L’amore che supera ogni barriera. Il sì all’altare di due ragazzi Down

Lorena e Simone si scambiano gli anelli durante il rito nuziale

Il loro amore ha resistito alle distanze, ai viaggi Bergamo-Roma e viceversa, a tante difficoltà. E finalmente sabato 3 giugno Lorena Chiesa e Simone Sciarrini, entrambi nati con trisomia 21, hanno detto il loro sì nella parrocchia di Sant’Alessandro a Villongo, nella Bergamasca, dopo qualche anno di vita condivisa nella mansarda della casa di Lorena. Che ha avuto come testimone l’attore Alessio Boni, originario di Sarnico, paese a neppure cinque chilometri da Villongo. Lui aveva promesso alla mamma di Lorena, Liliana Ducci, che avrebbe onorato questo impegno quando la ragazza aveva appena 7 anni. Ora ne ha 31 e lo scorso 21 marzo, Giornata mondiale delle persone con Sindrome di Down, aveva scritto in un post sul suo profilo Facebook: «L’amore non ha differenze», cogliendo l’occasione per annunciare le nozze con Simone. «Realizzeremo il nostro sogno d’amore», aveva aggiunto. Un sentimento consolidato e cresciuto negli anni: si erano conosciuti all’ostello In& Out di Barcellona nel 2010, durante un tirocinio lavorativo di tre settimane organizzato dall’Aipd (Associazione italiana persone down) nell’ambito del progetto europeo “Metteteci alla prova!”.

Galeotti furono gli sguardi: da allora la relazione non si è mai interrotta. « Lorena in precedenza aveva un altro ragazzo, che però non era certo dei suoi sentimenti. Invece Simone la chiamava ogni giorno per sapere come stava », ricorda la mamma Liliana. I due passano a lunghe videochia-mate quotidiane su Skype, ma il desiderio di rivedersi era forte: «Si vedeva che ci tenevano a continuare seriamente. Così abbiamo accompagnato Lorena a Roma per incontrare lui, che ha 7 anni più di lei, e conoscere la sua famiglia. Una volta rientrati a casa, non sapevamo come gestire la distanza. Visto che loro volevamo continuare a tutti i costi la loro storia, hanno imparato a viaggiare da soli in treno. Come genitori eravamo un po’ titubanti e anche preoccupati, pensavamo che si sarebbero stancati a motivo di tante difficoltà: invece non si sono più lasciati », dice con gioia Liliana, che ha accompagnato i neo-sposi in viaggio di nozze.

La crociera con giro delle isole greche si conclude proprio oggi e «loro sono felicissimi. Sulla nave hanno ricevuto tanti complimenti. Certo, non è facile orientarsi in un posto nuovo e molto vasto, ma Lorena mastica qualcosa d’inglese e sa dire il numero della sua cabina. Se hanno problemi, chiedono informazioni e per loro è una soddisfazione raggiungere da soli i loro obiettivi. Li lascio liberi anche di sbagliare e soprattutto di trovare le loro soluzioni, magari diverse dalle nostre. A volte noi mamme mettiamo paletti per le nostre paure, ma quando vediamo i figli felici lo siamo anche noi», osserva Liliana. Che ha visto giorno dopo giorno la maturazione di sua figlia e della coppia nell’autonomia e nella relazione: «Ci hanno messo tantissimo impegno. Quando lei di mattina è al lavoro come socio occupazionale in pasticceria, lui l’aiuta in casa, fa i letti e le pulizie. Hanno trovato un buon equilibrio a livello affettivo e pratico; fanno anche volontariato presso il bar dell’oratorio parrocchiale. Con i consuoceri collaboriamo e ci confrontiamo, ma sempre in punta di piedi».

Il primo messaggio che Lorena e Simone lanciano con la loro esperienza? «L’amore supera ogni barriera e confine. Spero anche in un cambiamento di mentalità: non dovrebbe essere strano o tabù che due persone con la sindrome di Down si sposino. Noi ci siamo accodati a credere insieme a loro in questo sogno, reso possibile perché sono stati accompagnati non solo dalle loro famiglie, ma da associazioni e tante persone che hanno contribuito a questa crescita nell’autonomia e nell’amore», sottolinea la mamma di Lorena. Dal titolare della pasticceria al maestro di ballo: sì, perché Simone ha condiviso la passione per la danza della sua dolce metà e insieme gareggiano per la Dance Academy Asd, raggiungendo il titolo di campioni italiani come coppia nel merengue e nel latinoamericano. Lo scorso 1° ottobre si sono anche esibiti con un passo a due di merengue durante la trasmissione televisiva “Tú sí que vales”.

« I genitori di Lorena e Simone hanno creduto fermamente in loro, li hanno presi sul serio e trattati da adulti, com’era giusto che fosse. Non hanno liquidato il loro amore come un gioco di bambini, come purtroppo a volte accade, ma hanno sostenuto il loro sogno fino a vederlo realizzato. La loro storia parla molto di autodeterminazione, che può realizzarsi solo se la rete intorno alle persone con disabilità, in particolare intellettiva, partecipa e si mette a disposizione per il suo compimento », ha dichiarato in occasione del matrimonio Gianfranco Salbini, presidente di Aipd nazionale, ricordando all’ultima assemblea dei soci una delegazione di persone con trisomia 21 ha portato all’attenzione di tutta l’associazione una mozione «in cui è stato esplicitamente richiesto il sostegno degli operatori e delle famiglie per la realizzazione delle loro esigenze, messe nero su bianco con grande consapevolezza. Insomma, le persone con sindrome di Down sono pronte a mettersi in gioco, tocca a noi tutti sempre di più fare la nostra parte e sostenerle perché questo accada».

COSA DICE LA CHIESA – PADRE MARCO VIANELLI (CEI)

«Nessun ostacolo per queste persone, ma…»

«Non c’è nessun ostacolo di tipo pastorale da parte della Chiesa per la celebrazione di un matrimonio tra persone con sindrome di Down, a patto che il percorso di preparazione sia stato fatto in modo serio, con l’obiettivo di far comprendere per quanto possibile a questi giovani il significato del sacramento», osserva padre Marco Vianelli, direttore dell’Ufficio nazionale Cei per la pastorale della famiglia. «Sono certo che il parroco che ha accompagnato questi ragazzi al matrimonio si sia fatto tutte le domande del caso e abbia cercato di accogliere il loro desiderio sollecitandone il discernimento nel rispetto della loro sensibilità», osserva ancora padre Vianelli che è anche un esperto di diritto canonico. Va anche detto che ogni situazione va considerata in modo specifico, secondo quanto insegna Amoris laetitia, e che non va sottovalutato il significato positivo che assume per la comunità il cammino tenace di questi due ragazzi «che ora – conclude il direttore dell’Ufficio famiglia – non dovranno essere lasciati soli». (L.Mo.)

Lo ha ribadito Patrizia Danesi, coordinatrice di Aipd nazionale, evidenziando che le nozze di Lorena e Simone sono diventate una notizia sui media proprio perché «non si è ancora affermata l’idea che le persone con sindrome di Down possano, vogliano e sappiano avere una vita affettiva piena e costruire una relazione profonda e duratura. La nostra associazione lo sperimenta ogni giorno, tanto che da anni promuove e propone percorsi di educazione all’affettività ed esperienze di autonomia per ragazzi e ragazze con sindrome di Down. Lorena e Simone non sono la prima coppia che nasce e cresce all’interno dell’Aipd e che costruisce una vita matrimoniale: i romani Marta e Mauro sono sposati da più di otto anni e altre coppie stanno pensando di sposarsi. Non dovrebbe fare notizia, ma essere la quotidianità».
avvenire.it

ARTE E SACRO L’energia della sintesi: solo così l’altare è unico

Identificare il termine sintesi con una categoria statica è un rischio agevolato dalla nostra tentazione di individuare dei punti fermi cui ancorarci per limitare le fatiche derivanti dalla gestione del libero arbitrio. Questa interpretazione dà corpo al fatidico e del tutto ipotetico punto d’arrivo di composizione ordinata e riassuntiva della complessità, di cui la sintesi rappresenta l’agognato packaging finale. Ho fatto una sintesi, cioè sono riuscito a trovare una ridefinizione compressa e schematica di istanze articolate e dispersive, non di rado confliggenti, che impedivano un prodotto finito e soprattutto contingentabile. Che siano pensiero, forme, gesti o eventi non importa, il meccanismo è identico.

Questa, ne sono convinto, è l’accezione più diffusa della sintesi.

Io la penso in modo del tutto opposto. Quel prodotto finito, quella idea di risoluzione che finalmente se ne sta buona lì in un angolo, non è sintesi. È un surrogato che confonde la riflessione per un comodino abbastanza stabile per appoggiarci le cose. Un artefatto che mi riporta in modo preciso dentro le tematiche dell’arte e del sacro, in cui spesso assistiamo a esercizi di stile venduti per significato, del tutto intercambiabili con un qualsiasi tipo di arredo, da supermercato o design non fa differenza. Inutile dichiarare concetti di ogni sorta quando la forma proposta come sintesi è in realtà l’assemblaggio di un armamentario privo di spinta vitale.

Sintesi è tutt’altro. Sintesi è il concretizzarsi più radicale di una dinamica generativa caratterizzata da un costante flusso reciproco di espansione eccentrica e condensazione concentrica. È espansiva in quanto produce nuove entità a partire da elementi preesistenti e la complicità di eventuali catalizzatori. Attraverso il processo di sintesi l’esistente si espande in forme nuove e al tempo stesso profondamente legate a ciò che le precede, da cui traggono nutrimento ma, elemento fondamenta-le, da cui si differenziano in modo definitivo. La sintesi in questa accezione ha un valore quasi magico, sempre stupefacente e destabilizzante; basti pensare a fenomeni come la fotosintesi clorofilliana che, utilizzando prodotti di scarto dell’uomo come l’anidride carbonica, genera il proprio nutrimento restituendo ossigeno, prezioso per proprio per l’uomo. Il dato della circolarità è chiaro, come anche quello della trasformazione continua. L’aspetto concentrico della sintesi non si deve intendere come riduttivo e semplificativo. È una sorta di fusione che sacrifica elementi corollari. Questo è già evidente nella accezione hegeliana in cui la sintesi che segue a tesi e antitesi consiste in un superamento che risolve le opposizioni generando una terza entità: non una replicazione delle due precedenti né la loro pedissequa somma algebrica. L’unità formale che deriva da questo processo è dialogica, dinamica, evolutiva: mai statica.

Tornando al sacro, se anche tutti i percorsi formali e simbolici che lo caratterizzano dovrebbero essere permeati da una elaborazione simbolica di questo tipo, ve ne è uno che riassume in sé tutte le tematiche al riguardo. Neanche a dirlo, questo è l’altare, della cui fecondità non finisco mai di stupirmi.

L’altare è la rappresentazione fenomenologica perfetta della sintesi. O così, perlomeno, dovrebbe essere. In realtà molto spesso viene confuso con una stagnazione monolitica o disgregata che di sintetico, dialogico, vitale, non ha nulla. Mi trovo a confrontarmi spesso con una mentalità secondo cui l’altare, che significa fede, che significa idea di relazione con il significato, dovrebbe essere la monade risolutiva e impenetrabile in cui trionfa quella che chiamerei fede dal carattere euclideo, una fede rigorosamente ortogonale e profondamente immobile. È sorprendente trovarsi a discutere nel 2021 di concetti di statica che forse non erano presi come assoluti neanche da un Neanderthal. Oggi abbiamo la fisica quantistica, le matematiche non euclidee da almeno un paio di secoli di svolta gaussiana, abbiamo in definitiva la perfetta constatazione di come stasi e stabilità siano termini dinamici. Eppure, niente. La tentazione di fissare ogni cosa secondo parametri del tutto soggettivi e funzionali a una esistenza da non mettere mai in discussione, soprattutto nelle proprie acquisizioni di posizione, impedisce di comprendere e accettare lo stesso concetto di dinamica, trasformando l’idea di altare in un evento irreale, distante, sostanzialmente antiumano. Di fatto ideologico, di quella idea di cui si nutre con voracità la mentalità accademica.

Il processo sintetico di cui l’altare dovrebbe essere simbolo è la dinamica stessa del percorso liturgico, architettonico e assembleare della chiesa. Voglio spingermi oltre in questo parallelo tra sintesi e altare. Entrambi non sono monadi, ma non basta. Allo stesso modo non sono organismi analitici, articolati in contrappunti il cui dinamismo disarticola l’unitarietà che dovrebbe caratterizzarli. Sintesi-altare non sono sinonimi di semplicità, stasi, giustapposizioni analitiche. Sono un processo sempre misterioso che fa della complessità il corpo unico di un evento originale.

In questi mesi sto lavorando al disegno di un altare che appare sbilanciato ma in realtà è perfettamente solido, centrato, simmetrico. La struttura è ottenuta dalla trasformazione dell’impianto della chiesa per il quale è pensato (un edificio che si presenta come cubo ruotato di 45 gradi) attraverso una torsione che arriva al quadrato “risolto” della mensa che abbraccia l’ara. Una forma fluida, complessa: sintetica. Questo rappresenta perfettamente quella che definisco “solidità dinamica”. Un altare assolutamente stabile anche se girandogli intorno sembra quasi sbilanciarsi? Ma se il “succo” della cristianità non fosse sbilanciato verso di noi, per noi sarebbe come morto.

La sintesi e l’altare, quindi, portano con sé anche un aspetto di meraviglia. Pur generati inevitabilente all’interno di un contesto, non provengono da un metodo applicato in maniera meccanica. Ogni sintesi, così come ogni altare, ha il suo metodo specifico, non ripetibile, prezioso. Ogni sintesi, così come ogni altare, deve portare in sé il più grande dono e la più grande responsabilità che abbiamo in eredità dalla nostra storia e nella nostra storia. Quel dono è l’identità, la nostra, non quella di altri, lo scrigno dove possiamo raccogliere tutti i tesori e tutte le nefandezze possibili a seconda della sintesi che operiamo sulla nostra giornata. Quella che ha un inizio e che non avrà più fine.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Sintesi non è riduzione, ma il concretizzarsi radicale di un processo fluido e generativo L’altare è la dinamica stessa del percorso liturgico e architettonico della chiesa. Entrambi sono un processo misterioso che fa della complessità il corpo di un evento originale

Raul Gabriel, progetto di altare / Courtesy dell’artista

L’Altare, storia e valore

Jan van Eyck «Polittico dell’Agnello mistico» (particolare)

Di etimologia incerta (dal latino altus, elevato, ma anche da adolere, ardere, allusivo al fuoco che consuma la vittima), l’altare è il luogo dove viene offerto il sacrificio. Fatto di pietra, presso greci e romani aveva dimensioni ridotte senza escluderne di più ampie, come l’ara pacis di Augusto. Nell’economia cultuale del popolo ebraico rivestiva un ruolo preciso: pensiamo all’altare eretto da Noè (Gen 8, 20), da Abramo (Gen 12, 7; 13, 18), da Isacco (Gen 26, 25); Mosè lo innalzò per suggellarvi col sangue l’alleanza sinaitica (Es 24); nel tempio di Gerusalemme l’altare era il luogo cultuale per eccellenza.

Dati storici

I cristiani dei primi secoli, coscienti della novità del cristianesimo, hanno preso le distanze dall’idea ebraica e pagana dell’altare: «Ara et delubra non habemus» diceva Minucio Felice (Octavius 32), significando così la peculiarità del culto «in spirito e verità» (Gv 4, 23) inaugurato da Cristo, vero altare, sacrificio, sacerdote e tempio dell’eterna alleanza tra Dio e uomo.

Nella “domus ecclesiae” il pane e il vino per il sacrificio eucaristico erano posti su una tavola mobile di legno (come il tripode, comune nelle case romane, raffigurato nella cappella dei sacramenti nel cimitero di Callisto): tale mensa ha valore di altare, essendo l’Eucaristia un convito sacrificale, modellato sull’Ultima Cena; spiegando la comunione al sacrificio di Cristo san Paolo parla infatti di «mensa Domini» (1Cor 10, 21).

Con l’avvento delle basiliche, nel secolo IV, compare in esse l’altare fisso, di pietra o metallo prezioso: san Pier Crisologo commenta che «commutantur in ecclesias delubra, in altaria vertentur arae» (Sermo 51). All’adozione dell’altare lapideo non fu estraneo il simbolo biblico di Cristo «pietra angolare dell’edificio spirituale» (cf. Sal 117, 22; Mt 21, 42; At 4, 11; 1Cor 10, 4; 1Pt 2, 4-8). Contribuì anche l’uso di celebrare l’Eucaristia sulle tombe dei martiri, i “confessori” della fede: la visione giovannea di Ap 6, 9 («Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo, vidi sotto l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano reso»), trovò infatti concreta traduzione sia nella costruzione di altari sopra i sepolcri dei martiri, sia nella traslazione delle loro reliquie sotto gli altari delle nuove basiliche. Al riguardo sant’Ambrogio scrive: «Nel luogo in cui Cristo è vittima, vi siano anche le vittime trionfali. Sopra l’altare lui, che è morto per tutti; questi, redenti dalla sua passione, sotto l’altare» (Epistula 22, 13: pl 16, 1023).

Nel v-vi secolo l’altare, posto anche sotto un ciborio per rimarcarne l’importanza nello spazio basilicale, si presenta in tre forme: una lastra di marmo sostenuta da un pilastro centrale o da colonnine ai quattro angoli (l’altare in san Vitale a Ravenna, raffigurato anche nei mosaici del presbiterio); un cubo vuoto, al cui interno sono poste le reliquie, visibili e accessibili per deporvi fazzoletti o indumenti tramite la «fenestrella confessionis», ossia una grata o porticina; un blocco squadrato di pietra, innalzato sopra il sepolcro del martire (confessio), al quale si accedeva mediante una scala. Nelle basiliche romane di San Pietro e di San Paolo l’altare, eretto sopra la tomba dell’apostolo martire, è ancora oggi chiamato della «confessione».

Di dimensioni ridotte, fino al secolo IX l’altare si ergeva al centro dell’abside sul pavimento a capo della navata (come nelle antiche basiliche), oppure su un piano rialzato. Dal secolo vi cominciò a disattendersi l’antica norma di «un solo altare» e di «una sola messa» in ogni chiesa, a motivo del crescente numero di sacerdoti e della moltiplicazione di messe, specie di suffragio per i defunti.

Dal secolo IX, l’uso di porre le reliquie dei santi sulla mensa dell’altare come di elevare, dietro a esso, l’urna di un santo, lo trasformano in altare reliquiario. Poiché non tutte le chiese disponevano di reliquie insigni, si diffuse l’uso dell’altare a dossale, sul quale sono raffigurati Cristo, Maria, i santi patroni. Progressivamente la pala si sviluppa in elaborate costruzioni, fino a giungere all’altare monumento, che sarà addossato al fondo dell’abside. In Spagna sono famosi i retablos, ossia elevate pareti in legno policromo istoriato, dapprima intorno ai misteri della vita di Cristo e poi a glorificazione di un santo, specie nel barocco. Si assiste così a uno spostamento d’accento: le immagini non sono più un accessorio dell’altare, ma è la mensa dell’altare a risultare un accessorio del complesso monumentale. Ne consegue che la mensa del sacrificio eucaristico non attira più l’attenzione dei fedeli, perché visivamente è più importante l’urna del santo o l’immagine che la sovrasta; scompare il ciborio; lungo le pareti della chiesa o in cappelle vi sono gli altari laterali o minori, in onore della Vergine e dei santi, a seconda delle devozioni. L’idea dell’unicità è tuttavia custodita dall’altare maggiore.

Ulteriore fase evolutiva è la collocazione del tabernacolo al centro della mensa dell’altare. Il primo sostenitore fu il vescovo di Verona, Matteo Giberti (+ 1543). A Milano, ne fu convinto assertore san Carlo Borromeo. Il Rituale di Paolo V (1614) lo prescriveva a Roma e lo raccomandava alle altre diocesi. Nel secolo XVIII, quest’uso era universalmente seguito — eccetto nelle cattedrali che spesso seguivano la prassi antica — fino a sviluppare l’altare tabernacolo. Non sempre però il tabernacolo e, al di sopra, il luogo della solenne esposizione del Santissimo Sacramento (espressione manifesta di fede nella presenza reale contro i negatori di essa) mantennero la giusta proporzione in rapporto alla mensa dell’altare. La riforma liturgica seguita al Concilio Vaticano II ha inteso restituire all’altare il suo significato liturgico.

Valore simbolico-celebrativo

Tra i luoghi di una chiesa — ambone, sede, battistero, tabernacolo — solo l’altare conosce un rito di dedicazione, a sottolinearne l’eccellenza: «L’altare, sul quale si rende presente nei segni sacramentali il sacrificio della croce, è anche la mensa del Signore, alla quale il popolo di Dio è chiamato a partecipare quando è convocato per la Messa; l’altare è il centro dell’azione di grazie che si compie con l’Eucaristia» (Institutio generalis Missalis Romani, 296). Perciò, come ha ricordato Papa Francesco, «verso l’altare si orienta lo sguardo degli oranti, sacerdote e fedeli, convocati per la santa assemblea intorno ad esso» (Discorso del 24 agosto 2017).

Il suo valore è espresso anche dai riti che, nella dedicazione, ne esplicitano il simbolismo: l’unzione con il crisma, l’incensazione, l’illuminazione; stendendovi la tovaglia, il nuovo altare è preparato quale mensa del sacrificio: lì ci si nutre del Pane della vita e ci si disseta al Calice della salvezza; lì risplende e da lì si diffonde la luce che illumina i commensali e i familiari di Dio, perché a loro volta siano luce del mondo.

Lo rammenta il Catechismo della Chiesa Cattolica: «L’altare, attorno al quale la Chiesa è riunita nella celebrazione dell’Eucaristia, rappresenta i due aspetti di uno stesso mistero: l’altare del sacrificio e la mensa del Signore, e tanto più in quanto l’altare cristiano è il simbolo di Cristo stesso, presente sia come vittima offerta per la nostra riconciliazione, sia come alimento celeste che si dona a noi» (n. 1383).

Si chiede che in chiesa si costruisca un solo altare, staccato dalla parete per potervi girare attorno e celebrare verso il popolo, e collocato in modo da attirare l’attenzione; sia normalmente fisso e dedicato, con la mensa di pietra (non è esclusa altra materia degna, solida e ben lavorata); sotto l’altare si possono porre reliquie di santi; sia coperto da una tovaglia e sopra o accanto a esso vi siano una croce e i candelieri (cf. Institutio generalis Missalis Romani, 298-308).

La venerazione per l’altare (si bacia, lo si incensa, davanti a esso ci si inchina) è motivata dal suo legame col sacrificio di Cristo, al quale nel sacramento si associa il sacrificio della Chiesa orante. Segno di Cristo e vincolo di comunione con lui è il santo altare: su di esso viene deposta l’offerta spirituale dei fedeli, significata nel pane e nel vino, perché lo Spirito Santo, per il ministero del sacerdote, li renda sacramento del corpo e sangue di Cristo, così che quanti se ne nutrono diventino un solo corpo in Cristo, a lode di Dio Padre. Lo esprime in preghiera il prefazio della messa di dedicazione: «Intorno a quest’altare ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio per formare la tua Chiesa una e santa».

Sull’altare si depone anche l’Evangeliario. Davanti all’altare si compiono i riti di ordinazione (nel rito bizantino il candidato pone il capo sull’altare), il matrimonio, la professione religiosa, la consacrazione della verginità, e nelle esequie si depone la bara del defunto. Nella liturgia delle Lodi e del Vespro, estensione della lode eucaristica alle ore cardine del giorno, l’altare può essere incensato.

Sempre, anche al di fuori dell’azione liturgica, l’altare è invocazione e attesa della presenza di Colui che fa nuove tutte le cose (cf. Ap 21, 5).

di Corrado Maggioni / Osservatore Romano