Scriveva Karl Popper che perché una democrazia liberale resti in piedi è necessario che sia sorretta da una “solida tradizione”, nella fattispecie da una “struttura morale”

Scriveva Karl Popper che perché una democrazia liberale resti in piedi è necessario che sia sorretta da una “solida tradizione”, nella fattispecie da una “struttura morale”: il costituzionalismo – la separazione dei poteri, la blindatura dei diritti fondamentali, una Corte Suprema, quella Costituzionale, posta a presidio della rigidità della Costituzione stessa … – è essenziale, ma non è sufficiente, trattandosi di mere (per quanto solenni) astrazioni.

Le pietre angolari della democrazia liberale devono insomma essere interiorizzate dai cittadini, cosicché fenomeni antidemocratici e antiliberali non giganteggino e possano essere ben gestiti o neutralizzati dal sistema politico-istituzionale. Il popolo italiano, lo si dica senza alcuna pretesa “scientifica”, ma semplicemente muniti di buonsenso e di una pur sommaria conoscenza dell’Italia, anche quella pre-politica (dalle descrizioni dantesche della penisola, al “familismo amorale”), non è predisposto allo stabile mantenimento di tutte le innovazioni sociali, politiche e giuridiche che hanno fatto dell’Occidente il posto meno invivibile del globo, ma se l’è un po’ ritrovate, specie dal secondo dopoguerra in poi, quando le spinte verso lidi, per così dire, “non occidentali” sono state annichilite da onde anomale di denaro a debito.

Allora, quando i fenomeni antisistema erano per tali ragioni (e non per una qualche struttura morale) minoritari, nel Belpaese veniva praticato il più efficace espediente per la protezione della democrazia. Ed era efficace proprio perchè era in qualche modo a metà tra il proibizionismo politico-ideologico (si potrebbe ri-citare Popper e lo stra-citato paradosso della tolleranza) che finisce sempre per mettere la democrazia parlamentare di fronte una contraddizione strutturale e di ammantare del fascino del proibito le posizioni antisistema, e dall’altra, l’agnosticismo “weimeriano” che rende le democrazie non protette vulnerabili all’ascesa di movimenti antidemocratici e antiliberali.

La “terza via” di cui stiamo parlando era la conventio ad excludendum, che permise la lunga traversata della democrazia italiana, per quanto si trattasse di una democrazia bloccata o di una quasi-democrazia, per un dopoguerra assai difficile, accogliendo a bordo – ma fuori dalla plancia di comando, con un’unica blanda eccezione che comunque confermò la regola, visto la durata del governo Tambroni – il più grande partito comunista dell’Occidente e un partito neo-fascista, “autenticato” dalla presenza di ex gerarchi di regime.

L’anno scorso alle politiche (e quest’anno alle europee, ma a parti invertite) a vincere le elezioni sono stati due partiti antisistema: uno strutturalmente, programmaticamente e orgogliosamente antiparlamentarista e l’altro esplicitamente suprematista, nonché aduso a scambiare le autorità di pubblica sicurezza per guardie pretoriane del sovranisticamente corretto. E sono stati questi due partiti a porre in essere una conventio, un vero e proprio contratto, adexcludendum verso Renzi e Berlusconi, gli unici due guardiani del faro liberal-democratico rimastici (suona stranissimo, specie per il secondo, al quale esplicitamente si diede del duce per un intero ventennio, con messinscene da “il regime è alle porte”, imbavagliamenti in diretta televisiva e girotondi in piazza; ma anche per il secondo, additato per tutta la campagna pre-referendaria del 2016 quale responsabile di una prossima ventura deriva autoritaria; quando si urla “Al lupo! Al lupo!”…).

I due suddetti partiti, M5S e Lega, ben lungi dall’istituzionalizzarsi, hanno iniziato adaggredire gradualmente l’edificio liberal-democratico, i primi con un riforma orwelliana della giustizia e l’approvazione in tre letture di un legge di revisione costituzionale che – in combinato disposto con una legge “sull’applicabilità delle leggi elettorali” e con l’eventuale introduzione del referendum propositivo – minimizza il parlamento, la cattedrale della democrazia, a favore del plebiscitarismo; il secondo con la personalizzazione e la banalizzazione del ministero dell’interno – istituzione sacra al punto che, prima di Alfano, nessuno nella storia della Repubblica andò al Viminale da capopartito, giusto per esorcizzare il rischio di contaminarlo di faziosità – con un approccio a metà tra Jerry Calà e Mario Scelba, oltreché ovviamente con l’approvazione di due decreti sicurezza cattivisti e presumibilmente anticostituzionali e la sistematica presa in ostaggio di naufraghi disperati.

Il tutto senza citare né i programmi di politica economica simil-latinoamericani e lo spostamento del baricentro geopolitico verso regimi autocratici, cui ambiscono ambedue i gemelli antisistema né la subordinazione psicologica (visto che in termini di rapporti di forza intra-parlamentari sono messi assai meglio) dei pentastellati al Capitano, del quale non solo hanno avallato silenziosamente, quando non con partecipazione attiva, i più disumani provvedimenti, ma che hanno persino salvato, loro iper-giustizialisti, da un sacrosanto processo per cattivismo, giustificandosi con formule degne del peggior azzeccagarbugli.

Adesso, in vista del passo falso del “Capitano”, ex genio, e dei due forni nuovi di zecca a disposizione del M5S, ci si sforza per capire cosa sia meno pericoloso tra salvinismo e grillismo. Questa gentaglia – perché tale è chi vuol smontare la democrazia liberale, in questi casi l’ostilità politica non può non trascendere nell’antipatia umana, per dirla con un eufemismo – potrebbe beneficiare o di una ri-legittimazione (M5S) o di un ritorno all’ovile e conseguente ri-conferma al Viminale nonostante un errore grossolano da politico simil-dilettante.

Se Salvini comunque non era, col senno di poi, in una posizione win-win, come una diffusissima psicosi ci aveva fatto credere, è la democrazia a trovarsi invece in una posizione lose-lose: comunque vada, in attesa del risveglio di nuovi poli non populisti, ci teniamo sempre in equilibrio sull’orlo di un precipizio politico-istituzionale.

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