«Si commetterebbe un suicidio se, dopo la pandemia, si tornasse agli stessi modelli pastorali di prima»

Così in una lettera ai sacerdoti della sua diocesi, quella maltese di Gozo, mons. Mario Grech, pro-segretario generale del Sinodo dei vescovi qualche giorno fa. Un’esortazione molto forte dal quale siamo partiti per un confronto a tutto campo su limiti e risorse pastorali emerse in questo periodo di confinamento forzato a causa della pandemia. Una situazione, sottolinea in un dialogo con «L’Osservatore Romano» e Vatican News, che «ha scosso le fondamenta che pensavamo incrollabili, come abbiamo osservato nel settore economico, scientifico, politico». Una situazione inedita che non poteva non investire anche la Chiesa. «Papa Francesco — osserva il presule — continuamente fa un richiamo riguardo il bisogno della conversione pastorale». E questo, aggiunge, lo si è avvertito in modo evidente durante la pandemia quando sono emerse nuove «esperienze che ci aiutano a contemplare il volto di Cristo».

Mons. Grech mette in guardia dal ridursi a una «chiesa della sagrestia, ritirata dalle strade, o che si accontenta di proiettare la sagrestia nella strada». Osserva quindi che questi ultimi mesi di isolamento, sofferenza e dolore sono stati anche «un’opportunità (un kairos) per l’aggiornamento e la creatività pastorale» e questo deve convincerci che non possiamo ritornare «alle modalità che impiegavamo prima della pandemia». Un periodo che, ammonisce, ha fatto anche emergere tra alcuni cristiani, consacrati e laici, «uno schema di forte clericalismo». Il presule maltese cita le parole di Georges Bernanos sul “cristianesimo decomposto”. «A che vale la professione della fede — si chiede — se poi questa stessa fede non diventa lievito che trasforma l’impasto della vita?».

Di qui la riflessione muove verso la dimensione della “chiesa domestica” che ha avuto un rinnovato impulso in questi ultimi mesi contraddistinti dal lockdown. Mons. Grech osserva che un certo clericalismo ha logorato, fin dal iv secolo, «la natura ed il carisma della famiglia in quanto chiesa domestica». E ciò nonostante che il concilio Vaticano II abbia recuperato la nozione della famiglia come chiesa domestica (Lg 11, aa 11) e abbia sviluppato l’insegnamento sul sacerdozio comune (Lg 10)». Per il pro-segretario del Sinodo, «com’era nei primi secoli, anche oggi la famiglia potrebbe essere una sorgente di vita cristiana». Inoltre, «in quanto struttura basilare e permanente della Chiesa, dovrebbe essere restituita alla famiglia, domus ecclesiae, una dimensione sacrale e cultuale». Rammenta che sia sant’Agostino che san Giovanni Crisostomo hanno insegnato, sulla scia del Giudaismo, che «la famiglia dovrebbe essere un ambiente dove la fede possa essere celebrata, riflessa, e vissuta. È dovere della comunità parrocchiale aiutare la famiglia ad essere scuola di catechesi ed aula liturgica dove possa essere spezzato il pane sul tavolo della mensa familiare. I genitori, in virtù della grazia del sacramento del matrimonio, sono i “ministri del culto” i quali durante la liturgia domestica spezzano il pane della Parola, pregano con essa, e così avviene la trasmissione della fede ai figli». L’amministratore apostolico di Gozo auspica che il Signore moltiplichi i tanti esempi di famiglie «creative nell’amore», pronte nella «creazione di spazi per la preghiera come nella disponibilità verso i più poveri».

Altrettanto importante nel dopo pandemia sarà per mons. Grech «il ministero del servizio», la diaconia anche come “nuova” via di evangelizzazione. «Lo spezzare del pane Eucaristico e della Parola — avverte — non può avvenire senza lo spezzare il pane con chi non ne ha, “i poveri sono teologicamente il volto di Cristo”». La diaconia, prosegue il presule maltese, «è la via maestra per far sperimentare l’amore cristiano. Il Vangelo si comunica non solo con la predicazione, ma anche con il servire. L’avvicinamento di tanti alla Chiesa non avviene per merito del catechismo ma per via di una esperienza diaconale significativa. Come dice il Papa, se scendiamo tra i poveri, scopriamo Dio». Mons. Grech condivide quindi quanto scrittogli da un operatore umanitario dopo il salvataggio di un gruppo di migranti in mare grazie all’impegno della sua diocesi. «Purtroppo — si legge nel messaggio ricevuto — mi è capitato spesso in passato di vedere incomprensioni tra la Chiesa e le persone, anche non cristiane, di buona volontà. Oggi le cose stanno cambiando, e queste sentono la Chiesa come amica perché ascolta il grido dei poveri e cerca di soccorrerli».

In questo «cambiamento d’epoca», secondo mons. Grech, «il contributo che la Chiesa può, o meglio deve, dare a questa società, è annunziare Gesù Cristo, la gioia del Vangelo». E questo ancor più considerando, come rammentato dal Papa nel Discorso alla Curia romana per gli auguri natalizi del 21 dicembre scorso, che in Europa e in gran parte dell’Occidente la fede cristiana «non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata». Grech riprende la celebre osservazione di De Lubac ne Il dramma dell’umanesimo ateo secondo cui «non è vero che l’uomo […] non possa organizzare il mondo terreno senza Dio. È vero però che, senza Dio, non può alla fin dei conti che organizzarlo contro l’uomo». Al contempo, rileva che in questa pandemia delle volte «le considerazioni economiche e finanziarie hanno avuto il sopravvento sul bene comune». Una dinamica che va corretta.

Nel dialogo con i media vaticani, mons. Grech si sofferma infine sul «dono della sinodalità come stile di vita ecclesiale». Dono fatto dallo Spirito Santo alla Chiesa. «Il cammino sinodale — afferma riprendendo Papa Francesco — è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio» e sottolinea che «come dinamismo di comunione, la sinodalità è anzitutto una integrazione affettiva di tutti i partecipanti; nello spirito del dialogo, tutti possono contribuire per arrivare alle convergenze». Per il pro-segretario del Sinodo dei vescovi, «pur essendo un termine che appartiene al lessico ecclesiastico, la sinodalità è proponibile anche alla società civile. Adottata come principio operativo dal mondo laico, la sinodalità potrebbe essere uno stile che corrobora i rapporti inter-personali e la fratellanza umana. La sinodalità è un antidoto contro la chiusura e ci aiuta ad apprezzare il bello della comunità». Certo, ammette, «camminare insieme non è un’impresa molto facile sia nella Chiesa che nella società, tutti abbiamo bisogno di allenarci in questo esercizio così vitale per il futuro». E guardando al prossimo Sinodo, incentrato proprio sul tema della “sinodalità”, mons. Grech auspica che «sia la riflessione antecedente alla celebrazione del Sinodo che il lavoro dei padri sinodali possano offrire un contributo in questa direzione».

di Alessandro Gisotti /osservatoreromano.va