Ricominciamo: tra pazienza e coraggio

Sono un parroco in una parrocchia di una grande città. Ho dovuto – come tutti – reinventarmi il ministero nel tempo del Covid-19. La pastorale non si è mai fermata, le parrocchie sono state «chiese aperte», sia fisicamente, per una visita, come segno di una invocazione mai interrotta, sia con una creatività che andrebbe riconosciuta. Ma non è questo che mi preoccupa, perché il servizio al popolo di Dio ha nella discrezione un sigillo di gratuità.

Ci sono stati preti che per paura si sono paralizzati e chiusi nelle loro case, parrocchie che hanno azzerato la loro attività, ma credo che siano un numero risibile. Forse abbiamo addirittura esagerato nel cercare visibilità, nell’inventare modi eccentrici di far presente la cura pastorale frutto più dell’agitazione che di un pensiero accurato.

Ma tutto sommato il segnale – al nostro popolo di Dio – credo sia arrivato: le parrocchie non hanno chiuso, la pastorale non si è mai fermata. In particolare, nel fornire strumenti per la preghiera e la cura della fede (celebrazioni domestiche, messe in streaming, rosari in collegamento, lectio giornaliere della Parola di Dio, pensieri “della buona notte”, catechesi on line…) e nel far fronte alla povertà che bussava alle porte delle comunità parrocchiali (spesa solidale, pacchi viveri, sostegno di ascolto…). Qui abbiamo dato il meglio di noi stessi con creatività e con dedizione.

Toni ideologici

Restava il vuoto della celebrazione dell’eucaristia con il popolo di Dio. Non è che sia mancata l’eucaristia, diciamolo chiaramente. I preti hanno continuato a celebrare per il popolo di Dio, anche in sua momentanea assenza. E il popolo di Dio ha continuato a vivere un legame con l’eucaristia sia celebrando la Parola nelle case, sia con i diversi possibili collegamenti digitali. Ovviamente tutti sentiamo che questi sono modi insufficienti e parziali di vivere quel momento centrale per la vita della comunità che è la Messa, in particolare nella Pasqua settimanale che è la domenica.

Ad un certo punto questa «privazione» – qualcuno l’ha chiamata giustamente «digiuno», che è una pratica con un suo senso spirituale del tutto nobile – è diventata campo di una battaglia che ha assunto toni ideologici. Da una parte, chi si sentiva negato di un “diritto” e ha alzato la voce: «Ridateci la santa Messa», come hanno gridato alcuni per forzare una ripresa a qualunque costo, come se si fosse leso un diritto di culto. Dall’altra, sembrava che chi invitava alla pazienza non avesse a cuore la centralità dell’eucaristia («protestanti» o «gnostici» sono alcuni appellativi ingenerosi che sono stati usati).

In questo clima ecclesiale hanno fatto la loro parte attori estranei, di carattere politico, pronti a prender parte dell’uno o dell’altro, da “atei devoti” o da intellettuali che si sono improvvisamente sentiti teologi. La mancanza di una regia della Conferenza Episcopale Italiana, che nei primi mesi è sembrata afona, ha fatto il resto. E lo scivolone del governo prima e del comunicato CEI immediatamente dopo hanno composto la «tempesta perfetta». Io mi sono sentito del tutto estraneo a questo infuriare del dibattito, ai toni accesi e contrapposti, ma insieme irritato, tirato in mezzo, perché alla fine tocca a noi ora cercare la mediazione che altri non hanno saputo costruire.

fedele

Situazione complessa

Mi sembra che ci siano tre sensibilità – tutte pertinenti – da comporre. La prima è una domanda reale del popolo di Dio di poter celebrare l’eucaristia insieme. È anche la mia che sento quanto mi manchi, soprattutto la domenica, il poter celebrare la fede con la mia gente. È quella di molti credenti che vivevano la domenica come il centro della loro fede e del loro essere Chiesa. Non è un «diritto del singolo», non è solo una devozione personale, perché se viene così intesa torniamo ad una immagine preconciliare della celebrazione.

Certamente ci sono correnti ideologiche che stanno cavalcando questo frangente per riaffermare una concezione dell’eucaristia che metta in questione le novità del Concilio: il ruolo centrale dell’assemblea, il ruolo di servizio e non di «potere» del ministro, il carattere ecclesiale del corpo di Cristo ecc. Prestarsi a queste pressioni preconciliari è stata – a mio avviso – una ingenuità, forse neppure percepita dei nostri vescovi.

La seconda sensibilità è quella di chi invitava alla prudenza per motivi di sicurezza. Molti miei parrocchiani – forse perché siamo un una città epicentro del contagio – hanno accolto con preoccupazione l’invito a tornare, in queste condizioni, a radunare un grande numero di persone che per un tempo significativo sostano in un ambiente chiuso. Tutti i paragoni con le tabaccherie e i supermercati sono fuori luogo a mio parere. E per certi versi irrispettose: appunto, la Chiesa non è un supermercato, e la comunione non la si viene a «prendere» (sic!) come un kilo di mele!

C’è infine una terza sensibilità che mi pare sia stata la più ignorata da tutti (ahimè anche dai comunicati ufficiali della Chiesa). La celebrazione dell’eucaristia ha un suo linguaggio e una sua dignità. Ci sono dei livelli minimi sotto i quali rischiamo di celebrare in un modo che contraddice il senso dei segni che poniamo in atto. Pensiamo a che cosa vuol dire celebrare il “sacramento del contatto” con tutta una serie di prescrizioni che il contatto lo vogliono e lo devono evitare; radunare un popolo in uno spazio che raccoglie, mentre la norma di comportamento è necessariamente guidata dal criterio della distanziazione; moltiplicare le assemblee di una comunità quando la celebrazione dovrebbe dire dell’unica mensa che tutti ci vede radunati ecc.

prete

Eppure, si deve!

Queste sono le condizioni reali nelle quali ci troviamo a riprendere a celebrare. Il rischio di un popolo di Dio diviso, il rischio di esporre al contagio sottovalutato, il rischio di stravolgere il codice simbolico del rito.

Eppure, si deve celebrare! Io ne sono convinto. Non possiamo solo attendere condizioni ideali che magari non arriveranno mai (e che non ci sono mai state peraltro: non è che prima celebrassimo bene e dignitosamente, che il rito fosse davvero un atto dell’assemblea radunata e non solo del prete presidente ecc.). Certo, le condizioni attuali ci espongono al rischio di una regressione nella qualità della forma celebrativa e non è un affronto dirlo esplicitamente. Ci chiederà più cura, più consapevolezza, più pensiero, più attenzione. Per questo mi avrebbe aiutato un invito che insieme al coraggio di chi con gioia torna a celebrare avesse anche invocato una pazienza e una prudenza nel farlo a piccoli passi.

Ogni celebrazione che faremo sarà ancora “imperfetta”, come sempre. Potremmo farlo con più calma se ci svincoliamo dall’agitazione (tutto subito, moltiplicazione dei riti senza criterio..) e da pressioni indebite. Se ci daremo il tempo e la gradualità di esercizi che ci insegnino a come comporre le diverse esigenze in campo. Per ora mi pare che la maggior parte delle energie la rischiamo di mettere in cose meramente funzionali: cartelloni indicativi simili a quelli dei cantieri edili, servizi di accoglienza simili al servizio d’ordine, la ricerca del materiale (a volte introvabile) per la sanificazione degli ambienti…

Io credo che ce la faremo. Confido nel fatto che il popolo di Dio potrà comprendere che sia possibile scambiarsi un segno di pace con uno sguardo (ormai neanche più con un sorriso!), perché il sensus fidei ci insegnerà a vedere con gli occhi della fede. Sapremo riconoscere anche nella distanza il convergere di un corpo, perché sappiamo che è lo Spirito che ci rende tempio. La distanza non ci fa paura; ce lo ha insegnato il Signore che ha preparato i discepoli a non temere il suo separarsi perché è la condizione del suo permanere in noi per mezzo del Paràclito. Guidati dalla Parola, che proprio il Paràclito difende in noi, sapremo di essere in comunione spirituale, sia stando a casa che celebrando insieme in condizioni precarie. Ma aiutateci a mettere le nostre energie migliori nell’affinare lo spirito, nell’intelligenza della fede, nella cura delle relazioni reali, nella coltivazione di una vita spirituale più forte di tutte le condizioni avverse. (settimananews)