Ritratto di Oliver Messiaen, il teologo musicale

Olivier Messiaen (1908-1992) è stato un compositore, pianista, organista e ornitologo francese

Pubblichiamo un estratto della prefazione del teologo e musicologo Pierangelo Sequeri al volume di Gian Vito Tanoia Quando la musica colora il tempo. Musica e Teologia in Olivier Messiaen (Edizioni La Scala. Pagine 156. Euro 14,00). A 25 anni dalla scomparsa, un saggio esaustivo sul Messiaen “spirituale” e cattolicamente ispirato, volto alla ricerca di un nuovo «Musikgeist», ossia di un nuovo orizzonte e di un nuovo futuro per l’umanesimo dello spirito. Il libro di Tanoia va dunque nella direzione della «riscoperta» del Maessien cattolico.

Una cosa è certa. Olivier Messiaen è cattolicamente ancora da scoprire. Il fatto che sia semplicemente ignoto, più ancora che ignorato, basterebbe per gettare una seria ipoteca sulla reale serietà della cantilena alla moda sul dialogo tra fede e bellezza. La perdurante ignoranza su Messiaen, a suo modo, è certamente anche un sintomo, e in definitiva anche una componente, di una consistente tendenza religiosa al puro e semplice rigetto della sfida simbolica che ci impegna nel mutamento del codice musicale. Questa pregiudiziale opposizione, del resto, non ha mancato di aggredire direttamente Messiaen, in modo spesso malevolo, nella sua stessa contemporaneità. La sfida epocale si concentra in un luogo simbolico preciso: la fine dell’esclusività dell’abitudine tonale come spirito-guida dell’armonia della musica e del mondo. Religiosamente parlando, questa rottura è apparsa a molti come l’ennesima violazione dell’ordine divino nella natura e nell’arte. La portata simbolica di questa fine del monopolio tonale, però, com’è noto, non riguarda soltanto la musica ecclesiastica. Nella realtà, del resto, la sua decifrazione non è così semplice come sembrerebbe, ascoltando i nostalgici e, rispettivamente, i dissacratori per partito preso. E in certo modo, se la consideriamo nella sua concretezza, ossia dal punto di vista della condizione che di fatto abitiamo, la questione è molto più intrigante di come appare attraverso il filtro degli opposti estremismi.

Nell’esperienza comune, la cultura musicale diffusa della nostra contemporaneità occidentale vive in un regime di sdoppiamento. (Di fatto i tentativi, per lo più commerciali, del suo superamento si chiamano, pudicamente,cross-over). In pratica, continuiamo tranquillamente a cantare e a suonare canzoni “popolari”, totalmente immerse nella infinita ripetizione e variazione dei moduli tonali, e simultaneamente componiamo mu- sica “colta” nel solco degli esperimenti di rottura di questo codice, alla ricerca di un nuovo linguaggio musicale della dissonanza.

Possiamo scegliere semplicemente fra i due mondi, come in un’ennesima versione della disputa fra gli “antichi” e i “moderni”? Non è così semplice. Da un lato, perché noi non “sentiamo” la nostra musica di espressione e di consumo come arcaica. Nello stesso tempo, per il fatto che tutti in realtà, sono consapevoli del fatto che l’arte “alta” deve creare innovazione, anche radicale, se vuole rimanere all’altezza della sfida da cui è nata. Non possiamo rassegnarci a copiare i modelli del passato. E sappiamo anche che tutte le svolte della nostra civiltà musicale hanno generato qualche rottura. La rottura radicale con l’abitudine tonale è una di quelle svolte? E in quali termini, esattamente? Quale apertura va assimilata? Quale codice va superato? Il nostro orecchio, che pure ha già fatto passi avanti, rimane ancora perplesso: perlomeno, fatica ad orientarsi, per mancanza di criteri ben definiti che lo aiutino a distinguere il buon grano dalla zizzania. La nostra mente, a quanto sembra, sta già cercando di recuperare il tempo perduto. Ritorna, nella persistente indifferenza della politica e della pedagogia, un nuovo fervore di conoscenza fra i giovani ricercatori per l’estetica e la filosofia della musica, intesa come forma di pensiero e di civiltà. Non sarà una via breve: ma la direzione è quella giusta.

Messiaen è l’interlocutore adatto per questa esplorazione: anzi, per molti aspetti, egli appare un testimone unico delle potenzialità di questo scavo. Soprattutto se lo si considera dal punto di vista dell’interesse propriamente religioso per l’apertura di una nuova fase della partecipazione dello spirito cristiano al rinnovamento della cultura musicale che ci è assegnato come compito dal passaggio d’epoca. Il fatto che ci fosse un musicista cattolico a Parigi, proprio nei decenni in cui si era fatto più aggressivo il progetto di rimozione culturale della religione, aveva certamente di che stupire i contemporanei. Eppure, la combinazione degli elementi che veniva a definire il profilo di questa figura sembrava in grado di resistere alla critica di maniera. L’esplicita referenza “teologica” della stragrande maggioranza delle opere, che rivelava una inconsueta dimestichezza con i testi delle sacre scritture e con la spiritualità della dogmatica cristiana, appariva totalmente inedita.

Nello stesso tempo, l’inaudita serenità della sua invenzione di una vera e propria poetica “spirituale” della dissonanza, iscritta nella cornice di una rigorosa coerenza “visionaria” del sistema espressivo, non si lasciava decifrare in base ai luoghi comuni. Il mondo della dissonanza emancipata era stato assunto come la bandiera della secolarizzazione e della decostruzione del mondo cristiano-borghese. Messiaen lo faceva apparire come un magico prisma della rivelazione di un mondo trasfigurato. I colori e i ritmi di questa trasfigurazione irradiavano suoni di contemplazione e di attesa, di struggimento e di pace, nel mondo triste e grigio della disillusione che aveva trafitto il secolo breve con le sue “inutili stragi”. E nelle risonanze arcane delle armoniche di quelle dissonanze rivelatrici, lampeggiava l’invito ad abitare le risonanze eterne dell’intimità di Dio. L’intimità di Dio alla quale la creazione rispose, all’inizio, con il canto delle creature alate, il continuum delle acque e dei venti, i ritmi della terra e del cosmo. Quella stessa intimità della quale, ora, possiamo udire anche il canto d’amore e di passione che ha preso corpo nel Figlio e nei misteri della sua vita terrena e celeste.

«Io sono credente e credo nella creatura e nell’uomo, che sono creature di Dio. La mia musica guarda alla natura e parla all’uomo per celebrare la gloria di Dio» (O. Messiaen). L’insieme dei tratti che compongono l’intero della figura – la persona e l’opera, l’invenzione musicale e la radice credente – ha una sua profonda unità. E deve perciò essere oggetto di analisi da ogni lato. La figura e l’opera di Messiaen fanno tutt’uno: ed è proprio l’autenticità e la trasparenza di questa unità ad aver impressionato il mondo musicale. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che questa genuinità spirituale, insieme con l’immensa cultura musicale e la spontanea disponibilità pedagogica, hanno condotto alla frequentazione di Messiaen le menti più brillanti della nuova avanguardia musicale, per lo più del tutto estranea al suo orientamento cattolico e metafisico.

L’autenticità di questa anomala figura di “teologo musicale”, come amava definirsi, gli ha guadagnato il rispetto di compositori e musicisiti di prima grandezza: ammirati, nello stesso tempo, dalla genialità musicale con la quale dava linguaggio coerente alla rottura tonale e restituiva felicità musicale alla sua capacità spirituale. Olivier Messiaen è stato senza alcun dubbio, per il mondo dell’arte musicale della prima metà di un secolo difficile, quello che Maritain e Gilson sono stati in filosofia, o De Lubac e von Balthasar in teologia.

da Avvenire