Serena Noceti: teologia, l’ascesa delle donne

Appartiene alla seconda generazione femminile che insegna teologia: agli studi teologici, infatti, l’altra metà della Chiesa può accedere dal 1965. E le piacerebbe che Papa Francesco convocasse «un Sinodo delle donne sulle donne, per la valorizzazione e il riconoscimento delle differenze nella Chiesa». Vulcanica nel suo fisico minuto, Serena Noceti ha la passione ecclesiale nel sangue fin da giovanissima, coltivata negli anni del liceo classico durante i corsi di lettura ed esegesi biblica organizzati dal suo docente di religione, maturata nell’esperienza in parrocchia e al Sinodo diocesano. Passione nutrita dalla concezione di popolo di Dio, di matrice latinoamericana, e “condita” di letture trasversali: da Simone Weil alla ricerca sociologica di Jürgen Habermas. Senza dimenticare l’attenzione all’ecumenismo e ai teologi protestanti Dietrich Bonhoeffer, Jürgen Moltmann, Wolfhart Pannenberg.

Perché ha optato per gli studi teologici?

«Per una motivazione di natura ecclesiale e pastorale: desideravo una conoscenza biblica più approfondita e la scelta degli studi ecclesiologici è stata motivata dalla possibilità di avere strumenti e parole per pensare e dire la fede, da condividere con il popolo di Dio. Quindi ho concepito lo studio della teologia con un approccio critico, segnato anche da una carica trasformativa della realtà e da una funzione di orientamento verso il futuro».

Un bilancio del suo percorso accademico: quali difficoltà e soddisfazioni?

«Nell’iter formativo non ho avuto particolari difficoltà, mentre è stato più problematico l’inserimento nel percorso accademico e di ricerca, così come il riconoscimento istituzionale. Una delle più grandi soddisfazioni? L’incontro con le Chiese locali, la possibilità di offrire la propria competenza ed esperienza a tanti gruppi diversi. Poi lo spazio di ricerca nell’Associazione teologica italiana (con il presidente don Roberto Repole, ad esempio, stiamo lavorando su commentari scientifici ai documenti del Vaticano II) e la scelta di avere nel Coordinamento teologhe italiane un gruppo che non sia autoghettizzante o chiuso in se stesso, ma che valorizzi l’apporto specifico delle teologhe al dibattito ecclesiale e culturale italiano».

Che spazio hanno oggi le teologhe nelle Università pontificie?

«Uno spazio in crescita, ma anche segnato da forti resistenze. Aumenta il numero delle donne, sia come discenti che come docenti, tuttavia mancano concorsi e processi di cooptazione che permettano alle teologhe di offrire maggiormente il loro contributo professionale; inoltre molte devono fare un altro lavoro per mantenersi: un problema per tutti i laici teologi, uomini e donne. Succede qui in Italia, mentre in Germania o negli Stati Uniti il contesto è diverso. Un altro problema è la mancata recezione nei documenti magisteriali e in quelli diocesani del pensiero teologico delle donne».

L’aumento della presenza femminile nella Commissione teologica internazionale cosa le fa sperare?

«Mi sembra una fase di passaggio molto importante e autorevole, un periodo di recezione fondamentale del Concilio a 50 anni di distanza e 25 anni dopo la Mulieris dignitatem. Sul piano operativo e pratico, ma anche simbolico: penso alla nomina di suor Mary Melone come primo rettore donna di un’Università pontificia. Inoltre Papa Francesco ha nominato l’italiana Bruna Costacurta e la spagnola suor Nuria Calduch Benages nuovi membri della Pontificia Commissione biblica. Vuol dire che nella Chiesa le donne cominciano a essere ascoltate pure in ambito istituzionale, come soggetti del pensare teologico, con parole necessarie per la vita ecclesiale nel suo insieme e negli orientamenti pastorali. Per troppo tempo la parola delle donne è stata in-audita. Nell’intervista su “La Civiltà cattolica” il Papa aveva denunciato la tentazione del maschilismo, auspicando una presenza femminile più incisiva “nei luoghi dove si prendono le decisioni importanti”».

Può sintetizzare quale fu l’apporto delle donne al Concilio?

«Il Vaticano II segna uno spartiacque: anche se i riferimenti diretti al tema “donna” si circoscrivono a una decina di citazioni nei documenti promulgati e il “Messaggio alle donne” consegnato alla fine dei lavori appare segnato da un impianto patriarcale, con il Concilio sono garantiti alle donne i presupposti del riconoscimento di piena soggettualità ecclesiale sulla base del battesimo, oltre alle opportunità reali di una presenza visibile e di un’azione autorevole. Nel post-Concilio sono aumentati gli ambiti pastorali per le donne: catechiste, operatrici della carità e della liturgia, coordinatrici pastorali di comunità e missionarie, presenti negli organismi ecclesiali nazionali e internazionali, nelle associazioni e nei movimenti laicali. Certamente si tratta di un passaggio, però, che si alimenta di tanti passi fondamentali vissuti dalle donne in campo culturale, sociale, politico ed economico».

Nella Chiesa del terzo millennio in quali ambiti si potrebbe dare più spazio alle donne, teologhe comprese?

«In tutti quelli in cui le donne sono già abitualmente presenti; si tratta però di superare quei soffitti di cristallo fatti di stereotipi e di maschilismo, perché sono necessari spazi di vera sinodalità. Penso, ad esempio, alla ministerialità della coppia fondata sul sacramento del matrimonio o all’approfondimento della maschilità».

Pensa che la misoginia sia ancora presente in ambito sociale ed ecclesiale?

«Purtroppo assistiamo al persistere di pregiudizi tra i laici e nel clero. Una visione patriarcale segna ancora la catechesi, la struttura ecclesiale, la liturgia; il riferimento esclusivo alla donna sposa e madre è ancora matrice interpretativa, mentre la sua parola di rado è riconosciuta come autorevole: per ampi tratti la teologia resta maschile e clericale, con un linguaggio androcentrico, anche se cresce in quantità e qualità la produzione teologica delle donne».

«Vedo profilarsi dei tempi in cui non ci sarà più ragione di sottovalutare animi virtuosi e forti per il solo fatto che appartengono a donne». Parole profetiche del dottore della Chiesa Teresa d’Avila, di cui nel 2015 si celebrerà il quinto centenario della nascita.

«Molto rimane da fare per diffondere “alla base” gli strumenti interpretativi necessari e per maturare “al centro” nuovi equilibri organizzativi. Promuovendo concretamente forme e strutture in cui la voce delle donne possa contribuire al bene comune ecclesiale, per offrire prospettive “altre” rispetto a quelle del solo clero».

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