di Bruxelles, che sarà aperto dal metropolita di Francia, Emmanuel, presidente della Kek, si propone di favorire un dialogo internazionale, interdisciplinare e interconfessionale per definire i termini dell’human enhancement, cioè di come la scienza possa e debba migliorare la vita dell’uomo, senza però stravolgere la sua natura come se l’uomo non fosse altro che una “macchina” sulla quale intervenire per migliorare le sue prestazioni. Su queste “nuove tecnologie” le Chiese e le comunità ecclesiali in Europa sono chiamate a un confronto ecumenico a partire dai diversi approcci, che caratterizzano la propria ricerca teologica, anche in rapporto alle istituzioni europee e al mondo della scienza. In questa fase di confronto gli organizzatori del convegno di Bruxelles auspicano un coinvolgimento anche delle altre religioni, soprattutto di quelle che hanno presenza particolarmente forte in Europa, tanto che il programma del convegno di Bruxelles comprende anche dei relatori musulmani e ebrei. A Bruxelles sarà preso in esame anche il documento discusso nell’assemblea generale di Lione del 2009, in modo da procedere a una sua revisione che tenga conto degli ulteriori sviluppi ecumenici su questi temi. Infatti, appare quanto mai importante giungere a una riflessione pienamente condivisa dai cristiani, così da proporre una “comune voce ecumenica” alle istituzioni europee.
Proprio una sempre più stretta collaborazione ecumenica appare la premessa necessaria per rafforzare il dialogo con i diversi soggetti dell’Unione europea e del Consiglio d’Europa che stanno affrontando, a vario livello, il tema del rapporto tra etica e scienza. Le istituzioni europee, infatti, rappresentano l’interlocutore privilegiato in questa fase nella quale appare evidente quanto i cristiani possano contribuire a chiarire i termini e i limiti della biotecnologia alla luce di una testimonianza evangelica che metta al centro i valori umani. A Bruxelles si rifletterà, dunque, sulla ricerca di un necessario equilibrio tra il miglioramento delle “prestazioni” del genere umano da un punto di vista puramente fisico e lo sviluppo delle sue capacità morali, mentali e spirituali, così come è all’ordine del giorno il rapporto tra i cospicui investimenti economici nella ricerca in questo campo e quelli necessari per assicurare un’assistenza sanitaria sempre più capillare e professionale, dal momento che non mancano le voci ecumeniche che hanno denunciato il drenaggio di risorse economiche che sarebbero utili per combattere le tante situazioni di povertà e abbandono presenti anche in Europa. Questo punto è strettamente connesso alla riflessione su come questo “nuovo” uomo possa accentuare ancora di più le distanze economiche nel mondo, determinando anche la creazione di una società sempre più individualista. Fin dalla formulazione della proposta di questo convegno internazionale la commissione organizzatrice ha auspicato che si potesse giungere alla redazione di un testo che costituisse una base sulla quale proseguire una riflessione ecumenica che fosse alimentata dal contributo di tutti i cristiani. Anche per questo il convegno di Bruxelles si propone di ampliare la partecipazione di gruppi e associazioni ecumeniche.

(©L’Osservatore Romano 25 aprile 2012)

Quando la bioetica diventa campo di battaglia

Non può passare come una provocazione o, al contrario, un «puro esercizio di logica» la difesa dell’infanticidio argomentata da due studiosi italiani – Alberto Giubilini e Francesca Minerva – nella rivista The Journal of Medical Ethics.

I due bioeticisti chiamano «aborto post-nascita» l’omicidio dei neonati perché, così come i feti, i bambini nati da poco non sarebbero persone e non hanno quindi diritto alla vita. Se i primi si possono abortire, si dovrebbe poter sopprimere pure i secondi, usando lo stesso termine (aborto), perché «omicidio» è riservato alle persone. Conforta la reazione di disgusto e ripugnanza, dilagata soprattutto in Rete, così forte che gli editori della rivista, Julian Savulescu e Ken Boyd, e gli autori stessi hanno cercato, in qualche modo, di difendersi.

Savulescu, che da sempre sostiene tesi analoghe a quella dell’articolo, ha rilasciato una dichiarazione ufficiale in cui giustifica la pubblicazione ma che, a scanso di equivoci, inizia così: «Sono personalmente contrario alla legalizzazione dell’infanticidio». L’editore associato Boyd ha spiegato di non condividere le conclusioni dell’articolo, precisando addirittura che quei due bioeticisti lui non li conosce neppure. Mai visti. E persino i due studiosi hanno tentato di minimizzare quel che loro stessi hanno scritto. In una lettera aperta protestano che il loro è solo «un puro esercizio di logica», niente di più lontano da una proposta di legge in materia.

Dichiarazioni che suonano francamente patetiche e inadeguate. Autori ed editori non negano la tesi del saggio – l’infanticidio è accettabile per le stesse ragioni per cui lo è l’aborto – e si dissociano solamente dalla sua legalizzazione (gli autori non in modo esplicito). Ma se è tutto tanto logico, razionale, consolidato nella letteratura, e soprattutto così robustamente argomentato come ripetono continuamente, perché non se ne può giustificare la messa in pratica? E se editori e autori sono contrari all’infanticidio, perché non l’hanno precisato chiaramente in una nota al testo?

Forse perché quel saggio rivela realmente il loro orientamento culturale. Nel testo leggiamo infatti che «lo status morale di un neonato è equivalente a quello di un feto nel senso che entrambi mancano di quelle caratteristiche che giustificano l’attribuzione del diritto alla vita di un individuo. Sia un feto sia un neonato sono certamente esseri umani e potenziali persone, ma nessuno dei due è “persona” nel senso di un “soggetto di un diritto morale alla vita”.

Noi chiamiamo persona un individuo che è capace di attribuire alla propria esistenza (almeno) alcuni valori di base come il ritenere una perdita l’essere privati della propria esistenza. Ciò significa che molti animali non umani e individui umani mentalmente ritardati sono persone, ma che tutti gli individui che non sono nelle condizioni di attribuire alcun valore alla propria esistenza non sono persone. L’essere semplicemente un essere umano di per sé non è una ragione per attribuire a qualcuno un diritto alla vita».

Difficile pensare che chi si esprime in questo modo – e chi pubblica, ritenendo queste idee utili al progresso dell’umanità – non condivida quanto formulato. Con tutte le conseguenze del caso, infanticidio compreso. A questo punto autori ed editori dovrebbero chiarire se dissentono o meno dalle definizioni e da certe argomentazioni dell’articolo: è inevitabile dedurne la plausibilità dell’infanticidio, indipendentemente dal fatto che se ne discuta o meno la traduzione in legge. Ma la questione non riguarda solo loro. Investe tutto quel mondo, specie accademico, che si occupa di queste tematiche: i due studiosi non vengono dalla luna, ma sono laureati e dottorati in prestigiose università italiane – Milano, Bologna – e Savulescu ha già collaborato con l’università Vita & Salute del San Raffaele.
Ci sono domande che urgono. Mi chiedo, e chiedo a chi fa parte del mondo della bioetica: riflettere sulla vita umana, sia pure in ambito accademico, può essere solo un «puro esercizio di logica»? Cosa pensiamo di espressioni tipo «aborto post-nascita»? Siamo disposti ad accettarne il diritto di cittadinanza nel lessico della bioetica? E soprattutto, in nome della libertà di pensiero e di espressione, siamo disposti a riconoscere che alcuni orientamenti e definizioni, come quelli espressi nel saggio di cui si sta parlando, possono portare a conseguenze sociali ed antropologiche devastanti, come ben dimostrato nell’articolo? Insomma, siamo disposti a interrogarci sul ruolo e il compito della bioetica?

 

Assuntina Morresi – avvenire.it

Bioetica e religioni

di Padre Gonzalo Miranda LC
Decano della Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum

ROMA, domenica, 22 gennaio 2012 (ZENIT.org).- Durante il processo di elaborazione della “Dichiarazione Universale su Bioetica e Diritti Umani” dell’UNESCO ci fu una sessione dedicata ad ascoltare i rappresentanti delle più importanti religioni nel mondo. Il giorno dopo, mentre si analizzava la bozza della dichiarazione, uno dei membri del Comitato Internazionale di Bioetica commentò il fatto che la stragrande maggioranza della popolazione mondiale si riconosce in una qualche religione e che pertanto non si poteva lasciare da parte le visioni religiose su temi importanti e delicati come quelli affrontati dalla Dichiarazione.

La bioetica, infatti, parla di vita e morte, di salute e malattia, di sofferenza, dignità della persona umana, ecc.. Tematiche che interessano anche in modo diretto la religione e le religioni. Prima di tutto nel senso del vissuto religioso personale come parte fondamentale dell’orizzonte di senso che ognuno da alla propria vita, e dunque anche alla propria morte, salute e malattia. E poi anche nel senso di confessione religiosa comunitaria, istituzionale. Le comunità di credenti delle varie religioni, i loro rappresentanti, si sono espressi e si esprimono frequentemente sulle tematiche della bioetica, proprio in quanto riguardanti il vissuto concreto dei membri delle proprie comunità.

Tra le diverse confessioni e visioni religiose ci sono tanti elementi comuni, profondamente radicati, sui temi della bioetica. essa costituisce pertanto un’interessante piattaforma per il dialogo e la collaborazione tra i fedeli delle religioni nel mondo e tra i loro rappresentanti. Un dialogo sincero e aperto su tematiche che interessano tutti i credenti e sulle quali si riscontrano importanti elementi di armonia e di intesa, può favorire la stima reciproca e promuovere di conseguenza la pace tra i popoli.

Quella “bioetica pacifica” auspicata per esempio da U. T. Enghelhart, non si raggiunge con la rinuncia banale alle proprie convinzioni, come pretende il bioeticista texano, ma con l’intesa sincera e convinta che può nascere dal dialogo sincero e aperto.

Sono questi i motivi che ci hanno portato la Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum (APRA) ad organizzare due importanti convegni su “Bioetica e religioni” A Gerusalemme e a Roma. Studiosi di bioetica appartenenti alle tre religioni monoteistiche (ebrei, cristiani e musulmani) e non solo presenti nelle Città Sante Roma e Gerusalemme) si sono incontrati in un clima di sincera simpatia per condividere la propria visione della bioetica.

Gli incontri sono stati organizzati in collaborazione tra la FIBIP (Federazione Internazionale di Centri di Bioetica di Ispirazione Personalista) e la Cattedra UNESCO in Bioetica e Diritti Umani (legata alla facoltà di bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma). La cattedra UNESCO ha dedicato la sua giornata (intitolata “cultura della vita e religioni”) ai fondamenti, gli interessi e temi principali e i metodi utilizzati dalla bioetica ispirata da ognuna delle tre tradizioni religiose. La Cattedra ha iniziato nel 2009 a Gerusalemme una serie di incontri sul dialogo delle religioni in temi di bioetica, di cui la seconda sessione si è tenuta a Roma nell’ottobre 2011, allargando la partecipazione ad altre religioni. Da parte sua, la FIBIP ha incentrato il proprio congresso annuale internazionale sul tema “Bioetica, legge e religione sui temi di fine vita”.

Nel numero 3/2009 di “Studia Bioethica” abbiamo raccolto le relazioni di carattere fondativo presentate nelle due giornate del convegno di Gerusalemme. Il primo contributo affronta il rapporto tra etica, legge positiva e religione, in senso generale. Le altre conferenze presentano offrono una visione globale caratterizzante della bioetica nella tradizione ebraica, in quella cristiana e in quella musulmana.

Ci sembra interessante notare il terreno comune – profondo ed ampio -, sul quale mettono radice le riflessioni e le istanze etiche nelle tre religioni. La vita umana è per tutti noi un dono prezioso dell’unico Dio Creatore. Siamo dunque convinti della “sacralità della vita”, che non può essere soppressa a causa del proprio giudizio sulla sua “qualità”. Ogni essere umano, creato da Dio, gode di una dignità intrinseca eccelsa, che deve essere rispettata e promossa da tutti, anche in relazione agli interventi di ricerca, diagnosi e terapia medica.

Anche sui temi di fine vita abbiamo constatato un’armonia di vedute veramente notevole. Maggiori diversità sono emerse in relazione ai problemi riguardanti l’inizio della vita (aborto, riproduzione assistita, contraccezione, eccetera). Non nel senso che qualcuna delle tre religioni non consideri ogni vita umana sacra, ma in quanto ci sono diverse visioni, soprattutto legate alle proprie tradizioni, sul momento iniziale della vita della persona e conseguentemente sul rispetto dovuto all’essere umano nei primi stadi della sua esistenza.

Queste divergenze sono in buona parte dovute alle differenze di carattere metodologico. Da una parte, il riferimento ai testi sacri di ognuna delle religioni costituisce una piattaforma in fondo molto armonica. Cambiano però i modi di riferirsi ai testi, di attingere o meno ai dati offerti dalla ragione in base una lettura della cosiddetta “legge naturale”, il peso più o meno determinante delle proprie tradizioni, e il ruolo delle guide religiose di ogni comunità. Diverso è il senso del Magistero della Chiesa cattolica, quello delle guide spirituali all’interno delle altre confessioni cristiane, e il ruolo dei rabbini o delle guide spirituali all’interno dell’Islam.

Le differenze tra le tre religioni e la piattaforma comune nelle questioni di fondo e in molti temi specifici costituiscono una bella sfida per la riflessione personale e per il dialogo. Un dialogo che non si chiude negli orizzonti dei credenti ma, al contrario, si apre volentieri a tutti i membri delle nostre società, credenti e non.

Difesa della dignità umana da concetti contrari alla legge naturale

Pubblichiamo in una nostra traduzione italiana l'intervento pronunciato il 10 giugno, a New York, dall'arcivescovo Francis Assisi Chullikatt, Osservatore Permanente della Santa Sede presso l'Organizzazione delle Nazioni Unite, durante la Conferenza di alto livello sull'Hiv/Aids (8-10 giugno) in occasione del trentesimo anniversario della scoperta del virus.

Presidente,

sull'adozione della Dichiarazione, la Santa Sede offre il seguente intervento di interpretazione. Chiedo che il testo di tale intervento, che spiega la posizione ufficiale della Santa Sede, venga cortesemente incluso nel rapporto di questa plenaria di alto livello dell'Assemblea Generale. Fornendo più di un quarto delle cure totali a quanti sono colpiti dall'Hiv e dall'Aids, le istituzioni sanitarie cattoliche conoscono bene l'importanza dell'accesso ai trattamenti, alle cure e al sostegno per milioni di persone che sono colpite dall'Hiv e dall'Aids e ci convivono. La posizione della Santa Sede sulle espressioni "salute sessuale e riproduttiva" e "servizi", "diritti riproduttivi", e sulla Strategia Globale per la Salute delle donne e dei bambini del Segretario Generale, deve essere interpretata in linea con le sue riserve al Rapporto della Conferenza Internazionale su Popolazione e Sviluppo (Icpd) del 1994. La posizione della Santa Sede sulla parola "genere" e sui suoi vari usi deve essere interpretata in linea con le sue riserve al Rapporto della Quarta Conferenza Mondiale sulle Donne. La Santa Sede ritiene che, in riferimento ai "giovani", definizione che non gode di un consenso internazionale, gli Stati debbano sempre rispettare le responsabilità, i diritti e i doveri dei genitori di offrire un orientamento e una guida adeguati ai loro figli, il che include avere la responsabilità primaria della crescita, dello sviluppo e dell'educazione dei propri figli (cfr. Convenzione sui Diritti dell'Infanzia, articoli 5, 18 e 27,2). Gli Stati devono riconoscere che la famiglia, basata sul matrimonio come rapporto paritario fra un uomo e una donna, e unità fondamentale e naturale della società, è indispensabile nella lotta contro l'Hiv e l'Aids perché è nella famiglia che i figli apprendono valori morali che li aiutano a vivere in un modo responsabile e ricevono la maggior parte della cura e del sostegno (cfr. Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, articolo 16,3). La Santa Sede non condivide i riferimenti a espressioni quali "popolazioni a rischio" e "popolazioni ad alto rischio" perché trattano le persone come oggetti e possono suscitare l'impressione falsa che certi tipi di comportamento irresponsabile siano in qualche modo moralmente accettabili. La Santa Sede non approva l'uso di profilattici come parte dei programmi di prevenzione dell'Hiv e dell'Aids né di programmi/corsi di educazione sessuale. I programmi di prevenzione o di educazione alla sessualità umana dovrebbero concentrarsi non sul cercare di convincere che comportamenti rischiosi e pericolosi facciano parte di uno stile di vita accettabile, ma, piuttosto, dovrebbero concentrarsi sull'evitare i rischi, il che è eticamente ed empiricamente sano. L'unico metodo sicuro e completamente affidabile per prevenire la trasmissione sessuale dell'Hiv è costituito dall'astinenza prima del matrimonio e dal rispetto e dalla fedeltà reciproci nel matrimonio, che è e deve essere sempre il fondamento di qualsiasi dibattito sulla prevenzione e sul sostegno. La Santa Sede non accetta i cosiddetti sforzi di "riduzione del danno" in relazione all'uso di stupefacenti. Questi sforzi non rispettano la dignità di quanti soffrono a causa della tossicodipendenza perché non curano né guariscono le persone malate, ma anzi inducono erroneamente a credere che non possono liberarsi dal circolo vizioso della dipendenza. A queste persone bisogna offrire il necessario sostegno familiare, psicologico e spirituale per liberarsi dal comportamento di dipendenza e poter così ripristinare la loro dignità e incoraggiare l'integrazione sociale. Durante i negoziati, la Santa Sede si è detta contraria a che le persone che esercitano la prostituzione siano definite "lavoratori del sesso" perché ciò suscita l'impressione erronea che la prostituzione possa, in un certo qual modo, essere una forma legittima di lavoro. La prostituzione non può essere separata dalla questione dello status e della dignità delle persone. I governi e la società non devono accettare questa disumanizzazione e cosificazione delle persone. È necessaria una modalità basata su valori per combattere le malattie dell'Hiv e dell'Aids, una modalità che offra la sollecitudine e il sostegno morale necessari per quanti sono infetti e che promuova un'esistenza da vivere in conformità con le norme dell'ordine morale naturale, una modalità che rispetti appieno la dignità intrinseca della persona umana. (©L'Osservatore Romano 17 giugno 2011)