Spiritualità. Manicardi: «Per fare politica ci vuole dimensione interiore»

Il priore di Bose Luciano Manicardi (Siciliani)

Avvenire

Il celebre testo di Max Weber La politica come professione termina con queste ispirate parole circa l’uomo che ha la vocazione per la politica. Circa l’uomo, cioè, che “fa” politica. «La politica consiste in un lento e tenace superamento di dure difficoltà, da compiersi con passione e discernimento al tempo stesso. È perfettamente esatto, e confermato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile. Ma colui il quale può accingersi a quest’impresa deve essere un capo, non solo, ma anche – in un senso molto sobrio della parola – un eroe. E anche chi non sia l’uno né l’altro, deve foggiarsi quella tempra d’animo tale da poter reggere anche al crollo di tutte le speranze, e fin da ora, altrimenti non sarà nemmeno in grado di portare a compimento quel poco che oggi è possibile. Solo chi è sicuro di non venir meno anche se il mondo, considerato dal suo punto di vista, è troppo stupido o volgare per ciò che egli vuol offrirgli, e di poter ancora dire di fronte a tutto ciò: “Non importa, continuiamo”, solo un uomo siffatto ha la “vocazione” (Beruf) per la politica». 

Il ritratto abbozzato da Weber fa emergere un invisibile dell’uomo politico, una sua dimensione profonda e nascosta che si sottrae all’apparire, che rifugge l’esibizione, che abita la profondità e – protetta dal pudore – detesta la superficialità. Questo ritratto parla, senza nominarla, della solitudine dell’uomo politico. Una solitudine intrisa di forza e di saldezza perché frutto di ascesi, di dedizione all’esercizio dell’arte di conoscersi, di esame di sé, di dialogo e lotta interiori, di pensiero e riflessione, di capacità di reggere l’urto di situazioni sfavorevoli e disperanti, senza lasciarsi abbattere. Parlare di spiritualità e politica richiede anche di parlare della qualità umana della persona che si dedica alla politica, che cioè ha la vocazione ( Beruf) alla politica o che ne fa una professione ( Beruf). E che in questo “professare la politica” unifica mestiere e credenza, professione e professione di fede, unifica soprattutto le due dimensioni della responsabilità e della convinzione che sono le due etiche o dimensioni dell’etica sottolineate da Weber nel suo saggio. 

Dimensioni non esclusive l’una dell’altra. Poiché, infatti, l’azione politica sempre è a servizio di una causa, la causa a cui il politico si consacra implica una fede: “Egli può servire la nazione o l’umanità, può dar la sua opera per fini sociali, etici o culturali, mondani o religiosi … sempre però deve avere una fede”. Max Weber ritiene che chi si impegna nell’agone politico debba accordare un’attenzione particolare alla cura della propria vita interiore: la politica, che conduce l’uomo a gestire forza e potere, e perfino la “violenza legittima”, porterà con sé “pericolose tentazioni”, condurrà a incontrare il male, a confrontarsi con potenze diaboliche, a subire seduzioni potenti e richiederà perciò discernimento e saldezza, conoscenza di sé e lotta interiore, capacità di volere e capacità di dire di no. Se la dedizione alla politica esige passione, senso di responsabilità e lungimiranza, essa richiede un rigoroso esercizio al governo di sé e delle proprie passioni per acquisire forza e autorevolezza. E magari l’assunzione di quella virtù che si chiama coerenza. 

In particolare, Weber ricorda la tentazione della vanità da cui il politico si deve guardare: «L’uomo politico deve soverchiare dentro di sé, giorno per giorno e ora per ora, un nemico assai frequente e ben troppo umano: la vanità comune a tutti, nemica mortale di ogni effettiva dedizione e di ogni “distanza”, e, in questo caso, del distacco rispetto a sé medesimi ». Pertanto, «chi è interiormente debole si tenga lontano da questa carriera». La straordinaria forza sprigionata da alcuni uomini politici è connessa alla loro profondità spirituale. Secondo un suo biografo, una delle scoperte più importanti nella formazione di Gandhi fu la convinzione che «per poter trasformare gli altri, dobbiamo prima trasformare noi stessi». Acquisizioni che egli fece nella sua maturazione spirituale e che divennero importanti pilastri della sua azione politica e sociale furono il considerare le difficoltà come opportunità di servire e come sfide per stimolare la sua intelligenza e la sua immaginazione, il cogliere in ogni cosa la possibilità di scegliere se vivere per se stesso o per gli altri, il mettere in atto una volontà indomabile. E “volere” significa comandare e obbedire al tempo stesso. C’è un due in uno proprio della volontà. La volontà implica che colui che vuole, obbedisca anche a ciò che vuole. Colui che vuole si determina, ma determinarsi significa anche dare un comando a se stessi e obbedirsi. Lo stesso soggetto è quello che comanda e obbedisce contemporaneamente. «Quel che v’è di più prodigioso nella volontà è che noi siamo al tempo stesso chi comanda e chi ubbidisce» (Nietzsche). 

Il diario pubblicato postumo di Dag Hammarskjöld, segretario generale dell’Onu dal 1953 fino alla tragica morte nel 1961, premio Nobel per la Pace alla memoria nel medesimo anno, svelò un uomo dalla profondissima statura spirituale, dedito al dialogo interiore, che dunque univa responsabilità politiche di portata mondiale alla coltivazione del-l’interiorità, nella convinzione che «le domande che sono alla base di una vita spirituale non sono affare privato, ma possono e anzi debbono alimentare un impegno pubblico» (Labbucci). Le dichiarazioni rilasciate da Hammarskjöld durante una trasmissione radiofonica poco dopo la sua nomina a segretario generale dell’Onu, radicano il nesso tra impegno politico e dimensione interiore e spirituale nelle testimonianze dei mistici medievali: «La spiegazione di come l’uomo debba vivere una vita di servizio attivo verso la società in completa armonia con se stesso come un membro attivo della comunità dello spirito, l’ho trovata negli scritti di quei grandi mistici medievali per i quali “la sottomissione” è stata la via della realizzazione di sé e che hanno trovato nell’“onestà della mente” e nell’“interiorità” la forza di dire sì a ogni richiesta che i bisogni del loro prossimo mettevano loro davanti, e di dire sì a qualsiasi destino la vita avesse in serbo per loro quando hanno risposto alla chiamata del dovere così come l’avevano intesa». 

Ma la coltivazione e la custodia dell’interiorità sono operazioni necessarie a ogni uomo, non certo solo a chi si dedica interamente alla politica. E questo perché la libertà è ciò che intendono servire tanto un’autentica spiritualità quanto una politica seria. Un’interiorità coltivata è alla base del pensiero critico, della capacità di selezionare e gestire le informazioni, pervenire a una conoscenza e formarsi un’opinione, così come è alla radice di relazioni sociali vitali. Non a caso i regimi totalitari, perseguendo la “politicizzazione totale” (Arendt) dell’individuo, uccidono la libertà, zittiscono le persone, ne impediscono le riunioni e le discussioni e ne spengono le capacità di pensiero autonomo: essi non si accontentano di un ossequio esteriore, ma vogliono invadere l’interiorità e impossessarsi dell’anima delle persone. Lo spazio interiore è il primo spazio di libertà in quanto spazio di coltivazione della rivolta, del “no”, dell’iniziare a immaginare e pensare qualcosa di alternativo allo stato delle cose. E la politica deve fornire alternative tra opzioni diverse. Mi pare che tre facoltà dello spirito umano siano particolarmente da sviluppare per costruire un’interiorità atta ad affrontare le sfide della politica oggi: l’immaginazione, la creatività e il coraggio.