Risorsa preziosa. L’mpronta umana sull’acqua mina il futuro del Pianeta

L'mpronta umana sull'acqua mina il futuro del Pianeta

Il 2007 aveva inferto una sberla alla nostra visione del mondo. Quell’anno, il piatto della bilancia con gli urbani del pianeta è divenuto più pesante del piatto contrapposto: quello con la gente dei campi, che a inizio Novecento rappresentava invece il 90% dell’umanità. In questo 2018 incassiamo un’altra sberla che risveglia da tanti torpori: più della metà dei tratti di mare del globo sono ormai battuti dalle flotte pescherecce salpate dai porti di ogni dove, secondo una ricerca appena riassunta sull’autorevole rivista Nature. In altri termini, la pesca industriale rastrella una superficie marina quattro volte più estesa di tutti i campi coltivati. In cifre, circa 200 milioni di chilometri quadrati. Nel 2016, la superficie marina sfruttata era già il 55% del totale. Il risultato scaturisce da calcoli ciclopici, grazie alla cooperazione di diversi poli accademici nordamericani (Stanford, l’Università della California e quella canadese di Dalhousie), della National Geographic Society e del progetto ‘Global Fishing Watch’, spalleggiato da Google e da ong innovative come Sky Truth, fondata dal geologo statunitense John Amos, divenuto un asso nell’uso militante delle immagini satellitari. In tutto, basandosi su dati registrati a terra o dai satelliti, sono stati elaborati 22 miliardi d’impulsi emessi per 4 anni dai sistemi automatici anti-collisione dei battelli di maggiore stazza, in giro per i sette mari.

Dopo questa ricerca, potremo ancora leggere allo stesso modo un capolavoro come Moby Dick, con le sue distese blu infinite che sfidano l’intendere umano? Ma letture a parte, l’odierno sfruttamento ipertrofico delle risorse marine pone dilemmi inediti sugli equilibri planetari. E a ben guardare, le due sberle a un decennio di distanza non sono per nulla estranee fra loro. Anzi, si guardano reciprocamente allo specchio. In entrambi i casi, l’umanità scopre i limiti della principale risorsa per la vita sul pianeta: l’acqua. Il grande problema delle megalopoli del XXI secolo rischia d’essere la penuria d’acqua potabile. Entro il 2050, una città su due potrebbe dover razionare le scorte, secondo uno studio condotto dall’Università di Kassel (Germania), anch’esso appena messo in vetrina da Nature. Certi aggregati urbani saranno troppo grandi per non restare a secco, almeno a singhiozzo. Ma come per le città, anche nel caso della pesca industriale forsennata praticata negli ultimi decenni, s’impiega la stessa metafora: l’’impronta’ sull’acqua. Con buona pace delle grandiose scene romanzesche melvilliane, l’umanità scopre che l’acqua del pianeta, dolce o salata che sia, diventa una risorsa finita. Almeno se la si paragona, nelle regioni più urbanizzate, alla capacità di consumo delle megalopoli. O, fra un oceano e l’altro, ai livelli parossistici raggiunti dalla pesca industriale.

Se certe soluzioni tecnologiche avanzate (come gli impianti di dissalazione di nuova generazione, ad energia solare) potranno forse alleviare e talora risolvere il nodo dell’acqua potabile, il problema dell’altra impronta dovuta alla pesca forsennata rischia di rivelarsi ancor più delicato. Sembra averlo capito pure l’Europarlamento, pronto, lo scorso febbraio, a dare una piega ecologica imprevista a una risoluzione che chiede ormai uno stop totale, per le flotte europee, della ‘pesca elettrica’. Ovvero, quella che impiega reti ad impulsi elettrici, praticata finora estensivamente soprattutto dagli olandesi. Il testo preparato dalla Commissione intendeva estendere le già ampie deroghe esistenti al divieto formale, permettendo una maggiore diffusione degli ‘attrezzi da pesca innovativi’. Ma alla fine, ha prevalso la prudenza. Un’ampia maggioranza trasversale a trazione molto francese e mediterranea (402 voti contro 232, con un ruolo importante dei Verdi, ma anche il sostegno di qualche conservatore inglese fra i firmatari degli emendamenti decisivi), ha chiesto alla Commissione di mettere al bando la tecnica, presentata dai più ferventi abolizionisti come ‘una vergogna per l’Europa’. Al Parlamento francese, è stata poi adottata il 6 marzo, da una compatta maggioranza trasversale, una risoluzione abolizionista anch’essa dai toni particolarmente duri.

Il braccio di ferro fra favorevoli e contrari durava da oltre un decennio, a colpi di argomenti invocati come ‘ecologici’ da entrambi i campi. Per la fazione liberista, la pesca elettrica riduce i tempi medi di permanenza in mare dei battelli, facendo consumare meno carburante e dunque evitando inutili emissioni di gas a effetto serra. Senza considerare lo stress in meno per gli equipaggi. Inoltre, rispetto alla pesca a strascico tradizionale, le reti elettriche eviterebbero di raschiare i fondali alla ricerca delle specie piatte, risparmiando anche gli esemplari più giovani, meno sensibili al ‘richiamo’ elettrico. Ragionamenti, questi, considerati tutti capziosi e pelosi dal campo abolizionista, guidato dai francesi, pronto ad enfatizzare gli effetti potenzialmente devastanti per l’equilibrio degli ecosistemi mostrato da vari studi scientifici, le sofferenze inflitte a pesci e cetacei, i danni irreparabili nel tempo per le flottiglie costiere dedite ancora alla pesca artigianale.

Fuori dagli emicicli parlamentari, per una volta, il dibattito ha infiammato pure tanti non specialisti. In Francia e non solo, in particolare, si sono schierati con gli abolizionisti anche celebri chef da ristorante, riuniti in cordata. Spesso senza dirlo, hanno dato ragione alle tesi dell’ormai scomparso antropologo Claude Lévi-Strauss, per il quale una pietanza, per essere davvero apprezzata, deve innanzitutto sembrare ‘buona da pensare’. E in proposito, come chinarsi con l’acquolina in bocca su una sogliola, dopo aver appreso che questa specie ha rappresentato finora il primo bersaglio dei grandi pescherecci a reti elettriche? Da qui, gli efficaci manifesti proibizionisti con tanto di pesci luminescenti pronti ad essere serviti nel piatto.

Oltre che sui codicilli giuridici, le grandi battaglie ecologiche internazionali di questi decenni sembrano decidersi non di rado pure sull’efficacia di una metafora o di un simbolo. All’Onu, ad esempio, amano ancora ricordarlo a proposito della campagna vittoriosa che riuscì a proibire i gas industriali responsabili del famoso ‘buco nell’ozono’ (i Cfc, cluorofluorocarburi). Prima che venisse coniato quell’efficacissimo slogan sintetico, il ‘buco nell’ozono’, tanti appelli non avevano trovato eco nella società. Benché simbolici, i successi parlamentari provvisori e circoscritti sulla ‘pesca elettrica’ ed altri nodi riguardanti la preservazione delle risorse marine (la palla passa adesso anche ai vari Stati Ue) non dovrebbero ispirare facili ottimismi. La sfida epocale delle ‘impronte’ umane sull’acqua – le megalopoli che aspirano acqua dolce, la pesca industriale che tende a spopolare gli oceani –, richiede probabilmente ancora nuove metafore azzeccate capaci di far cogliere le immani poste in gioco, anche ai più distratti. Al di là delle apparenze, allora, sarebbe probabilmente un errore fatale relegare in soffitta odissee morali ‘oceaniche’ e zeppe di simboli come quelle di Melville. Laddove arrancano i regolamenti tecnici, si può sempre sperare di trovare l’amo giusto nei mari sterminati degli immaginari letterari e in generale dell’immaginazione umana.

da Avvenire