«Quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti» (Lc 14,1.7-14)

28 agosto

LA CENA DEL SIGNORE

(Pietro Morando, 1926 ca., Pinerolo, collezione privata)

«Quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti» (Lc 14,1.7-14)

Abbiamo trovato questo quadro, di un artista che ha sempre ritratto viandanti, cantastorie, giramondo… finché, un giorno, s’è immaginato Gesù a tavola con loro. Pur nella sua impronta metafisica, l’opera ha un merito: quello d’aver reso visibile una cosa impossibile. E, quindi, d’averla resa possibile, credibile, fattibile.

Già è difficile pensare di poter condividere la cena con degli sconosciuti, figurarsi con degli “sfigati” (la nuova categoria con cui i giovani hanno sostituito gli “ultimi”). Perché ciò si realizzi, oltre alla volontà c’è bisogno di altri ingredienti, uno dei quali è messo bene in evidenza dall’opera di Morando: il tavolo grande.

Ammesso pure che una convocazione di «poveri, storpi, zoppi, ciechi» si possa fare al ristorante, resta il fatto che un locale del genere non è alla portata di chiunque e che l’ospitalità vera si fa in casa. Dove, però, è fondamentale essere forniti di mobili predisposti all’accoglienza. Con un tavolo piccolo, non si potranno certo invitare a cena molte persone. Con un divano bianco, non si lasceranno entrare facilmente gli amici dei figli. Senza un letto per gli ospiti, è ovvio che si rinunci a essere ospitali…

Non basta auspicare l’accoglienza, bisogna spianarle la strada. Come facevano (e forse ancora fanno) in una parrocchia di Sanzeno, in Val di Non: tra le varie offerte portate all’altare c’era sempre una caffettiera. Che, finita la Messa, veniva consegnata a una famiglia, per usarla – almeno una volta durante la settimana – dopo aver invitato a casa propria qualche lontano. Sebbene ci siano mille altri modi d’essere accoglienti (che non passano attraverso l’offerta di un caffè), si tratta comunque di una bella idea per impegnarsi ad aprire la porta di casa.

Ha bisogno di spinte e di agilità, la misericordia. Di cristiani pronti a dare, quando è il momento, senza aggrapparsi a giustificazioni («Ora non posso, non ho tempo, mi manca il tavolo grande…»). Non ossessionati dalla ricompensa («Quanto ci guadagno?»). Contenti perché gli altri «non hanno da ricambiarti», avendo capito che c’è una felicità del dare scorporata dal pensiero del ricevere: in altri termini, che il dono è autentico se non prevede contropartite. L’aveva intuito, nel 1955, Elias Canetti, quando ha scritto: «Si deve saper dare anche senza senso, altrimenti si disimpara a dare».

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