Relazione di linguaggio… Il nome delle cose, ovvero allargare la percezione del vivente

di Davide Rondoni*

ROMA,  01 Ottobre 2012 (ZENIT.org).- E’ in corso il centenario del grande Giovanni Pascoli. Morì nel 1912. Molte sue poesie sono entrate nel patrimonio culturale comune, nonostante i ripetuti colpi inferti dalla scuola noioso-ministeriale. Ma forse non tutti sanno che il Giovannino di poesie delicate, fragili e tragiche, colme del senso di orfanità che oggi domina la cultura di quasi tutti dalle nostre parti, era un appassionato di scienza. Dai libri di un celebre astronomo del tempo, Flammarion, traeva immagini desunte dal linguaggio scientifico e che nelle sue poesie diventavano gli “sciami di stelle” e altre magnifiche vivissime metafore. Del resto è interessante ravvisare quante volte i ricercatori scientifici, per poter descrivere non con le formule ma con le parole gli oggetti della  loro ricerca, devono ricorrere a linguaggio poetico.

Chi infatti indaga sulla “luce fossile” cercando le origini dell’universo, o chi cerca di isolare nuclei di antimateria, di fatto descrive il proprio oggetto di ricerca ricorrendo a metafore, a linguaggio creativo. Pascoli – in piena epoca positivistica – lo sapeva e sapeva che tra poesia e scienza i legami sono più forti di quel che sembra. Lo dimostrava non solo il suo amatissimo Dante, ma anche l’esperienza di colui che additava come il perfetto “fanciullino” della poesia italiana, quel Giacomo Leopardi autore di trattati di astronomia – sempre loro, le stelle – insieme ai suoi immortali Canti. Far “della scienza coscienza”. Così indicava il poeta romagnolo la finalità della poesia. Come se appunto la ricerca che in ambito scientifico si faceva largo – con le fanfare di un’epoca allora come ora spesso idolatra nei confronti del lavoro scientifico – dovesse poi grazie alla poesia divenire acquisizione più profonda. Coscienza, non solo scienza.

La sua preoccupazione rimane ancor oggi valida. Se la scienza non diventa coscienza si riduce a presunzione di “incosciente” conoscenza del mondo e dei suoi  segreti. Ma la vita non si può conoscere “incoscientemente”, ovvero senza una percezione tesa ad abbracciarne tutti i particolari e le implicazioni. Il dato che la scoperta scientifica ci presenta, deve, per così dire, entrare nel poema che stiamo coscientemente scrivendo sul mondo. E la coscienza del poeta, come indicava ancora Pascoli, è al massimo attiva nell’atteggiamento fanciullesco, che non coincide con la beota ingenuità, bensì con un’attitudine allo stupore. Dunque con quanto dall’antichità viene indicato come condizione d’avvio della vera conoscenza. Nulla è contronatura come uno scienziato o un poeta scettico. Incapace di stupore.

L’orfano Pascoli, cantando la vastità dei mondi e l’estrema varietà delle presenze, richiama l’uomo che si sente così orfano oggi (Dio per i più non è un padre, ma una nube senza volto) a un’attività tenace sulla scienza. Un’attività dello spirito, si sarebbe detto un tempo. O quel che è l’attività suprema: la poesia, il poiein, il fare. Cosa fa la poesia, l’arte che pare la più inattiva e inutile? Fa attenzione, fa patimento, fa anima, fa gloria al minuscolo e all’infinito, fa ombra al chiaro e luce all’ombra. Fa vita. Per questo, mentre gli scienziati cercano di dare nomi memorabili e aderenti alla complessità dei fenomeni che indagano, si trovano a creare lingua poetica. E così, i poeti autentici, cercando i nomi alle cose che si presentano – anche grazie alle “scoperte” della scienza – allargano la loro percezione del vivente, lavorano, per dirla con Arthur Rimbaud, per sregolare i sensi con ragionevolezza. Ovvero allargandosi, calibrandosi, come fanno potenti strumenti scientifici, per evidenziare gli elementi sfuggenti e segreti della vita e del suo mistero.

* Poeta, scrittore
Consigliere nazionale Associazione Scienza & Vita