Sinodalità: dal consultivo al deliberativo?


La forte spinta alla sinodalità della Chiesa di papa Francesco si è espressa nella costituzione apostolica Episcopalis communio, del 15 settembre 2018, e nel discorso per i 50 anni del sinodo dei vescovi (17 ottobre 2015 ). Il card. Francesco Coccopalmerio, presidente emerito del Pontificio consiglio per i testi legislativi, motiva la possibilità di riconoscere alle assemblee e ai consigli ecclesiali un potere deliberativo e non solo consultivo. Uscendo dallo schema civilistico, pastore e fedeli sarebbero da considerarsi non come due soggetti separati, ma come un unico «soggetto comunionale deliberante» chiamato a uno «specifico deliberativo ecclesiale».

«I fedeli hanno il dovere e il diritto non soltanto di dare consigli ai pastori, bensì anche di esprimere una volontà con loro, nel senso non solo di consigliare, bensì anche di deliberare». Per la Commissione teologica internazionale «la distinzione tra voto deliberativo e voto consultivo non deve portare a una sottovalutazione dei pareri e dei voti espressi nelle diverse assemblee sinodali e nei diversi consigli. L’espressione votum tantum consultivum… risulta inadeguata se la si comprende secondo la mens del diritto civile nelle sue diverse espressioni» (cf. La sinodalità della vita e della missione della Chiesa). Per il card. Coccopalmerio la norma giuridica può avvicinarsi di più alla natura teologica delle assemblee ecclesiali riconoscendo ad esse, nel rispetto del ruolo del ministero, un potere di deliberazione.

Il processo sinodale tedesco in avvio (Il cammino sinodale della Chiesa tedesca, Settimananews) e il possibile sinodo italiano potrebbero avere strumenti mai prima riconosciuti ad assemblee di questo tipo (ndr.).

– Card. Coccopalmerio, in questi ultimi tempi, nella coscienza della Chiesa cattolica si è decisamente riscoperto, e perciò fortemente imposto, il principio dottrinale e pastorale della così detta sinodalità. Ed è a tutti noto come tale principio sia nel cuore e quindi nelle scelte di papa Francesco. Su questo argomento vorrei porle una serie di domande. In primo luogo, potrebbe dirci cosa precisamente si intende per sinodalità?

Dobbiamo limitarci a una risposta immediata e quindi elementare, però chiara. Sinodalità – come sappiamo – è un termine greco ed è composto da “sin” (che significa “con”, “insieme”) e “odós” (che significa “strada”). Da ciò consegue che sinodalità significa strada insieme, cammino congiunto, attività congiunta, di più persone.

Sinodalità, nel nostro caso, significa, in modo specifico, attività congiunta dei fedeli con i loro pastori, e ciò nel preciso senso che i fedeli con i loro pastori svolgono un’attività congiunta per la guida di una comunità ecclesiale e quindi per il suo bene. Ed è ben giustificato questo affermarsi della sinodalità e della sua speciale importanza.

Ne va dell’essenza della Chiesa

– Ci spiega meglio il perché della speciale importanza della sinodalità?

Possiamo concentrare l’attenzione su un aspetto che ritengo determinante e affermare che la sinodalità è il riflesso, sul piano dell’agire, della comunione ecclesiale sul piano dell’essere. In altre parole: come c’è una comunione ecclesiale nell’essere, così c’è una comunione ecclesiale nell’agire.

La comunione ecclesiale nell’essere significa che la comunità ecclesiale è composta dal pastore con i suoi fedeli, o meglio, dai fedeli con il loro pastore; la comunione ecclesiale nell’agire significa, del tutto logicamente, che l’attività della comunità ecclesiale deve essere svolta dal pastore con i suoi fedeli o, meglio, dai fedeli con il loro pastore.

Il modo di composizione della comunità ecclesiale determina il modo di svolgimento delle attività della comunità ecclesiale. E, pertanto, modo di composizione e modo di svolgimento delle attività sono due facce della stessa medaglia e cioè della comunità ecclesiale.

– Dunque, la non accettazione del principio della sinodalità potrebbe essere segno della non accettazione della corretta composizione della comunità ecclesiale?

Dobbiamo dire di sì. Chi in realtà negasse – forse non concettualmente quanto piuttosto con il comportamento – la sinodalità e la sua importanza e cioè – mi permetto di ripeterlo – negasse che i fedeli con il loro pastore svolgono un’attività congiunta per la guida di una comunità ecclesiale, chi pertanto affermasse che solo il pastore è attivo mentre i fedeli rimangono inattivi, chi dunque pensasse così, arriverebbe in definitiva all’assurdo – e, ovviamente, al ridicolo – di pensare che la comunità ecclesiale sia in realtà composta solo dal pastore e non anche dai fedeli.

Come, dunque, sarebbe assurdo, e anche ridicolo, affermare che la comunità ecclesiale possa essere composta solo dal pastore senza i fedeli, così sarebbe assurdo, e anche ridicolo, affermare che l’attività della comunità ecclesiale possa essere svolta solo dal pastore senza i fedeli.

Sinodalità nel Codice di diritto canonico

– Lei è uno studioso, un esperto di diritto canonico. E allora la domanda appropriata: come il diritto canonico tratta il tema della sinodalità? dove precisamente trovarlo nel Codice di diritto canonico?

È evidente che il diritto canonico tratta della sinodalità e il Codice di diritto canonico ne parla in numerosi luoghi. Il luogo fondamentale è il can. 212, §3, che così ci istruisce: «In rapporto alla scienza, alla competenza e al prestigio, di cui godono, essi (i fedeli) hanno il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa…». Questo testo è una riscrizione quasi alla lettera di Lumen gentium 37,1.

È ora determinante che ci poniamo questa domanda: qual è il motivo per cui i fedeli hanno il dovere e il diritto di dare consigli ai loro pastori? O, più precisamente, da dove viene ai fedeli l’attribuzione di consigliare i pastori?

E la risposta è chiara: il motivo per cui i fedeli hanno il dovere e il diritto di dare consigli ai loro pastori è semplicemente, ma essenzialmente, perché sono fedeli, cioè hanno ricevuto i sacramenti del battesimo e della confermazione; l’attribuzione di consigliare i pastori è causata nei fedeli dai sacramenti del battesimo e della confermazione ed è, pertanto, un’attribuzione sacramentale.

Gli altri luoghi in cui il Codice parla della sinodalità sono quelli in cui indica le strutture nelle quali i fedeli attuano concretamente l’attribuzione di consigliare i pastori e cioè i consigli ecclesiali, che sono differenti e a livelli diversi.

Oltre al caso, assolutamente peculiare, del Concilio ecumenico (cann. 336-341), possiamo vedere, in modo particolare: il sinodo dei Vescovi (cann. 342-348), i concili particolari (cann. 439-446), il sinodo diocesano (cann. 460-468) il consiglio presbiterale (cann. 495-502), il consiglio pastorale diocesano (cann. 511-514), il consiglio pastorale parrocchiale (can. 536). In tutte queste strutture viene attuata la sinodalità, perché ai vari livelli, i vari fedeli con i vari pastori svolgono un’attività congiunta per la guida delle comunità ecclesiali e quindi per il loro bene.

Ora notiamo con attenzione che relativamente alle strutture ecclesiali che ho appena elencate, il Codice si preoccupa di precisare che «hanno voto solo consultivo»: così per il sinodo diocesano (can. 466), così per il consiglio presbiterale (can. 500, § 2), per il consiglio pastorale diocesano (can. 514, § 1), così anche, con altre espressioni, per il sinodo dei vescovi (cann. 342-343) o, infine, per vari membri dei concili particolari (cann. 443, § § 3-5; 444, § 2).

Consigliare: un’attribuzione sacramentale

– Fa una certa impressione quanto lei afferma e cioè che l’attribuzione, e perciò il dovere e il diritto di consigliare i pastori, è causata nei fedeli dai sacramenti del battesimo e della confermazione ed è, pertanto, un’attribuzione sacramentale.

È vero. Può fare impressione, per il semplice motivo che non siamo abituati a pensare così. E infatti riteniamo spontaneamente che i sacramenti del battesimo e della confermazione conferiscano doni o attribuzioni di carattere – diciamo così – piuttosto spirituale – pastorale, come quella di ricevere gli altri sacramenti o quella di partecipare alla celebrazione della messa, ma l’attribuzione di consiliare i pastori sembra qualcosa di estraneo alla causalità propria dei sacramenti. Però posso ribadire che quanto ho affermato è chiaramente attestato dal Vaticano II e dal Codice: sono i fedeli in quanto fedeli, in quanto, cioè, hanno ricevuto il battesimo e la confermazione, che hanno l’attribuzione di consiliare i pastori.

– Se il compito di consigliare ha origine nei sacramenti, dovremmo acquistarne maggiore coscienza sia nella riflessione dottrinale, sia nella attuazione pastorale.

Sono d’accordo. Bisognerebbe, innanzitutto, essere convinti che l’attribuzione di consigliare i pastori è di tutti i fedeli e non solo di alcuni perché tutti sono battezzati e di solito cresimati. Notiamo al riguardo che anche il can. 212 §3 dovrebbe essere più deciso, meno timido. Ci sarebbe, quindi, da sviluppare una pastorale che tenga presenti queste due principali finalità: far acquisire a tutti i fedeli una coscienza piena del loro compito di consigliare i pastori e promuovere in tutti, il più possibile, quelle doti di scienza, competenza e prestigio di cui parlano i testi, in modo tale che tutti i fedeli siano in grado di attuare la loro attribuzione sacramentale. Si tratta, insomma, di non tradire i sacramenti del battesimo e della confermazione relativamente al compito di consigliare, ritenendolo veramente grave, in quanto, appunto, attribuzione sacramentale.

Ricordo che una volta, dicendo in una conferenza queste cose, un parroco mi ha chiesto, anche con una punta di ironia forse non voluta: «Ma, insomma, tu ci dici di promuovere una pastorale dei fedeli per attuare il dovere di consigliare così come dobbiamo promuovere la pastorale per attuare il dovere di partecipare alla messa domenicale?». Vedendo che giudicava rettamente, gli ho risposto spontaneamente, usando le parole di Gesù: «Non sei lontano dal regno di Dio».

Consultivo: in che senso?

– A questo punto, dobbiamo ritornare a quanto lei diceva della qualifica data dal Codice di «voto solo consultivo» ai consigli ecclesiali nei quali i fedeli attuano la attribuzione di consigliare i pastori. A riguardo della precisazione «voto consultivo», sentiamo necessaria una spiegazione adeguata.

La risposta è complessa e dev’essere articolata. Devo fare una premessa tecnica, della quale mi scuso, ma che è necessaria per capire il seguito.

Nella struttura del consultivo, o dell’attività consultiva, o del voto consultivo, sono in attività, e quindi in relazione, due soggetti, uno chiamato consulente e l’altro chiamato deliberante. Il soggetto consulente è quello che dà consigli al soggetto deliberante e pertanto suggerisce cosa si dovrebbe fare. Il soggetto deliberante è quello che riceve i consigli del soggetto consulente e poi assume una deliberazione, compie, cioè, un atto di volontà e pertanto decide cosa si deve fare. Nel caso particolare del consultivo ecclesiale, il soggetto consulente sono i fedeli, il soggetto deliberante sono i pastori, in modo particolare il vescovo e il parroco.

Ciò premesso, dobbiamo precisare che l’attività di consultazione può essere scomposta in tre momenti successivi: il primo è la richiesta di consigli da parte del pastore ai fedeli; il secondo è l’offerta dei consigli da parte dei fedeli al pastore; il terzo è l’accettazione o la non accettazione da parte del pastore dei consigli offerti dai fedeli. Come vedremo, è necessario considerare distintamente i tre momenti, altrimenti non è possibile comprendere esattamente la struttura del consultivo.

Dopo la premessa tecnica, vengo ora alla spiegazione del «voto solo consultivo». Il legislatore canonico, quando afferma che tali consigli ecclesiali hanno voto consultivo, o solo consultivo, intende velocemente riferirsi solo al terzo momento del completo iter di consultazione e cioè all’accettazione dei consigli, e pertanto dice così: il pastore ha la libertà di accettare o di non accettare i consigli offerti dai fedeli. Libertà ulteriormente sottolineata dall’aggiunta dell’avverbio «solo»: voto solo consultivo. Aggiunta che evidenzia una preoccupazione, anche un po’ patetica, di tutelare la libertà del pastore deliberante.

L’obbligo dell’ascolto

– Lei non è d’accordo?

Sono necessarie due precisazioni, senza le quali tutto l’argomento può facilmente essere equivocato. La prima precisazione si riferisce al primo dei due momenti che ho sopra indicati del completo iter di consultazione e cioè alla richiesta di consigli ai fedeli. Ci domandiamo a tale riguardo: il pastore ha la libertà di chiedere consigli ai fedeli oppure ha l’obbligo di chiedere tali consigli? La seconda precisazione si riferisce invece al terzo momento. Per cui ci chiediamo: se il pastore ha la libertà di accettare o di non accettare i consigli offerti dai fedeli, per quale motivo avrebbe la libertà di non accettarli?

– Aspettiamo dunque le due precisazioni.

La prima è presto data: il pastore non ha la libertà, ma ha l’obbligo di chiedere consigli ai fedeli. Ciò affermiamo, con piena sicurezza, se consideriamo quanto detto poco sopra citando il can. 212, § 3. Se i fedeli hanno il compito, anche grave in quanto conferito dai sacramenti, di offrire consigli ai pastori, ciò presuppone logicamente che i fedeli siano chiamati, almeno periodicamente, a dare consigli. Se infatti i fedeli rimanessero sempre inattivi, che senso avrebbe affermare che hanno il diritto e soprattutto hanno il dovere di dare consigli ai pastori? Dunque, i fedeli devono agire, devono consigliare.

Mi si permetta ancora il paragone con l’eucaristia. Se i fedeli hanno l’attribuzione, certamente sacramentale, di partecipare alla celebrazione della messa e di ricevere la comunione eucaristica, hanno anche l’obbligo di andare a messa la domenica e di comunicarsi con una certa frequenza. E i pastori hanno l’obbligo di fare in modo che i fedeli si comportino coerentemente al loro dovere. Perché tali principi non dovrebbero valere, almeno in modo analogico, anche per l’attribuzione sacramentale di dare consigli ai pastori?

Se le cose stanno così, è evidente che i pastori non sono liberi di chiedere o di non chiedere consigli ai fedeli, ma hanno l’obbligo di chiederli. Quindi, in questo senso, avere voto consultivo, se significa libertà di accogliere o di non accogliere i consigli offerti dai fedeli, non significa nel contempo libertà di chiederli o di non chiederli.

Rifiuto possibile ma per un motivo adeguato

– E la seconda precisazione?

Come premesso poco sopra, se il pastore ha la libertà di accettare o di non accettare i consigli offerti dai fedeli, è decisivo chiederci per quale motivo avrebbe la libertà di non accettarli. Il pastore, in effetti, potrebbe ragionare in questo modo: Cari fedeli, mi avete offerto i vostri consigli, però io, che mi reputo più intelligente, più preparato, più esperto in questo particolare problema, ritengo che il mio pensiero sia più valido dei consigli che mi avete offerti. Per questo motivo non li accetto.

Sono convinto che tale motivo sia non adeguato e perciò non sufficiente. Ritengo infatti che il motivo adeguato e perciò sufficiente sia un altro e cioè il seguente: Cari fedeli, mi avete offerto i vostri consigli, però io, che ho il compito istituzionale di interpretare il pensiero del Signore, ritengo che i vostri consigli non siano concordi con il suo pensiero e il suo consiglio; in altre parole, se il Signore potesse esprimere il suo parere, questo sarebbe diverso, sarebbe non concorde con quello da voi espresso. Per questo motivo non accetto i vostri consigli, perché in coscienza, cioè davanti al Signore, non posso accettarli.

– Il pastore, a questo punto, può assumere una deliberazione secondo quello che egli ritiene il pensiero del Signore e può assumere tale deliberazione agendo da solo, senza i fedeli?

È una conclusione che non accetto senza precisazioni, perché bisogna distinguere almeno due casi. E, in effetti, nel caso in cui si tratti di questioni che non sono di speciale gravità e importanza per il cammino della comunità ecclesiale e richiedono una soluzione urgente, il pastore – per quanto con rammarico – potrebbe decidere da solo. Ma, al contrario, nel caso in cui si tratti di questioni che sono di speciale gravità e perciò di particolare importanza per il cammino della comunità ecclesiale, il pastore non dovrebbe, anzi non deve, procedere da solo, senza i fedeli. Dovrebbe, anzi deve, ragionare in questo modo: Cari fedeli, mi avete offerto i vostri consigli, che io, in coscienza, davanti al Signore, non ritengo siano concordi con il suo pensiero così che, purtroppo, non posso accettarli. Dobbiamo quindi fermarci e continuare a discernere insieme, finché saremo arrivati a trovare un parere condiviso.

Credo risulti abbastanza intuibile che tale attesa sia esigita dal principio della sinodalità: senza parere condiviso, e quindi azione congiunta, non c’è sinodalità.

Pastore e fedeli: due soggetti tra loro separati nel momento della deliberazione?

– Arrivati a questo punto, cioè a un parere condiviso, il pastore accetta i consigli dei fedeli e quindi assume una deliberazione seguendo i consigli stessi. E, pertanto, l’iter della consultazione si è concluso e il principio della sinodalità ha trovato soddisfacente attuazione. È corretta questa constatazione?

Sì e no, perché rimane una certa insoddisfazione, che rimarrà sempre finché rimarremo nello schema del consultivo. Mi spiego. È evidente che il consultivo in genere, e nello stesso modo il consultivo ecclesiale, presuppone – come detto – la distinzione tra due soggetti, tra quello che offre consigli e quello che assume la deliberazione, quindi tra i fedeli e il pastore.

Tale situazione suscita purtroppo una grossa insoddisfazione, teoretica e relazionale, che voglio precisare. Diciamo subito che i due soggetti sono, senza dubbio, tra loro assolutamente collaboranti, però, nel medesimo tempo, tra loro anche separati, e anzi subordinati, il primo al secondo, i fedeli al pastore. Infatti, il fedele consulente risulta come colui che compie un’attività iniziale e quindi solo preparatoria (quella di offrire consigli), mentre il pastore deliberante come colui che svolge un ruolo conclusivo e determinante (quello di assumere la deliberazione). In questo senso, il pastore deliberante appare, in definitiva, come colui che riveste la figura di vero protagonista dell’intera vicenda del consultivo ecclesiale. La descritta condizione di fedeli e pastore non è, forse, un non buon esempio di vera ed efficace sinodalità?

Ma c’è di più, e di più problematico. E, in effetti, se diciamo che solo il pastore assume la deliberazione, assistiamo a una netta separazione tra pastore e fedeli, proprio nel momento più importante del processo di discernimento pastorale, quello, appunto, della deliberazione: solo il pastore è attivo, mentre i fedeli sono inattivi, sono – diremmo – come scomparsi. Ora, c’è da chiedersi se la netta separazione tra pastore attivo e fedeli inattivi, quasi inesistenti, permetta di parlare ancora di vera ed efficace sinodalità: dove sono finiti quel cammino congiunto o quella attività congiunta, quella comunione ecclesiale nell’agire di fedeli e pastore, di cui stiamo parlando? Perché questa congiunzione dovrebbe interrompersi nettamente, dovrebbe come spezzarsi, proprio nel momento culminante che consiste nell’assumere la deliberazione?

Mi permetto un paragone, un po’ ironico: un pastore che, lodevolmente, chiede consigli ai fedeli e che, amorevolmente, accetta i loro consigli, ma che, poi, esclude completamente i fedeli e assume da solo la deliberazione, potrebbe in qualche misura essere assimilato a un parroco che, lodevolmente, suona a distesa le campane e invita i fedeli alla messa, che li accoglie amorevolmente in chiesa e li fa gentilmente accomodare, ma che poi si separa da loro dicendo semplicemente così: Cari fedeli, aspettate qui in chiesa. Io vado in cripta a celebrare la messa da solo. Poi ci salutiamo quando torno. Oppure potrebbe dire: Cari fedeli, state lì tranquilli e dite le vostre preghiere. Io vado all’altare a celebrare la messa da solo però la celebro in silenzio così non vi disturbo.

Dobbiamo riconoscere che la predetta concezione del consultivo ecclesiale con i fedeli che consigliano e il pastore che delibera, mentre risulta, da una parte, assolutamente corretta e legittima, lascia sussistere, dall’altra, una grossa insoddisfazione, teoretica e relazionale, particolarmente per quanto concerne una vera ed efficace sinodalità. Per tale motivo, poniamo la domanda: non sarebbe possibile progredire nella nostra riflessione per arrivare a una concezione più soddisfacente?

Oltre il limite del consultivo

– Siamo curiosi di conoscere il seguito.

Se – come detto – suscita grossa insoddisfazione la concezione del consultivo ecclesiale, a motivo della quale ci sono due soggetti, i fedeli che offrono consigli e il pastore che assume la deliberazione, ci resta una sola scelta: abolire la distinzione tra i due soggetti, abolire la distinzione tra le due attività e ipotizzare un unico soggetto e quindi un’unica attività.

Se vogliamo, in primo luogo, abolire la distinzione tra i due soggetti (fedeli e pastore) e quindi ipotizzare un unico soggetto, dobbiamo, come ovvio, pensare a un soggetto composto dai fedeli e dal pastore. Facciamo, però, molta attenzione, perché, a questo punto, si va a rischio di equivocare. Per evitare ciò, decisamente affermiamo che il pastore ha, nell’unico soggetto, a motivo del sacramento dell’ordine, una posizione superiore, dal punto di vista gerarchico, a quella degli altri fedeli, ha, cioè, la posizione di capo. Il soggetto composto di fedeli e pastore in posizione di capo può comodamente essere denominato «soggetto comunionale».

Se vogliamo, in secondo luogo, abolire la distinzione tra le due attività (dare consigli e assumere una deliberazione) e quindi ipotizzare un’unica attività, dobbiamo, come ovvio, pensare all’attività di assumere la deliberazione. Se il soggetto comunionale ha come attività quella di assumere una deliberazione, ciò significa che tale soggetto deve essere considerato un «soggetto comunionale deliberante».

Soggetto comunionale deliberante

– E questo cosa comporta?

Comporta, senza dubbio, che ogni componente il soggetto compie un atto di volontà e lo esprime attraverso un voto, così che dalla maggioranza dei voti si forma una volontà unitaria, che è la volontà del soggetto e quindi la deliberazione dello stesso. Poiché, però, il pastore ha una posizione superiore, dal punto di vista gerarchico, a quella degli altri fedeli, ha, cioè, la posizione di capo, il voto del pastore ha, di conseguenza, un valore superiore al voto degli altri fedeli, così che la deliberazione del soggetto consiste nella maggioranza dei voti a cui deve aggiungersi il voto concorde del pastore, che – come ovvio – deve essere libero.

Messo ciò ben in chiaro, è ora importante rendersi ben conto che passa una bella differenza tra consultivo e deliberativo per i fedeli, tra limitarsi, cioè, a dare consigli al pastore e compiere, invece, un atto di volontà con il pastore. E ciò affermiamo proprio per un’attuazione più adeguata del principio della sinodalità.

– Immediata però si presenta un’obiezione: poiché lei ha affermato che ogni fedele componente il soggetto comunionale compie un atto di volontà e lo esprime attraverso un voto, siamo passati dal consultivo al deliberativo. Ora, tale passaggio deve ritenersi indebito, almeno relativamente ai soggetti che l’attuale ordinamento canonico prevede come aventi voto solo consultivo.

Questa obiezione è intuibile e certamente fondata. Però posso tentare una risposta ugualmente ragionevole. Mi rendo perfettamente conto che sono passato – e l’ho fatto coscientemente – dal consultivo al deliberativo, non, però, in modo indebito, perché il deliberativo da me individuato è un deliberativo speciale e ciò per il semplice motivo che non è più il deliberativo civilistico ma è ormai il deliberativo ecclesiale, che si colloca nell’apposita struttura del «soggetto comunionale deliberante».

Orbene, nel «deliberativo ecclesiale» di un «soggetto comunionale deliberante» ogni membro, ogni fedele, compie un atto di volontà e lo esprime attraverso un voto, si forma così la maggioranza dei voti, ma, a questo punto, perché ci sia in realtà la deliberazione del soggetto comunionale, non è sufficiente che ci sia la maggioranza dei voti (tale sarebbe il deliberativo civilistico), bensì risulta essenziale che a tale maggioranza si aggiunga, in modo – ripetiamo – libero, il voto concorde del pastore (tale è il deliberativo ecclesiale).

E a me pare, tutto sommato, che la predetta concezione sia ragionevole e quindi approvabile. Infatti, da una parte, nulla toglie alla posizione del pastore, il cui voto resta determinante, mentre, dall’altra, sottolinea al massimo che la deliberazione deriva da tutti i membri della comunità, cioè precisamente deriva dal soggetto comunionale deliberante. Soprattutto non si verifica, proprio nel momento culminante del processo di discernimento pastorale in cui si assume una deliberazione, una netta separazione tra pastore e fedeli, per l’ovvio motivo che solo il pastore assume la deliberazione, mentre i fedeli restano esclusi da tale atto, il che appare insufficiente ad attuare una soddisfacente sinodalità. Invece si verifica, proprio – ripeto – nel momento culminante, una piena unità tra pastore e fedeli, e ciò appare adeguato ad attuare una soddisfacente sinodalità.

Dall’altra, con il soggetto comunionale deliberante si dà un’interpretazione ampia – e credo più soddisfacente – all’abilitazione conferita ai fedeli dai sacramenti del battesimo e della confermazione.

Deliberativo ecclesiale

– In che senso interpretazione ampia?

Cerco di spiegarmi in poche battute. E, in effetti, ci possiamo porre una domanda interessante, e anche inquietante: l’abilitazione che ai fedeli conferiscono i sacramenti del battesimo e della confermazione consiste solo nell’offrire consigli al pastore o anche nell’assumere la deliberazione con lui? questa seconda abilitazione non sembrerebbe esigita da una vera ed efficace sinodalità?

Per dare una risposta, ricordiamo che all’inizio della nostra conversazione, facendo l’esegesi delle parole di Lumen gentium 37,1 riportate nel can. 212, §3: «…(i fedeli) hanno il diritto e… il dovere di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa…», ho detto che i fedeli in quanto tali, cioè in quanto hanno ricevuto i sacramenti del battesimo e della confermazione, hanno il dovere e il diritto di dare consigli ai pastori. Quindi ho interpretato le parole del Concilio e del Codice «manifestare… il loro pensiero» nel senso di dare consigli. Questa esegesi è – diciamo – un’interpretazione stretta. Si potrebbe, però, dare anche un’interpretazione ampia, nel senso di affermare che i fedeli hanno il dovere e il diritto non soltanto di dare consigli ai pastori, bensì anche di esprimere una volontà con loro, nel senso, per tale motivo, non solo di consigliare, bensì anche di deliberare.

Consiglio pastorale parrocchiale «soggetto comunionale deliberante»

– La concezione da lei proposta dello «specifico deliberativo ecclesiale» e del «soggetto comunionale deliberante» ha come conseguenza di intendere in modo nuovo i vari consigli ecclesiali dei quali abbiamo parlato?

Direi, umilmente, di sì. Diamo, per esempio, uno sguardo al consiglio pastorale parrocchiale. Mi pare che quanto fin qui detto ci consenta di offrire un concetto abbastanza soddisfacente di consiglio pastorale parrocchiale. La costituzione di tale consiglio è indicata dal can. 536, § 1: «… il consiglio pastorale, che è presieduto dal parroco e nel quale i fedeli, insieme con coloro che partecipano alla cura pastorale nella parrocchia in forza del proprio ufficio…». A motivo di questa determinazione, il consiglio pastorale parrocchiale è composto da certi fedeli e dal parroco in qualità di presidente e quindi in posizione gerarchicamente superiore. È, dunque, un soggetto comunionale.

A questo punto possiamo pensare il consiglio pastorale parrocchiale non solo come soggetto comunionale, ma anche come soggetto comunionale deliberante e per tale motivo possiamo pensare i fedeli non più come coloro che danno consigli al parroco e possiamo pensare il parroco non più come colui che da solo assume la deliberazione, ma possiamo d’ora in poi pensare i fedeli e il parroco come coloro che insieme sono attivi per arrivare ad assumere una deliberazione. Resta sempre ben inteso che la deliberazione del soggetto comunionale consiglio pastorale parrocchiale consiste nella maggioranza dei voti espressi dai fedeli del consiglio a cui deve aggiungersi – in modo, ovviamente, libero – il voto concorde del parroco.

Per spiegare più chiaramente quanto appena detto o forse per renderlo più facilmente accettabile, ci viene ancora in aiuto quella che credo una forte analogia con la celebrazione eucaristica. E, in effetti, l’assemblea liturgica è da intendersi a modo di soggetto comunionale, composto dai fedeli presenti e dal sacerdote in qualità di presidente e quindi in posizione gerarchicamente superiore. La santa messa è celebrata non solo dal sacerdote, bensì dal sacerdote e dai fedeli, i quali agiscono congiuntamente, appunto – come detto – formando un soggetto comunionale, restando però ben inteso che per la validità della santa messa è sempre necessaria la presenza-presidenza del sacerdote.
settimananews