Sulla domanda di salute l’ombra del determinismo biologico

 MICHELE ARAMINI

Comprare un kit per l’analisi del patrimonio genetico di una persona si accinge a diventare alla portata di tutti. Le aziende farmaceutiche hanno fiutato l’affare, tanto che presto potremmo avere test semplici da usare e con un costo moderato. Il loro scopo è l’accertamento della paternità, ma soprattutto la scoperta di eventuali predisposizioni a malattie che hanno una componente genetica. Nel giro di qualche anno potremmo assistere al dilagare dell’uso di simili test genetici fai-da-te. Cosa pensare di questo scenario ormai alle porte? L’aspetto più incoraggiante dell’ingegneria genetica è la possibilità di curare molte malattie attraverso la terapia genica. Il «progetto genoma» allarga il campo della diagnosi e affina le capacità predittive della medicina. Negli ultimi vent’anni il numero delle malattie rilevabili con i test genetici è passato da cento a quasi duemila. L’etica medica, basandosi sul principio terapeutico, considera lecito anche lo scopo diagnostico che mira all’accertamento di un’eventuale malattia genetica. Quindi la diagnosi genetica, operata al di fuori e a prescindere dalla fecondazione in vitro, è non solo lecita ma anche moralmente obbligatoria. Basti pensare alle possibilità di prevenire e curare certe malattie gravi e diffuse come il diabete per capire le possibilità benefiche dell’indagine su base genetica. Esiste però anche un risvolto problematico. Infatti la capacità diagnostica della genetica pone anche una serie di problemi tutt’altro che secondari, a cominciare dall’interpretazione dei dati. Normalmente occorre essere specialisti per avere la capacità di una corretta lettura dei risultati: perfino i medici di famiglia non sono in grado di valutarli con precisione. Gravi potrebbero essere i danni da auto-interpretazione dei test. In secondo luogo è bene porsi una domanda: se per mezzo di simili test ognuno di noi potrà conoscere il suo destino genetico, sarà anche possibile intervenire terapeuticamente per ovviare alle malattie previste? Purtroppo rispetto alla capacità di diagnosi esiste una forbice ineliminabile. Come si vivrà allora sapendo di poter sviluppare (con molta probabilità, ma non certamente) la tale o talaltra malattia, magari mortale, entro un certo tempo? Si dovrà invocare il diritto a non saperlo? E sarà possibile, nel proliferare dei test alla portata di tutti, realizzare tale diritto? Ma c’è un aspetto che in prospettiva è ancora più preoccupante: la diagnosi sugli embrioni con la conseguente deriva eugenetica. Se i test genetici diventeranno prodotti di routine, anche il tenue rispetto che ancora protegge gli embrioni potrebbe venir meno. Infatti, non si può nascondere che uno dei risultati delle diagnosi prenatali è la sollecitazione all’aborto. Ciò che merita attenzione in questa prassi è l’attuazione dell’idea che siano le buone condizioni di salute a conferire valore all’essere umano. Per cui meritano di vivere solo le persone sane, mentre è meglio non far nascere quelle che hanno difetti genetici. Abbiamo qui l’espressione chiara della fallacia del determinismo genetico, che consiste nel supporre che siano i geni a ‘fare’ la persona, e se alcuni geni non sono perfetti la persona perde il suo valore. Si tratta di una visione riduttiva della natura umana, espressione di una logica utilitarista ed evoluzionistica oggi dilagante preoccupata solo di ridurre i costi sociali e di aumentare la purezza genetica della popolazione.

avvenire 22 agosto 2010