Se canti pregare è più facile

Padre Armando Pierucci

Facce belle della Chiesa

01 settembre 2020

Tra musica e preghiera la vita di padre Armando Pierucci a Gerusalemme

Tra l’ultima “faccia bella” presentata in questa rubrica e quella di questa settimana passano una sessantina d’anni di differenza, ma identici rimangono vigore, vivacità e fede profonda. In effetti padre Armando Pierucci è un “giovane” frate minore di 85 anni che sprizza ancora dal suo saio francescano un’inusitata energia giovanile e con ancora tante idee per la testa. Ottantacinque anni, di cui più di settanta spesi correndo senza posa lungo quel binario che è stato la cifra della sua vita: la fede e la musica.

«Sono più di 70 anni che vesto questo saio e più di 60 che sono sacerdote. Entrai in convento per la formazione che avevo poco più di dieci anni. Allora si usava così. Si cresceva nella la vocazione e la vocazione cresceva con te. Mio padre era un maniscalco qui nelle Marche, sono cresciuto in mezzo ai cavalli. Ero un ragazzino introverso e anche un po’ scontrosetto, finché non incontrai l’amore della mia vita: la musica, che mi cambiò nel profondo dell’anima e mi rese più socievole. Anche se, devo dire, ancora oggi mi è più facile scrivere musica che parlare. La mia fede fecondava l’istinto musicale e la musica alimentava la mia fede: dopo tanti anni ancora non ho capito quale venisse prima. Forse entrambe, perché nella musica c’è una traccia di Dio».

Così nel 1957 padre Armando fece la professione solenne nell’ordine dei frati minori e l’anno dopo venne ordinato sacerdote. «I miei superiori hanno sempre assecondato e agevolato la mia vocazione musicale», racconta. «Nel 1959 mi mandarono a Roma dove rimasi cinque anni per diplomarmi in canto gregoriano. Poi andai al Conservatorio di Napoli, dove ero anche organista a Santa Chiara. Quindi tornai a Pesaro ad insegnare, dove rimasi fino agli anni ottanta, quando con una certa sorpresa ricevetti dal Custode di Terra Santa, padre Ignazio Mancini, l’invito a trasferirmi a Gerusalemme. Il Custode non era molto soddisfatto del supporto musicale alle liturgie dei santuari di Terra Santa e così voleva che un musicista si unisse alla compagine dei francescani gerosolimitani. Così nel 1988 mi ritrovai a Gerusalemme, alloggiato presso il seminario francescano, e con l’incarico di organista della basilica del Santo Sepolcro. Vivevo con i novizi perché il Custode voleva che avessero un’erudizione musicale sufficiente ad adempiere al loro ministero, e così le prove del loro coro divenivano in effetti un percorso attraverso la cultura della musica sacra. Loro amavano molto le chitarre e i ritmi moderni. Io non sono un purista, però credo fermamente che puoi fare ogni genere di musica solo se prima hai saputo apprezzare la musica bella, quella “alta”». E la storia della Chiesa di musica “alta” ne ha prodotta tanta. «Si può essere moderni — osserva il religioso — ma mai approssimativi o sciatti. Guardi che il mio non è un atteggiamento elitario: al contrario. Per esempio ho un grande rimpianto per quelle melodie popolari che tutti conoscevano e cantavano, come T’adoriam Ostia divina o Mira il tuo popolo, che sono finite ormai in soffitta; erano belle melodie, facilmente cantabili e “pregabili”. Musicalmente non abbiamo forse ancora recepito appieno il messaggio del Concilio: la partecipazione del popolo».

Mentre viveva a Gerusalemme in tanti chiedevano a padre Armando di imparare a cantare e suonare. «Fu così che molto semplicemente nacque la scuola di musica, il “Magnificat”. Per farmela approvare usai uno stratagemma: la proposi come ultimo punto all’ordine del giorno del capitolo custodiale del 1995, quando ormai i padri capitolari erano tutti stanchi e con la voglia di tornare a casa», ricorda con un sorriso furbetto. «Cominciammo in due, mi aiutava una musicista palestinese, Hannah Soudah Sabbara. Insieme a lei davamo lezioni di piano e solfeggio. Cominciarono a venire diversi ragazzi e ragazze, molti dei quali non avrebbero mai potuto permettersi una scuola di musica. Ma quello che rendeva ancora più affascinante l’esperienza era che i giovani erano indifferentemente arabi ed israeliani, cristiani ma anche ebrei e mussulmani. Negli anni vissuti in Terra Santa non ho mai visto un altro ambiente così misto e concorde: la musica supera ogni steccato. Rimaneva però un problema: le melodie che insegnavamo pur con tanta serietà rimanevano poco più che un hobby per i nostri studenti: dovevamo invece dimostrare loro che di musica si può anche vivere».

E l’opportunità venne attraverso l’aiuto di un’amica e sostenitrice, Anita Tavasani, che favorì il contatto con il Conservatorio di Vicenza, con il quale venne avviata una proficua collaborazione. «Oggi il Magnificat rilascia titoli accademici del Conservatorio di Vicenza riconosciuti dallo stato italiano, funzionando come una sua sede distaccata», sottolinea padre Armando. «All’inizio la scuola era gratuita, affidandosi solo alla generosità delle offerte; poi abbiamo messo delle piccole rette principalmente per dare un profilo di professionalità, ma sono temperate dall’elargizione di molte borse di studio». Attualmente la scuola è frequentata da trecento studenti sotto la guida di 18 maestri. Molti sono ormai i giovani che usciti dal Magnificat hanno intrapreso la carriera di musicisti ed orchestrali, in Israele e in Europa. E ogni anno ensemble coristici o orchestrali vengono in Italia per una tournée. «Padre Armando — ci dice fra Alberto Pari che gli è succeduto alla direzione del Magnificat a Gerusalemme — è un artista che ha fortemente creduto in un sogno e lo ha realizzato, riuscendo a far nascere un angolo di bellezza nella complessità della realtà della città vecchia di Gerusalemme».

Mentre costruiva la scuola fra Armando continuava anche nel suo ruolo di organista al Santo Sepolcro. Nel luogo più santo che c’è sulla terra non si può suonare sottovoce, così usavo spesso registri gravi e sonori. Questo all’inizio turbava un po’ i religiosi delle altre confessioni cristiane in quel delicato equilibrio che è lo status quo. Ma col tempo la musica cominciò ad affascinare anche i fratelli orientali, e con alcuni di loro ho cementato nel tempo straordinarie amicizie». Frate Giuseppe Gaffurini è stato “suo” cantore al Sepolcro: «Come sul candeliere brilla la luce, sulla gravità della sua persona splende un sorriso luminoso», ricorda con riconoscenza.

E poi la composizione, che non ha mai smesso nel corso di tutti questi anni, e che è l’attività che più lo appassiona. Via Crucis, De profundis, The burian of Moses at Mount Nebo, un oratorio dedicato a San Michele; solo per citarne alcune. Il suo piccolo capolavoro negli anni gerosolimitani sarà la originalissima Sinfonia eucaristica eseguita anche nella sede Onu di Ginevra e trasmessa in mondovisione da decine di televisioni per l’esecuzione dell’orchestra del Conservatorio di Matera. Si tratta della raccolta di brani per solisti, coro ed orchestra, usati nelle celebrazioni liturgiche di dodici tradizioni cristiane diverse: armena, ortodossa, melchita, siriaca, copta, etiope, caldea, maronita, protestante, latina, eccetera. Una straordinaria ed emozionante prova di ecumenismo musicale: l’introito agli armeni, il salmo agli ortodossi, l’alleluia ai melchiti, il Santus ai latini, e molti altri, ognuno interpretandolo con i propri abiti liturgici. «Questa è la vera ricchezza della Chiesa che ho voluto rappresentare, e cioè che in ogni dove, in ogni lingua, in diverse melodie, in ogni tempo, noi tutti comunque preghiamo insieme».

Il nesso tra musica e preghiera ricorre spesso nella conversazione, perché sarebbe ingiusto rappresentarlo unicamente come musicista: padre Armando è soprattutto un uomo di profonda spiritualità e preghiera. «È come una serie di matriosche», dice Elisabetta, un’amica di lunga data. «La prima è sicuramente quella del musicista e compositore, la seconda è quella del letterato e scrittore, l’ultima e più interna è quella dell’uomo di fede, un mistico che si nutre quotidianamente della Parola di Dio, e questa è la matrioska che nutre e fa vivere le altre».

Un uomo, un religioso di una mitezza ed umiltà straordinarie. «L’ho sempre visto con un solo saio, estate e inverno, caldo e freddo non lo attaccano — riprende padre Giuseppe — ma è straordinario come in lui riescano a coniugarsi mitezza e determinazione: i suoi sogni li porta avanti sempre fino al compimento. «Macché, si schermisce lui, quel po’ di buono che gli altri vedono in me è solo grazia che il Signore mi ha donato. Come pure la musica: sì, io ci avrò pure studiato e lavorato tanto sopra, ma il dono originario viene dal Signore. Ancora oggi dall’alto dei miei anni mi chiedo perché abbia voluto essere così generoso con me. Io mi sento solo un “servo inutile”. Spero solo di essere riuscito a ritrasmettere agli altri un po’ del bene che ho ricevuto. E se non con le parole, almeno con la musica. Che per me è più facile».

di Roberto Cetera

Osservaore Romano