Sonno e sacro: segreti da camera

Virginia Woolf ne voleva una tutta per sé, per scrivere, sognare, amare o più semplicemente dormire. Kafka, che detestava uscire, apprezzava quelle in cui poteva rifugiarsi e isolasi da qualsiasi intrusione. Proust, un altro ossessionato dal rumore che viveva e scriveva a letto, amava quelle d’albergo. Nella sua, dipinta d’azzurro, George Sand scriveva lettere a non finire e romanzi dalle dieci di sera alle sei di mattina. Sartre, allergico alla casa e alla privacy borghese, preferiva invece scrivere al caffè. La regina Vittoria aveva fatto della propria un mausoleo privato pieno di ricordi dell’amato consorte Alberto, una specie di altare alla memoria dello sposo popolato di oggetti e foto ricordo. Camere. Rifugi, luoghi di stanchezze e abbandono, snodi di incontri di poteri, attrazioni, tenerezze e violenze, preghiere, segreti e solitudini.

Gli spazi quotidiani che ciascuno considera il nucleo del proprio privato sono un microcosmo complesso: molto più di uno spazio di riposo, di una semplice stanza con letto. Scatole zeppe di contenuti, crocevia di esperienze e campo di osservazione privilegiato per chi voglia esplorare l’evoluzione del costume e dell’igiene, l’architettura e il decoro, i comportamenti, le fobie e le ossessioni dei suoi abitanti e di una società intera. O tutto questo insieme con l’occhio e il metro dello storico.

Difficile immaginare quante porte si aprono in questo viaggio. Ciascuna a dischiudere un mondo che da solo varrebbe libri su libri: camere da letto, pubbliche e private, coniugali e personali, stanze signorili e tuguri miserabili, camerette da bambini e stanze dei figli, interni di case operaie, suite di grandi alberghi e monolocali di piccoli meublé, stanze d’ospedale, celle monastiche e di prigionia, appartamenti di cortigiane e camere di scrittori. Residenze di re e dimore di gente comune segnate dal tempo, dalle esperienze, le condizioni e le età dell’esistenza.

Sempre somiglianti a chi li abita ne raccontano ranghi, ricchezze, stile e ambizioni. «Molte strade portano alla camera: il riposo, il sonno, la nascita, il desiderio, l’amore, la meditazione, la lettura, la scrittura, la ricerca di sé, Dio, la reclusione voluta o subita, la malattia, la morte. Dal parto all’agonia, la camera è il teatro dell’esistenza o almeno ne è il retropalco». Ed è qui che ci accompagna  Michelle Perrot – storica francese di fama, nota in Italia per aver collaborato con George Duby alla monumentale Storia delle donne in Occidente e a La vita privata – attraverso questa corposa, insolita e gradevolissima Storia delle camere (Sellerio, pagine 416, euro 18,00).

Un percorso nel cuore delle quattro mura che custodiscono la privacy, l’intimità vitale dell’individuo, delle coppie e delle famiglie, nella quale passiamo oltre metà della vita. Non è sempre stato così perché la kamara greca era piuttosto una camerata di riposo per molti, così come la camera latina si risolveva in un luogo riparato per proteggere più persone. Il pubblico e il privato nel passato hanno avuto confini labili.

E la camera come la conosciamo oggi, quella «tutta per sé» di Virgina Woolf non ha una data di nascita ma è un’acquisizione lenta e moderna, fatta di tante trasformazioni. Per secoli i nobili hanno amministrato la giustizia nella propria camera, addirittura a letto; passando da una camera all’altra nelle aristocratiche dimore era pressoché impossibile isolarsi. Carlo V però possedeva una camera de retrait, di riposo, e una de parement, di rappresentanza, per gli affari pubblici. Durante la malattia viene curato in una chambre de gite, di degenza, ma in punto di morte è la camera di rappresentanza che diventa teatro della fine, luogo pubblico e simbolo della sovranità, concetto rimasto cristallizzato nel chiuso della Camera dei Comuni o dei Lord o quella dei Deputati.

Con Michelle Perrot si entra nella camera di Luigi XIV, un re che pur incarnando un assolutismo riverberato nel rigido cerimoniale era un uomo molto riservato. In quella dimora cosmica e allegorica che fu Versailles, il re Sole volle la sua stanza come fulcro della reggia, al centro del cortile di marmo e rivolta, neanche a dirlo, a Oriente, il sole nascente. La camera con il letto protetto da una balaustra con accessi rigidamente regolamentati e filtrati a seconda dei ranghi e delle funzioni, erano il sancta sanctorum del potere. L’intimità è altrove, anche se non troppo lontano, negli appartamenti della consorte o delle favorite, nelle stanze dei figli, legittimi e no, anche queste vicine alla residenza regale. La stessa malattia del sovrano viene custodita e protetta come un segreto di Stato, per sfociare in una morte del tutto pubblica.

Per i più, invece, il confine tra pubblico e privato è stato labile. La gran parte delle abitazioni contadine, ancora alla fine dell’Ottocento, hanno un solo locale comune, teatro totale della vita. E nelle case popolari urbane non era meglio. Nella Russia zarista e comunista gli alloggi collettivi erano una regola: i racconti di quegli scenari con mobili e persone stipate all’inverosimile in ogni angolo delle stanze sono un colpo al cuore. Se all’aristocrazia spetta il merito di aver spinto l’affermazione della stanza coniugale l’affermazione della privacy domestica è una conquista borghese.

L’Inghilterra docet: la camera da letto di una signora è invalicabile. Solo in caso di indisposizione la padrona di casa può ricevere amiche dimostrando grande senso di ospitalità. Ma, quando con la modernità si definisce lentamente l’architettura della casa moderna le camere da letto si rimpiccioliscono e vengono confinate in una zona notte separata dal resto riservato alla socialità di cui le donne diventano regine a scapito di uno spazio personale di libertà. Nelle proprie camere le donne hanno soprattutto divorato libri, scritto e fantasticato – una condizione necessaria per la creazione artistica al di là dei generi – dato spazio alla spiritualità.

Come in un grande romanzo, Michelle Perrot intreccia la storia delle camere domestiche, comprese quelle dei bambini e della servitù, con un’incursione nelle camere d’albergo, negli alloggi ammobiliati degli operai al tempo delle migrazioni urbane industriali, tra le celle dei conventi, nelle stanze d’ospedale e dei sanatori, nelle camere del lutto. Fino ad approdare alle abitazioni di oggi dove il moltiplicarsi dei vani sembra aver affidato a ciascuno il proprio spazio che tuttavia appare sempre più relegato al sonno, con la room diventata bedroom. E dove molte porte e muri sono stati abbattuti in nome della trasparenza e dell’abolizione dei limiti. Vorrà dire qualcosa se alcune stanze si ampliano e altre si riducono fino a sparire e a essere inglobate in altre.

Se non si nasce e non si muore più, talvolta neppure s’invecchia, a casa propria; se le camere degli ospiti si sono volatilizzate, le cucine aperte sui soggiorni, le camere dei bambini ingigantite a dismisura per tanti figli unici. Ci saranno mille ragioni se proprio i letti finiscono per essere spesso incorporati al bagno – alla sala da bagno! – sospesi in soppalchi, nascosti dai divani; se a letto – ex rifugio di accaniti scrittori e lettori – si guarda la tv, si mangia, si lavora al computer… Necessità economiche certo, ma non solo. Quando spariscono le cortine che delimitano e proteggono il sacro, il sacro sparisce.

 

Rossana Sisti – avvenire.it