N el suo messaggio per la Quaresima il Papa «opera una chiarificazione fondamentale: la giustizia esprime sempre un profilo di gratuità, che la rende espressiva di un’opzione incondizionata per il bene dinanzi al male. Per cui sperimenta la giustizia non chi riceve un comportamento corrispondente al giudizio che si dà di lui, ma chi fa esperienza di un incontro che gratuitamente lo riconduce a ciò che è ‘suo’: che lo tratta, in tal modo, secondo la sua dignità e, anche quando abbia fatto l’esperienza del male, torna a dargli una strada per la realizzazione di tale dignità». Così Luciano Eusebi, ordinario di Diritto penale nella sede di Piacenza dell’Università Cattolica, commenta le parole di Benedetto XVI per il periodo di preparazione alla Pasqua.
«Solo chi si avverte corresponsabile del male e incapace di liberarsi da solo dal male – sottolinea – può essere un operatore di pace: una persona, cioè, la quale sappia ripetere simile dinamica nei rapporti intersoggettivi e accettare gli oneri anche materiali necessari per intervenire sui fattori produttivi di ingiustizie.
In questo senso, è vero che la stessa giustizia distributiva può davvero realizzarsi solo se si supera l’illusione di Adamo e di Eva – e dunque ‘nostra’ – secondo cui la felicità dipenderebbe dalla propria autosufficiente capacità di ‘afferrare’, quasi, i beni materiali, così da ‘affermarsi sopra e contro gli altri’: in radicale alternativa alla logica di Dio, che addita nell’accoglienza e nella testimonianza dell’amore l’unica strada davvero conforme alla realizzazione esistenziale di ciascun essere umano. Solo recuperando tale convinzione l’impegno per la giustizia sociale avrà un fondamento non solo contingente».
Qual è il cuore di questa visione?
Di certo l’idea della giustizia divina identificata nel «gesto dell’amore di Dio che si apre fino all’estremo», cioè nel manifestarsi di Gesù (così la prima Lettera di Pietro), come «giusto per gli ingiusti»: vale a dire come amore incondizionato il quale si rivela, nella risurrezione, pienezza di vita al di là della morte. Ciò esclude ogni rappresentazione della giustizia di Dio come applicazione del negativo dinanzi al negativo e, dunque, ogni possibilità di giustificare in riferimento a un presunto modello divino prassi comportamentali umane che si ispirino a quello schema. Essendo chiaro che il fallimento dell’uomo è connesso al suo rimanere radicalmente chiuso, nel male, all’amore di Dio, e non a un’iniziativa divina contro di lui.
Come può tutto ciò trovare applicazione negli ordinamenti giuridici odierni?
Le parole di Ratzinger possono ricollegarsi a quelle di Giovanni Paolo II contenute nel messaggio per la Giornata della pace 2002: «Nella misura in cui si affermano un’etica e una cultura del perdono, si può anche sperare in una ‘politica del perdono’ espressa in atteggiamenti sociali e in istituti giuridici nei quali la stessa giustizia assuma un volto più umano». Dal che deriva anche l’esigenza di una riprogettazione dei sistemi penali: i giuristi sono chiamati «a riflettere sul senso della pena e ad aprire nuove frontiere per la collettività » (così il messaggio per il Giubileo nelle carceri). Si tratta, d’altra parte, di un orientamento sulla giustizia assai vicino alle espressioni più alte, sebbene per molti versi inattuate, del diritto moderno: quando la Costituzione riconosce i diritti inviolabili dell’uomo a prescindere da qualsiasi giudizio sulle sue condizioni esistenziali, sulle sue eventuali responsabilità e sull’epoca della sua vita indica la prospettiva di una giustizia che non agisce secondo il metro della bilancia, che risponde con negativo a ciò che si giudichi negativo, ma che è chiamata a progettazioni pur sempre di bene, anche quando risultino umanamente impegnative, nei confronti del male.
Matteo Liut – avvenire 17/2/2010
«Solo chi si avverte corresponsabile del male e incapace di liberarsi da solo dal male, può essere un operatore di pace»