Storie di preti di periferia. Don Guido, il vescovo che vuol stare in parrocchia

Beata Vergine alle Grazie, una grande chiesa alla Crocetta. Pier Giorgio Frassati crebbe qui. Centro storico, 16mila parrocchiani per Guido Fiandino, 74 anni. In verità, Fiandino è vescovo: ausiliare di Torino, dal 2002. Ma, dopo una vita passata nelle parrocchie della periferia torinese, ha chiesto, pur restando vescovo, di poter anche tornare a fare il curato. Nella storia della Chiesa torinese non è il primo caso; però è un fatto molto raro, e incuriosisce la vicenda umana di questo monsignore, che alla Crocetta tutti chiamano ‘don Guido’. Alto, robusto, il vescovo parroco, se così possiamo chiamarlo, ha una di quelle facce buone di cui la gente si fida istintivamente. Nato a Savigliano, nel Cuneese, figlio di contadini. Cresciuto in un chiabotto, una fattoria da 12 giornate di terreno, con la stalla e le bestie. Il cristianesimo imparato per osmosi: la madre manda i figli a portare il pane ai poveri, e la stalla è aperta, di notte, e c’è un pagliericcio per chi non ha un tetto. «Un giorno – racconta Fiandino – ho visto mio padre che mungeva le vacche e parlava da solo. Ma con chi parli, gli ho chiesto. E lui, brusco: ‘Zitto, sto pregando’. Così ho imparato che è possibile pregare in ogni momento».

Cristiani come forse non ne fabbricano più, pensi guardando quest’uomo, della generazione di preti che andava in Seminario a 12 anni, e a 23 diceva Messa. Come scoprì la vocazione? Fiandino sorride: «Un giorno da bambino, come per scherzo, il mio parroco mi mise la sua berretta sulla testa e mi disse: tu sarai prete. Io, non ci pensavo affatto. Eppure quella frase cominciò a lavorare in me. I sacerdoti che conoscevo mi parevano uomini felici. Volevo essere come loro».

La prima parrocchia a Pianezza, nella cintura torinese. Anni ’60, già sono arrivati i primi immigrati dal Veneto. «Il mio parroco mi incaricò di dedicarmi interamente all’oratorio. Fu un’intuizione felice. Ci vivevo, in oratorio. Dalla scuola comunale mi mandavano, per punizione, i ragazzi difficili. Facevamo amicizia, e ritornavano. Quanti ne ho visti rimettersi in strada, trovare un lavoro, sposarsi, avere figli. Oggi sono nonni. E posso testimoniare che, davvero, ho centinaia di figli; che la promessa si avvera, che io ho avuto il centuplo in figli, fratelli, madri».

Poi, anni 70, a Piossasco, pure nell’hinterland, dove a migliaia arrivavano dal Sud per lavorare alla Fiat di Rivalta e si insediavano nei palazzoni tirati su in fretta, tutti uguali. Don Guido, per radicare la gente al nuovo quartiere, si inventa i ‘giochi senza quartiere’, gare indimenticabili, animosamente combattute. A Piossasco resta fino ’90, poi va a Rivoli, 55mila abitanti. E di nuovo don Guido ricomincia e si butta in un oratorio, la sua passione. «Anni intensi, una parrocchia aperta, le prime attenzioni ai non credenti, lo scambio fecondo con il mondo laico», ricorda. Nel 2001 è vicario generale, vescovo un anno dopo. Passano sette anni e muore il vecchio parroco della Crocetta, un suo amico. Al funerale gli dicono: monsignore, mandateci presto un nuovo parroco, qui c’è tanto da fare. E lui senza pensarci risponde: «Magari vengo io…». I parrocchiani credono che scherzi.

Ma l’idea pronunciata come per caso prende piede nei pensieri. «Mi sentivo troppo vecchio per fare il vescovo residenziale in una città di
provincia. Ma per fare il parroco, invece… Ci pensai, ci pregai sopra, scrissi al cardinale Poletto». E Poletto gli concede di essere, oltre che vescovo, parroco. Fiandino è felice: «La parrocchia è una cosa che ti prende anche il sangue, ma ti dà la vita, nel contatto con la gente. Per questa canonica passa di tutto. Abbiamo aperto un centro di ascolto Caritas, formando 25 operatori. Una comunità come questa, in un quartiere benestante, non può essere, per vocazione, che una porta aperta nel cuore di Torino».

Fiandino riporta qui l’esperienza del vicario che ha girato 250 parrocchie della diocesi: «Ovunque, la classe di età che manca nelle nostre chiese è quella fra i 30 e i 50 anni. L’età del lavoro e dei figli. Allora ho deciso di dedicare la maggior parte del mio impegno alla pastorale familiare, cominciando dalla formazione di quelli che preparano i fidanzati al matrimonio. Abbiamo 60 matrimoni l’anno, e 10 gruppi di sposi continuano a vedersi, una volta al mese, con una coppia guida e con me. Ho capito il profondo bisogno, per questi ragazzi, di figure di riferimento che li accompagnino. A me, il piagnisteo sulla famiglia in crisi non piace: occorre fare, occorre una Chiesa madre e non matrigna, che faccia venire la voglia di tornare. Per esempio – spiega – qui, come ormai credo ovunque, su 10 coppie che vengono a sposarsi 8 sono già conviventi. Io dico loro: benvenuti, avete capito di desiderare, a unirvi, qualcosa di più grande di ciò che già c’è fra voi. «Perché – continua – di quello che è stato, chiunque sia a venirmi davanti, a me non importa. La mia parola preferita è: ‘d’ora in poi’. Come nel Vangelo dell’adultera, cui Gesù dice: va’, e d’ora in poi non peccare più. Questa per me è la parola fondante». Si sente in questo vescovo, e parroco, una larghezza di fede da Promessi sposi, una magnanimità che forse ha le sue radici in quella campagna, nella carità di una madre che mandava i figli a dare il pane ai poveri, nella stalla lasciata aperta la notte per i senza tetto. C’è una eredita antica in quest’uomo, declinata in una metropoli del 2015. in una metropoli del 2015.

I battesimi sono 100 all’anno, non così pochi. «Si comincia a cogliere qualche frutto del nostro lavoro, a respirare una maggiore fiducia nella vita. Certo, mi addolorano i fallimenti, le separazioni, che non mancano. Ho sentito un vecchio dire in tv: una volta le cose guaste in casa si riparavano, ora si buttano e si ricomprano nuove. È cosi anche con i matrimoni: si butta via, e si ricomincia. Manca la pazienza, il patior, il saper patire insieme, l’accettare la fatica. Le coppie si chiudono come monadi, e quando si viene a sapere che sono in crisi è già troppo tardi. Si dividono, e cercano di raccontarsi che, in fondo, per i figli è meglio così. Ma quanto soffrono invece, i bambini. Pensi che i ragazzini dell’oratorio, quando chiediamo loro di scrivere una preghiera spontanea e anonima, scrivono: ‘Fa’ che i miei non si separino’. Hanno paura, temono la separazione più di ogni altra cosa». La vita del parroco vescovo dunque si consuma fra gli incontri e nelle case, in uno stretto contatto con quelle pecore che non gli bastava guidare da lontano. «Il mio giorno più bello – dice – è il venerdì mattina, quando vado a trovare i malati. I vecchi, gli invalidi, ma anche i giovani, quelli colti all’improvviso da una malattia. Che non capiscono perché, che mi chiedono perché Dio li ha puniti così. Vedi sulle loro facce l’angoscia, e le loro domande ti provocano, ti costringono a continuare a cercare. Perché la fede non è un calmante, ma una lucina accesa nella notte».

Che cosa la alimenta in tanto lavoro, affiancato, poi, a quello di vescovo ausiliare? «L’EucarIstia, prima di tutto, perché, con gli anni, ho capito che celebro prima di tutto per me. Così come le Lodi al mattino, appena sveglio, mezz’ora col Signore, prima di vedere chiunque: faccio il pieno di preghiera. Poi, un paio di volte l’anno, in una casa di spiritualità in Val di Susa, per tre giorni, faccio il monaco – felice, perché sto bene con la gente, ma sto molto bene anche da solo». Cosa direbbe a un giovane prete che entra oggi in una parrocchia? «Di coltivare tantissimo la relazione con Dio, e con il prossimo. La solitudine è pericolosa, è il volto dell’altro che ci salva. Direi che fondamentale è la stima, la preparazione, il riconoscimento del ruolo dei laici. Altrimenti la Chiesa torna più clericale di prima e non ha futuro. La ricchezza della mia parrocchia sono i laici». Il Papa è appena venuto a Torino, come è stato per lei incontrarlo? «A me, il Papa dà la serenità di chi non demonizza la realtà, e dà invece il primato alla persona. L’ho visto da vicino: quando prega cambia espressione, è un mistico. Ed è un uomo positivo nei confronti di tutti, conscio che ognuno è un mistero, e che va accolto per ciò che è». E la Sindone, invece, che cos’è per lei? «Io nella Sindone vedo il volto dei miei malati del venerdì mattina. E quasi spero che non si arrivi mai alla certezza scientifica assoluta, su quel telo. La Sindone per me è icona del continuo cercare, l’uomo, il volto di Dio, attraverso quei tratti sbiaditi». In canonica ha una riproduzione del Figliol prodigo di Rembrandt. Te la indica: «Guardi come chiude Dio gli occhi, cieco, dimentico, nell’abbraccio, dei peccati del figlio. Questa è l’icona del Dio che io amo».

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