«La speranza abita il cuore di ogni uomo»
Amos Oz non si stupisce quando gli si chiede di parlare della speranza. È il grande tema dei suoi libri, tra cui spicca il capolavoro Una storia d’amore e di tenebra, autobiografica cronistoria di una famiglia che riesce a sopravvivere perfino al dolore più grande, quello causato dal suicidio della madre. E la speranza è anche la parola d’ordine di Israele, lo Stato in cui il giovane Amos si è formato, tra il cortile di Karem Avraham (il quartiere di Gerusalemme che fa da sfondo a gran parte della sua produzione) e il kibbutz, dove per un un lungo periodo ha continuato a servire nonostante la sua fama di romanziere fosse in continua crescita. Ora, all’età di 72 anni, è considerato uno degli autori più importanti del suo Paese, un intellettuale molto ascoltato in patria e all’estero. Anche in questo, ha tenuto fede alla determinazione con cui, poco più che adolescente, decise di rinunciare al cognome paterno, Klausner, per assumere quello di Oz, il termine ebraico per “forza”. La speranza, per lui, coincide con l’atto stesso della scrittura. Anzi, con il momento che la precede immediatamente, quando ci si siede alla scrivania, si accende la lampada e si cerca di fare chiarezza dentro di sé. «Ogni storia è basata sulla speranza – ribadisce al telefono dalla sua casa di Arad, nel deserto del Negev. – Non importa quanto possa apparire pessimista, malinconica o addirittura disperata. Chi la racconta si aspetta comunque che ci sia qualcuno in ascolto, un altro disposto a leggere e a creare così un legame di condivisione. Scrivere è un atto di speranza e la speranza è una necessità umana elementare, irrinunciabile».
Crede che questa sua convinzione sia in qualche modo influenzata dal fatto di essere nato e cresciuto in Israele?
«Certo, Israele è un Paese che nasce dai sogni e dalla speranza. Anche in questo caso, è esistito nei libri prima di esistere nella realtà. Prenda le opere di Theodor Herzl, uno dei padri del sionismo. Un suo romanzo del 1902, Altneuland, descrive uno Stato ebraico che, all’epoca, appariva del tutto ipotetico, E la stessa Tel Aviv, prima ancora di essere una città reale, è stata romanzescamente immaginata da Herzl. Tutto quello che oggi appartiene all’orizzonte quotidiano degli israeliani si è manifestato inizialmente come sogno e come oggetto di speranza. Proprio per questo, però, il nostro Paese ha richiesto scelte molto pragmatiche, talvolta drastiche. Tra speranza e realismo il legame è strettissimo, inscindibile».
Il realismo impedisce oggi una soluzione del conflitto palestinese?
«Al contrario, direi: il realismo imporrebbe semmai di accelerare una decisione che in questo momento appare più visibile e possibile di quanto lo fosse in passato».
Si riferisce alla divisione in due Stati distinti, uno per gli ebrei e uno per gli arabi?
«Certo, è un compromesso che in questo momento incontrerebbe larghissimo consenso. Tutto dipende dalle decisioni che verranno prese a livello politico. Diciamo così: il paziente è pronto per l’intervento, ma i medici sono troppo spaventati per eseguirlo».
In alcuni suoi libri, come nel «Monte del Cattivo Consiglio», da poco tradotto in italiano, domina un sentimento di attesa, addirittura di incertezza. Anche questo ha a che vedere con la speranza?
«Vede, le storie raccolte nel Monte del Cattivo Consiglio , sono ambientate in un periodo storico molto preciso, il biennio 1946-1947. Subito dopo la Shoah, subito prima della nascita dello Stato ebraico. Un periodo di grande incertezza, ma anche di fortissime aspettative. Mi ricordo bene una battuta che circolava a quell’epoca: “In Israele, si diceva, se non credi nei miracoli, significa che non sei abbastanza realista”. La penso ancora così».
Fino a non molto tempo fa Israele e il Medio Oriente erano considerati una zona a rischio sulla scena internazionale. L’Occidente si sentiva al sicuro da sostanziali minacce. Poi è venuto l’11 settembre, è venuta la crisi economica. E adesso come la mettiamo?
«Le ricorda anche lei le previsioni sulla “fine della storia”, vero? Circolava la convinzione che l’Occidente avesse ormai ottenuto tutto quello che desiderava. Da lì in poi, si sosteneva, il futuro sarebbe stato stabile, privo di sorprese. Non è andata così, ora possiamo dire che si è trattato di una previsione clamorosamente sbagliata. Nello stesso modo, tuttavia, ci rendiamo conto di quanto sia tornata ad esserci cara la speranza. Non è una virtù per tempi tranquilli, ma è l’unica virtù di cui abbiamo necessità assoluta nelle epoche di instabilità e incertezza, come questa che stiamo vivendo».
Ma in epoche come la nostra anche la paura rischia di avere il sopravvento…
«La paura è soltanto l’altra faccia della medaglia, per questo non va temuta troppo. Speranza e paura sono separate da una linea sottilissima, ma per fortuna ciascuno di noi può decidere da che parte stare».
Come?
«Rispondendo a una domanda molto semplice: io che cosa posso fare? La responsabilità individuale è il primo dei due pilastri su cui poggia la speranza».
E l’altro qual è?
«La solidarietà sociale, che personalmente ho sempre considerato come la vera “terza via” tra il darwinismo economico del capitalismo e il totalitarismo ideologico del comunismo. In questi tempi di crisi economica, occorrerebbe un ripensamento a livello internazionale sui parametri di una nuova solidarietà. Sarebbe una prova di grande concretezza e, quindi, un coraggioso atto di speranza».
Per i cristiani la speranza è una virtù teologale: pensa che occorra un atteggiamento religioso per praticarla?
«Considero la speranza un elemento universale, che precede il manifestarsi storico delle religioni. Sono convinto che anche l’uomo di Neanderthal, nelle sue caverne, coltivasse un sentimento di speranza. È un atteggiamento che attraversa tutta l’esperienza umana, fin dall’alba della storia».
Lei si è occupato spesso del tema del fondamentalismo: lo considera ancora un pericolo?
«Penso che sia la più grande sfida che il XXI secolo è chiamato ad affrontare. Ma attenzione, sarebbe un errore ritenere che esista soltanto il fondamentalismo religioso. Se ci guardiamo attorno, ci rendiamo conto che sono in atto derive fondamentaliste in senso nazionalista e addirittura in senso ambientalista. L’importante è che ciascuno di noi impari a riconoscere e a contrastare il fondamentalista che cova dentro di sé. In questo senso, lo ripeto, la speranza si basa anzitutto sulla responsabilità individuale ».
Molti suoi libri narrano storie di famiglia: è lì che si può imparare la speranza?
«In famiglia si impara tutto. Meglio, la famiglia è una buona scuola per qualsiasi materia. Per la speranza, ma anche per la disperazione. È il microcosmo della vita umana, oltre che il tema centrale della letteratura. Vede, se mi chiedessero di sintetizzare in una sola parola l’argomento dei miei libri, risponderei con “famiglie”. Se me ne concedessero due, invece, direi “famiglie infelici” ».
E se le parole fossero tre?
Qui Amoz Oz fa una pausa, poi scandisce in inglese: Read my books (“Leggete i miei libri”). E questo, giochi di parole a parte, rimane un ottimo consiglio.