Riscoperte. Chiaromonte, storia di un’eresia controvoglia

Il critico Filippo La Porta nel suo ultimo saggio indaga la vita e l’opera di uno dei più misconosciuti e interessanti intellettuali del ’900, assai affine a Pasolini
Nicola Chiaromonte, filosofo e politico nato a Rapolla (Potenza) nel 1905, morto a Roma nel 1972

Nicola Chiaromonte, filosofo e politico nato a Rapolla (Potenza) nel 1905, morto a Roma nel 1972

da Avvenire

Basta leggere la Nota biografica che apre l’ultimo libro di Filippo La Porta,Eretico controvoglia. Nicola Chiaromonte, una vita tra giustizia e libertà(Bompiani. Pagine 144. Euro 11.00), per rendersi conto di quanto intensa e ricca, di quanto libera e privilegiata – seppure votata a una specie di esilio perenne -, sia stata la vita di questo saggista anomalo: uno dei più singolari del Novecento italiano, ma anche dei più misconosciuti. Bene ha fatto, allora, La Porta, a erigere non dico un monumento (tantomeno aere perennius), ma almeno una lapide a quello che fu un maestro d’irregolarità, non per niente inscritto dal critico tra tra quelli “disorganici” e “involontari” del secolo scorso, come recita il titolo d’un volume stampato per le Edizioni di Storia e Letteratura meno d’un anno fa. Se si eccettua l’eccellente e frondosa biografia di Cesare Panizza pubblicata da Donzelli nel 2017, non abbiamo quasi nulla di organico e articolato sulla vita e l’opera di questo intellettuale militante, ma disingaggiato, che oggi, in tempi di macerie ideologiche, possiamo avvertire quale fraterno interlocutore: dico il sodale di Ignazio Silone non di rado vituperato dalla sinistra ufficiale – col quale fondò una rivista indimenticabile come Tempo presente, che durò dal 1956 al 1968 e che ebbe tra i collaboratori parte della migliore giovane intelligenza italiana: da Leonardo Sciascia a Alberto Arbasino, da Elémire Zolla a Vittorio Gorresio, solo per dire di nomi che testimoniano d’una disposizione sempre plurale, dell’assoluta mancanza di pregiudizi dei due direttori.

Dicevo della biografia di Chiaromonte (il lettore appassionato di Platone, Proudhon, Herzen, Tolstoj): che lo vede, lui nato il 12 luglio 1905, formarsi a Roma sino al 1934 (per riapprodarvi definitivamente nel 1953), poi esule antifascista in una Parigi che lascia nel 1941, per tornarci però nel 1949, dopo un lungo soggiorno newyorkese. Chiaromonte, consumata un’iniziale infatuazione dannunziana, diventa discepolo di due maestri eccentrici come Adriano Tilgher (che nel 1925 aveva osato dare alle stampe Lo spaccio del bestione trionfante, stroncatura del pensiero di Giovanni Gentile) e di Ernesto Buonaiuti (il prete padre del modernismo poi scomunicato), i quali, in qualche modo, gli prepararono una strada altrettanto solitaria, mentre guadagna subito l’amicizia del socialista Andrea Caffi (pacifista intransigente e irriducibile critico dell’Unione sovietica) e di Mario Pannunzio, di Alberto Moravia e del critico letterario Paolo Milano, ma l’omicidio Matteotti lo costringe presto a un avvicinamento a Piero Gobetti e poi, negli anni Trenta, alla cospirazione antifascista nei gruppi di Giustizia e Libertà.

Senza dire della partecipazione, nel 1936, alla guerra di Spagna, quando s’arruola nella leggendaria squadriglia aerea di André Malraux. Fondamentale poi l’amicizia con il simpatetico Albert Camus, che conosce ad Algeri nel 1941, ma va anche ricordata quella con Leo Valiani e Aldo Garosci, che incontra per la prima volta a Casablanca. Vorrei sottolineare l’importanza del capitolo in qualche modo fondativo intitolato La passeggiata di Nicola. Mi convince molto -e mi piace assai – questo Chiaromonte che ciondola di mattina, si dissipa e fa pigre soste tra via Po e Villa Borghese, tra una luminosa via Veneto (così lontana da quella notturna e felliniana) e Piazza Fiume. Vi ritrovo quasi la traduzione in biologia di quella disposizione, solo apparentemente divagante, del personal essay caro a La Porta – che nasce con Montaigne, ma che si nutre soprattutto del senso di responsabilità dell’empiristica e anti-ideologica tradizione inglese – , di cui Chiaromonte ci ha dato testimonianza esemplare, al cui limpido moto argomentativo sapeva assoggettare tutti i temi che gli stavano a cuore. Tra gli altri: il primato dell’etica sulla politica; il continuo senso della “misura”; il dovere di essere sempre se stessi, di essere autentici insomma, anche nell’ineludibile momento di recita sociale; il rifiuto dell’imperativo a essere a tutti i costi moderni (che, contro il diffuso psicologismo, lo porta persino a un’interpretazione non negativa del senso di colpa); l’assoluta non acquiescenza al «mondo com’è»; l’idea di «un’epoca di malafede», ovvero «di credenze mantenute a forza»; un anticomunismo «intransigente e filoatlantico», ma nemico risoluto dell’«egomania» («una nuova barbarie»), e cioè d’una concezione che riduce l’esistenza a mero consumismo; attrazione e insieme repulsione per l’Italia, e decisa avversione per ogni nazionalismo; ma si potrebbe continuare.

Così come mi persuade a fondo – all’incrocio tra pensiero greco classico ed esistenzialismo cristiano-, la definizione che La Porta conia quando vuole restituircene la vocazione autentica, profonda, e parla di ‘umanesimo scettico, malinconico », avversario giurato di quell’«umanesimo fanatico» che è – sono parole di Chiaromonte – «il peggior nemico dell’uomo perché ben deciso a non lasciare in pace nessuno, vista la terribile sicurezza che egli ha di sapere `what is good for you’». Inattuale dentro la più compromessa inattualità, scrittore di idee rigorosamente individuali, chiare e distinte, ancorate all’esperienza e al senso comune, avverse a ogni tipo di assolutizzazione e mitizzazione, Chiaromonte non contrappone un’ideologia a un’altra ideologia, «ma cerca nella letteratura e nel teatro, nel passato culturale (e nella sua alterità), i necessari anticorpi morali». Degna di nota (e del tutto condivisibile) è la presa di distanza di La Porta dal giudizio – a suo dire limitativo di Chiaromonte su Manzoni e dalla avversione di questi sempre più netta nei confronti del cinema, giudicato privo di profondità. Ma se devo segnalare il capitolo più originale e stimolante del libro, non avrei dubbi a indicare quello dedicato al rapporto con Pasolini, due «laici aperti al sacro» «nell’epoca della desacralizzazione», «due reazionari» di sinistra: parimenti eretici.