Quel linguaggio che unisce tecnologia e teologia

“Salvare”, “convertire”, “giustificare” sono verbi di chiarissima estrazione teologica che oltretutto giocano un ruolo fondamentale nella dogmatica cristiana. Ma nel convivio quotidiano con i nostri dispositivi portatili, “salvare” equivale a memorizzare un documento Word; “convertire” significa adottare un determinato formato elettronico; “giustificare” corrisponde ad aggiustare uniformemente il testo sulla pagina tra i margini sinistro e destro. Sarà stato il caso a infilare il linguaggio teologico in questo arcipelago della tecnica? Un involontario rigurgito della memoria? Oppure si tratta di un’apertura, per quanto fragile, a un altro livello di senso, una sorta di nostalgia, tenue ma insopprimibile, di Dio? Come scrive il teologo Bruno Forte, «farsi la domanda, forse, è già attraversare la frontiera, per scrutare nel regno del web gli abissi del cuore umano, che è, e rimane, il centro di tutto: questo cuore che insiste a essere inquieto, aperto e sempre in ricerca». È chiaro che la coincidenza dei termini non nasconde le colossali differenze di significato. Nella teologia cristiana, per esempio, anche se il protagonista umano è un necessario e autorizzato interlocutore dell’alleanza con Dio, solo il Soggetto trascendente può operare la giustificazione. Come ricorda san Paolo, questa è iustitia Dei, ossia opera salvifica che unicamente Dio può realizzare e che la Fede accoglie in libertà e obbedienza. La giustificazione non si confonde, nella grammatica cristiana, con una competenza individuale in grado di determinare la misura o il formato finale della propria opera. È anzi apertura, esposizione radicale e fiduciosa al sorprendente eccesso d’amore che ci viene da Dio. Eppure, l’atto di “salvare” un documento, un file, per quanto banale possa essere, dialoga con l’urgenza che scopriamo in noi di conservare, di proteggere una certa quantità di parole dalla vorace bocca del nulla, per mantenerle accessibili in un futuro che le faccia rivivere. La pratica di “convertire” non è un mero clic, del tutto inconsapevole: è anche una necessità etica di stabilire relazioni che siano sufficientemente significative, di vincere l’incomunicabilità grazie a ponti concreti che permettono l’incontro e la decodifica tra mondi vitali distanti e diversi. “Giustificare” esprime, da parte sua, la passione dell’estetica: il lavoro, sempre incompiuto, di dar forma a ciò che è informe; di riunire i frammenti nell’unità di una narrazione per non sentirci irrimediabilmente sconnessi e perduti; di far vedere l’invisibile nel visibile; il tutto nella parte; il massimo nel minimo. Entriamo così in un territorio che è tanto problematico quanto affascinante: i due ambiti, quello teologico e quello digitale, si configurano come fortemente distinti e metodologicamente separati. Ma ad avvicinarli c’è, tanto per cominciare, un elemento fondamentale: il linguaggio. E sappiamo bene quanto esso plasmi il nostro modo di abitare e di interpretare la realtà stessa. Per un lato, la riflessione teologica offre un contributo importante: ci sfida a pensare la tecnica da un punto di vista antropologico. E qui è importante capire quanto il web rappresenti effettivamente una svolta nella storia, visto che la tecnica ha cessato di funzionare unicamente come uno strumento per divenire, per la prima volta, un habitat umano. Ma da parte sua anche la rivoluzione digitale sfida la teologia. Il direttore dell’insospettabile “La Civiltà Cattolica”, Antonio Spadaro, è autore di un’opera-manifesto intitolata Cyberteologia, in cui sostiene che la logica della rete, con le sue potenti metafore, amplifica la nostra capacità di approccio alla trascendenza.

Avvenire