Racconto – La parola dell’anno. La narrazione che rappresenta il mondo

Il mondo è narrazione: soltanto in questo modo si palesano in parte i misteri insondabili del Principio in termini a noi comprensibili: così l’astrofisica narra il Big Bang, la Genesi ci dice dei Sei giorni, Esiodo della generazione degli dei, Platone dell’opera del Demiurgo, dei primordi Lucrezio e Ovidio. Anche la vita dell’uomo è una storia, «una storia strana e varia, piena di eventi», dice Jacques nel Come vi piace di Shakespeare: il mondo è un palcoscenico, sul quale gli esseri umani recitano, in sette età, le loro parti, con entrate e uscite secondo i casi. Ecco dapprima l’infante, che sbava in braccio alla balia, poi il bambino che infreddolito va a scuola, l’amante che sospira come una fornace; quindi il soldato baffuto «come un gattopardo», il giudice dalla pancia rotonda, il pantalone in ciabatte dalle gambe rinsecchite e con le lenti sul naso, la voce da maschio ridotta a falsetto bambinesco. L’ultima scena è una seconda infanzia: «Puro oblio, senza denti, senza occhi, senza gusto, senza niente».

A me pare che tanta letteratura “buona”, sacra o profana che sia, antica medievale o moderna, costituisca una sorta di “introito” alla celebrazione che verrà. Nella Messa tridentina, all’inizio, il sacerdote invocava: Introibo ad altare Dei: «Mi accosterò all’altare di Dio». «A Dio che allieta la mia giovinezza», si rispondeva. E veniva allora la proclamazione, ripresa dal Salmo 43: «Loderò te sulla cetra, o Dio, Dio mio: perché sei in tristezza, anima mia?». «Spera in Dio, perché potrò ancora cantar le sue lodi». Ogni volta che si celebra una Messa, la storia del mondo e dell’uomo riprende dal canto, dalla poesia: dal racconto. Introibo ad altare Dei, ripeterà beffardo Joyce nelle primissime righe dell’Ulisse, quel gioco liturgico tra il sacro e l’eretico che inaugura il modernismo.

Vorrei offrire un esempio novecentesco di introito letterario che si accosta al nocciolo interiore con forza davvero eclatante. Obliqua, indiretta, travolgente, essa mira alla ricerca dell’immortalità e della narrazione primeva: perché, inutile negarlo, la letteratura nei suoi momenti migliori mette in scena la ricerca della felicità (Odissea), del bello e del bene (Pindaro, Platone): o il loro tragico fallimento (Edipo re, l’Inferno dantesco, Re Lear). La storia è L’Immortale di Borges, il primo racconto nella raccolta intitolata, con la prima lettera dell’alfabeto ebraico, L’Aleph: come a dire il Bereshit, l’archè, il Principio di ogni narrazione. Tutto, qui, è contenuto in un manoscritto che una principessa ritrova nell’ultimo volume dell’Iliade tradotta in inglese da Pope nel Settecento: opera che le è stata venduta nel 1929 dall’antiquario Joseph Cartaphilus di Smirne poco prima di morire ed essere sepolto nell’isola di Ios.

Il manoscritto racconta di un cavaliere che proviene dalle rive del Gange giungendo a Tebe d’Egitto: cerca il fiume segreto che «purifica gli uomini dalla morte», ma muore egli stesso prima di proseguire. Il militare romano che lo accoglie, Marco Flaminio Rufo, tribuno di una legione di Diocleziano, decide di dar seguito all’impresa dello sconosciuto: la ricerca dell’immortalità, il sogno che gli uomini hanno sempre inseguito e al quale soltanto l’umanissimo Ulisse ha rinunciato quando Calipso gliel’ha offerto. Flaminio attraversa oasi e deserti a occidente dell’Egitto e avvista la Città degli Immortali: penetra nel suo labirinto interno, beve l’acqua che vi scorre accanto rugginosa. Un uomo, un troglodita, lo segue passo passo come un cane. Per via della sua «umiltà e miseria» Flaminio comincia a chiamarlo Argo, il nome del vecchio cane che dopo vent’anni riconosce per primo Ulisse nell’Odissea spirando subito dopo. Nella prima notte di pioggia che rinfresca il calore del deserto, Flaminio si accorge che Argo è tutto bagnato di acqua piovana e di lacrime. Lo chiama, gridando «Argo! Argo!». Il troglodita parla per la prima volta: «Argo», dice, «cane di Ulisse», e aggiunge un mezzo verso dell’Odissea: «Questo cane gettato nello sterco». Flaminio gli domanda allora cosa sappia del poema omerico. Argo, al quale il greco risulta faticoso, risponde: «Molto poco. Meno del rapsodo più povero. Saranno passati mille e cento anni da quando l’inventai».

La sorpresa, per il lettore, è di intensità e commozione senza pari: il troglodita è nientedimeno che Omero, il poeta che dà inizio alla nostra letteratura! Tutto diventa ora chiaro per Flaminio: essere immortali è poca cosa, lo sono tutti gli animali, «giacché ignorano la morte», mentre «la cosa divina, terribile, incomprensibile, è sapersi immortali»; la storia non è che una ruota di eterno ritorno, come nella religione indù o in Nietzsche. Omero, poi, gli racconta che la prima Città degli Immortali fu distrutta e quindi ricostruita su suo consiglio, «come un dio che avesse creato il cosmo e poi il caos», e gli narra, anche, della propria vecchiezza e dell’«ultimo viaggio che aveva intrapreso, mosso, come Ulisse, dal proposito di giungere presso gli uomini che non conoscono il mare e non mangiano carne salata né hanno nozione del remo».

Non conosco Introito più fulminante alla poesia — alla narrazione — euro-americana degli ultimi trenta secoli, né alla storia stessa dell’Occidente, fatta di continua esplorazione del mondo (e purtroppo della sua conquista). L’insegnamento di Omero ha su Marco Flaminio Rufo, ormai anche lui immortale, effetto duraturo, ma i due si separano quando raggiungono Tangeri. Flaminio attraversa, come fosse in un’odissea del tempo, la Storia: nel 1066 combatte a Stamford Bridge, nella battaglia che Harold d’Inghilterra vince contro Harald Hardrada di Norvegia solo tre settimane prima di cadere vittima a sua volta di Guglielmo il Normanno ad Hastings; nel settimo secolo dell’Egira redige in arabo, a Bulaq, sobborgo del Cairo, i viaggi di Sindbad il Marinaio, e descrive la Città di Bronzo delle Mille e una notte. Gioca a scacchi a Samarcanda; professa l’astrologia a Bikaner in India e in Boemia; vive a Kolozsvár in Romania e a Lipsia; acquista ad Aberdeen, in Scozia, nel 1714, i sei volumi dell’Iliade di Pope; intorno al 1729 discute l’origine di quel poema con Giambattista Vico. Giunge infine nel 1921 sul Mar Rosso: ricorda allora le mattine tebane di quindici secoli prima, beve l’acqua di un rivo limpido, e perde finalmente l’immortalità. Discute verità e autenticità del manoscritto, poi si rende conto che «quando s’avvicina la fine, non restano più immagini del ricordo; restano solo parole». Conclude, infine: «Io sono stato Omero; tra breve, sarò Nessuno, come Ulisse; tra breve, sarò tutti: sarò morto».

La meravigliosa parabola termina con la fine della vita del singolo individuo fisico. È un peana a Omero, che compare sin dall’inizio, forse, nella persona di Joseph Cartaphilus, nativo di Smirne e sepolto a Ios come l’antico cantore dell’Iliade e dell’Odissea: Omero, che diverrà nelle Altre inquisizioni l’Artefice per definizione della memoria umana. Ma l’Introito non era ad altare Dei? E dove è Dio nell’Immortale, ci si chiederà. Bene, è proprio all’inizio: perché in maniera tipicamente obliqua Borges colloca in epigrafe al racconto una frase proveniente dai Saggi di Francesco Bacone, che combina Platone con Qoèlet (nel Seicento attribuito a Salomone) e che recita al modo seguente: «Salomone dice: non c’è cosa nuova sulla terra. Come Platone immagina che tutta la conoscenza è ricordo, così Salomone proclama la sua sentenza che ogni novità non è che oblio». La conclusione non è di Qoèlet, ma di Bacone: tuttavia, citare Qoèlet vuol dire richiamare un testo centrale, e stupendo, della tradizione ebraico-cristiana: quello per il quale «ricercare ed esplorare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il sole è un’occupazione gravosa che Dio ha dato agli uomini, perché vi si affatichino». E del resto, l’ultimo capitolo del libro biblico raccomanda di ricordare il creatore nei giorni della giovinezza, di temere Dio e conservare i suoi comandamenti, «perché qui sta tutto l’uomo».

Quale Introito ha dunque costruito Jorge Luis Borges, l’Omero cieco di Buenos Aires!

di Piero Boitani

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