Spiritualità. Il teologo Clément e il cristianesimo «dei volti e della bellezza»

Raccolti in volume gli interventi del teologo ortodosso francese pubblicati su “Avvenire” dal 1990 al 2008 Spaziando dall’aldilà ai conflitti politico-religiosi

L'icona della Trinità di Andrej Rublëv (particolare)

L’icona della Trinità di Andrej Rublëv (particolare)

avvenire

“Da Oriente” di Olivier Clément (pagine 198, euro 15,00) è il nuovo volume della collana “Pagine prime”, realizzata da Vita e Pensiero in collaborazione con Avvenire. Apparsi originariamente sul nostro quotidiano, gli scritti su «ecumenismo, Europa, spiritualità» vengono raccolti per la prima volta in volume a dieci anni dalla morte di Clèment (nato ad Aniane, il 17 novembre 1921, morì a Parigi il 15 gennaio 2009). Oltre a “Da Oriente” è in libreria un altro titolo della collana, “L’adesso di Dio” di Sergio Massironi e Alessandra Smerilli, sul rapporto tra Chiesa e giovani.

Che la nostra società ipertecnologica e smarrita si dimostri propensa a credere a tutto l’aveva già mirabilmente preconizzato Chesterton. A sua volta il cardinale Biffi la definì sazia e disperata. Descrizioni della civiltà occidentale che si ritrovano nelle riflessioni di Olivier Clément, il teologo ortodosso francese di cui ora Vita e Pensiero, nella collana “Prime pagine” edita in collaborazione con “Avvenire”, manda in libreria il volumetto Da Oriente. Ecumenismo, Europa, spiritualità (pagine 198, euro 15). Si tratta della raccolta di una cinquantina di articoli che il pensatore ha scritto dal 1990 al 2008 e che dimostrano la sua capacità di spaziare da questioni proprie della teologia come l’aldilà e il “Filioque” a vicende terrene quali i conflitti politico-religiosi o la polemica sul chador. 

Noi adoratori dei cani si intitolava un suo intervento del 1996 in cui con parole sferzanti fissava lo sguardo, passeggiando un giorno sulla riva destra della Senna, sulla «vera divinità di questa fine secolo». Frotte di dame e signori portavano a spasso i loro barboncini per fermarsi ogni tanto, osservandoli mentre soddisfacevano i loro bisogni. E gli venne spontaneo chiedersi a cosa pensassero quelle persone: «Rivivono l’intenerimento dei loro genitori quando li onoravano di simili oboli? Dicono a se stessi: i cani sono come noi, siamo come loro, almeno sulla riva del niente restano queste radici animali dell’essere?». Lo constatiamo ancor oggi: una società è malata quando conta più cani che bambini. Clément nel suo giudizio non era spietato, cosciente che spesso, quando le persone sono sole, il cane fa compagnia. Ma la sua analisi andava in profondità: «Per certi cittadini frustrati, la relazione con il cane ha qualcosa di erotico o di materno (ascoltate i loro balbettii di tenerezza). E il cane, a differenza del bambino, presenta il vantaggio immenso di non parlare. Così non ti contesta, ti adora in silenzio. È anche questa una maniera di sentirsi dio». 

Ma il nostro tempo segue tanti culti strampalati, come quando in occasione del cambio di millennio si diffuse la moda del New Age, o tornò in voga la devozione per il Sole o gli Angeli. Per Clément si trattava di espressioni di una razionalità pseudo-mistica i cui adepti «scavano fino al nulla – confuso col Nirvana buddista – nel narcisismo dell’individuo occidentale». 

Forme di un nuovo nichilismo che finisce per estromettere il Dio vivente e che confermano la sentenza di Pascal: «Chi vuole far l’angelo fa la bestia». Nel suo sguardo critico, come accennato, il teologo non s’impanca mai nella posizione del moralista fustigatore dei costumi, anzi cerca di capirli per orientare il cristianesimo del XXI secolo affinché sia in grado di offrire vere risposte. E capace di opporsi alla barbarie dilagante, che abbia il volto del fanatismo che ha fatto strage di sette monaci a Tibhirine o del prometeismo che ci minaccia «di mostruosità genetiche e di un suicidio collettivo, nucleare o ecologico»; nonché di presentare con parole nuove la possibilità di una redenzione dinanzi al caos. 

Quello che Clément ha in mente, lo ripeto, è un cristianesimo della libertà che prenda il posto del cristianesimo che nei secoli del moralismo, quelli della cristianità, era fondato sulla paura dell’inferno, sulla rivendicazione del potere e sull’ossessione della sessualità. Egli crede nello sviluppo di un cristianesimo rinnovato, che non separi più il sacramento dell’altare e il sacramento del fratello, «un cristianesimo che non cesserà di oscillare, fino alla Parusìa, tra le forme più sottili del martirio e i segni più eclatanti di un divino-umanesimo».

Poeti e profeti fu il titolo di una tavola rotonda che promuovemmo come Avvenire nel 1996 al Salone del Libro di Torino. Si cercava, con l’aiuto di scrittori e pensatori (oltre a Clément intervennero Grytzko Mascioni, David Meghnagi, Ruggero Pierantoni e Franco Loi) di cercare le “parole per un nuovo millennio”. Nel volume è riportato il testo che pronunciò Clément, il quale, sottolineò come «tra le prerogative del poeta (perciò indubbiamente egli profetizza) c’è la capacità di suscitare il risveglio. Gli antichi asceti dicevano che il più gran peccato è l’oblio: quando l’uomo diventa opaco, insensibile, talvolta indaffarato, tal’altra poveramente sensuale, incapace di fermarsi un istante nel silenzio, di stupirsi, di vacillare davanti all’abisso, sia per orrore oppure per giubilo. Incapace di ribellarsi, di amare, di ammirare, di accogliere l’inconsueto degli altri e delle cose. Insensibile alle sollecitazioni segrete, pur così frequenti, di Dio. Interviene allora il poeta». 

Anche oggi urge una poetica dei volti e delle cose. 

Olivier Clément sulle pagine di Agorà fra il 1995 e il 1996 tenne per un anno una rubrica denominata “Ecumene”, intervallandosi col pastore valdese Paolo Ricca. Entrambi offrivano ai lettori del quotidiano cattolico parole illuminanti: erano gli anni memorabili dell’apertura del pontificato di Giovanni Paolo II verso le altre confessioni e religioni, apertura che aveva trovato uno dei segni più forti nell’Incontro di preghiera interreligiosa per la pace di Assisi del 1986, così come nei vari mea culpa per i fatti incresciosi della storia, dalle Crociate all’Inquisizione alle guerre di religione. Marxista convertito al cristianesimo a 27 anni dal filosofo russo Berdjaev, Clément nelle pagine di questo libro costantemente rammenta come il cristianesimo sia «la religione dei volti e della bellezza». 

Lo coglie bene Enzo Bianchi nell’introduzione: «Il Vangelo e i Padri d’Oriente e d’Occidente – scrive – sono le bussole che hanno orientato il cammino di questo autentico “visionario” cristiano. Di questo inesauribile patrimonio Clément ha saputo diventare un appassionato divulgatore capace di parlare il linguaggio delle donne e degli uomini del nostro tempo, vi ha trasposto una sapienza che viene dallo Spirito, un afflato evangelico che chiunque lo abbia incontrato ha potuto constatare da subito». 

Una sapienza che si spingeva a valorizzare protagonisti del ’900 apparentemente lontani dalla fede cristiana, come il pittore Pablo Picasso e lo scrittore e filosofo Jean-Paul Sartre. In un lucidissimo intervento incentrato soprattutto su Guernica, Clément osserva come Picasso sia stato l’artista delle due guerre mondiali e abbia raffigurato la scomposizione dei volti e l’agonia dell’Europa, aprendo però sentieri di resurrezione. E a proposito dell’autore di L’essere e il nulla egli rileva come la sua opera sia stata un sfida per i credenti e che pur fra mille contraddizioni, come l’esaltazione dell’Urss e persino delle Brigate Rosse, egli alla fine abbia ritrovato «il cammino sia della vera alterità sia della vera trascendenza».

Bellissime sono infine le pagine dedicate alla teologia dell’icona. Oltre alle più note, come la Trinità di Andrej Rublëv, Clément amava moltissimo un dipinto sulla discesa agli inferi, conservato in una chiesetta alla periferia di Istanbul, ora trasformata in museo, San Salvatore in Chora: Cristo danza sulle porte dell’inferno, avvolto da una mandorla, afferra Adamo ed Eva e, dietro di loro, i santi e i profeti che rappresentano tutti gli uomini delle generazioni precedenti. «Da allora – conclude il teologo – nella Chiesa e dappertutto nel mondo (ma in realtà è la Chiesa che sostiene il mondo), quella mano continua a squarciare le tenebre. Dio s’incarna e scende fin nella morte e nell’inferno per aprirci, attraverso la sua umanità risuscitata, la via della vita viva, la forza stessa dello Spirito. Il fondamento dell’icona è l’Incarnazione. Il Dio inaccessibile, propriamente in-immaginabile dell’Antico Testamento, è diventato volto in Cristo. Volto dello Sfigurato-Trasfigurato, del Servo che avendo vinto la morte con la morte risplende della bellezza più sconvolgente, quella dell’amore folle di Dio per l’uomo».