Pubblichiamo l’omelia pronunciata dal vescovo Massimo Camisasca in Cattedrale a Reggio Emilia per la Messa in Coena Domini 

 

Cari fratelli e sorelle,

con la celebrazione di questa sera entriamo nel cuore dell’evento pasquale, nella passione, morte e resurrezione di Gesù Cristo. Desidererei che lasciassimo tutto quanto appesantisce e occupa i nostri pensieri e il nostro cuore per disporci al silenzio e all’adorazione: l’unico atteggiamento adatto per vivere gli avvenimenti che ancora una volta riaccadranno davanti ai nostri occhi.

Le letture di questa liturgia affiancano due racconti della Pasqua. Il primo, tratto dal libro dell’Esodo, narra gli eventi della Pasqua ebraica – pesach –, del grande passaggio che ha inaugurato la nascita del popolo di Israele e ha sancito l’alleanza con Jahvè. Il secondo racconto, tratto dal vangelo di Giovanni e riecheggiato nelle parole di san Paolo, descrive l’ultima cena di nostro Signore. Questi due eventi si parlano e si illuminano a vicenda. Mentre il primo è la figura, la profezia, l’ombra, il secondo invece è la realtà che era stata prefigurata, il compimento definitivo, la luce maestosa e splendente.

Infinitamente suggestivo è quindi il richiamo e la relazione tra questi due grandi episodi, così lontani nel tempo eppure così vicini nel loro significato. Considerarli insieme ci fa immergere nella storia della salvezza, nei lunghi tempi e nei grandi avvenimenti che hanno silenziosamente preparato la venuta di Cristo, nella paziente e ardente attesa di Dio affinché si compisse il suo progetto di redenzione. Vorrei ora lasciare queste riflessioni sullo sfondo, come un terreno fertile nel quale potere inserire e contemplare con maggior frutto l’evento che ci narra san Giovanni.

L’evangelista introduce con cura il radunarsi a cena dei discepoli nell’imminenza della Pasqua. Egli riporta tante espressioni che costituiscono la cornice dell’evento che sta per raccontare, i gradini che dobbiamo salire per affacciarci al mistero che sta accadendo. Vorrei soffermarmi in particolare su tre di queste premesse.

La prima: sapendo che era giunta la sua ora (Gv 13,1). È impossibile penetrare nei sentimenti del Maestro nel frangente della sua Passione. Possiamo solo sfiorare il suo animo, attraverso le parole che san Giovanni ci ha consegnato. L’ora è giunta. Certamente l’anima di Gesù è turbata (cfr. Gv 12,27). Tuttavia, come autorevoli esegeti hanno osservato, in Gesù non c’è solo turbamento. Gesù attende questa ora, attende il compiersi dei fatti che da lungo tempo si stanno preparando. È un’attesa che si è consumata nei secoli, che è iniziata nel cuore del dialogo tra il Verbo e il Padre, che è cresciuta pazientemente attraverso tutti gli avvenimenti della storia della salvezza. È un’attesa che desidera finalmente vedere il suo compimento. Ciò per cui Gesù è venuto sulla terra si sta per realizzare, la missione iniziata tra i suoi sta per giungere al suo vertice. Perciò in Gesù non c’è solo turbamento e tristezza, ma anche desiderio che il disegno del Padre si compia.

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Foto Archivio La Libertà

Ecco poi una seconda espressione: avendo amato i suoi, li amò sino alla fine(cfr. Gv 13,1). Sino alla fine. Non è certo possibile esaurire il significato di queste parole. Che cosa intuiamo? L’amore di Gesù per noi sta per raggiungere il suo culmine, il suo punto più alto, il suo compimento. La perfezione dell’amore è l’unità. Gesù sta dunque per realizzare la definitiva unità con noi, un’unità eterna, che rimarrà fino alla fine dei tempi. Una nuova manifestazione dell’amore divino sta per accadere. Gli anni, le parole, i gesti compiuti per i discepoli sono stati un anticipo. Ora il velo che copre il cuore di Dio sta per essere squarciato (cfr. Mt 27,51. Gesù vuole portarci nel seno del suo dialogo con il Padre: Padre, voglio che dove sono io siano anch’essi con me (Gv 17,24).

Gesù dunque attende che la sua missione possa giungere a compimento. Vorrei qui sottolineare una terza premessa che riporta Giovanni: sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani (Gv. 13,3). Gesù sta per compiere un gesto che era considerato indegno per gli stessi servi ebrei: lavare i piedi degli ospiti. Eppure san Giovanni ribadisce la sovranità assoluta di Cristo: tutto è stato posto in suo potere. Gesù pertanto è re e al contempo servo. Queste due dimensioni per noi sono in opposizione, ma per Dio no. Ciò che sta per realizzarsi è un atto completamente libero, consapevole, deciso da Gesù. Un atto pertanto in cui la sua divinità si manifesterà.

Dopo queste considerazioni, che cosa possiamo comprendere contemplando Cristo che si alza da tavola, depone le sue vesti, si cinge con un panno e comincia a lavare i piedi dei suoi discepoli, di tutti i suoi discepoli, persino quelli di Giuda, nel cui cuore il diavolo aveva già posto il seme del tradimento (cfr. Gv 13,2)?

Durante questa Quaresima, commentando l’episodio della Samaritana (cfr. Gv 4, 5-42), ho detto che per noi è semplice soffermarsi sulla sete del il nostro animo prova per Dio. Tuttavia poco spesso ci soffermiamo sulla sete che Dio ha di noi. Qui Giovanni ci rivela che cosa Dio è disposto a fare per mostrarcelo: Dio si inginocchia davanti a noi e tocca, pulisce e bacia quello sporco di cui persino noi ci vergogniamo – Tu non mi laverai i piedi in eterno (Gv 13,8). Non ci obbliga ad amarlo, ma si espone fino all’estrema spoliazione per potere suscitare in noi una risposta. E questa inimmaginabile umiltà di Dio può ottenere la vittoria che nessun altro potere potrebbe ottenere: la nostra resa, il nostro abbandono, il sì libero del nostro cuore – Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo (Gv 13,9). È una potenza sommessa che conquista e scioglie le nostre resistenze, le nostre avversioni e le nostre indifferenze. Egli ha sete di noi e mendica il nostro “sì”.

Quale timore di fronte a un Dio che non ha lesinato a umiliarsi, a lasciarsi torturare e uccidere per noi! La vera maestosità di Dio non si manifesta nei tuoni, nel vento impetuoso e nei terremoti, ma nel sussurro di una brezza leggera (1Re 19,12). Solo un Dio infinito poteva racchiudere la sua grandezza nella carne di un uomo e non essere sminuito nella sua divinità. Solo l’infinitamente grande poteva farsi infinitamente piccolo e non perdere la propria dignità. Nell’abbassamento estremo di Dio, avvertiamo di essere indegni di questo amore, più ancora che di fronte al palesarsi della sua grandezza. Quale cuore non desidera concedere almeno un po’ di sé a un tale amante?

Si intravede qui anche il legame profondo tra il gesto della lavanda dei piedi e l’istituzione dell’eucarestia, che oggi la Chiesa celebra. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare fino a che punto sarebbe arrivata l’offerta di Dio all’uomo. Nessuno avrebbe mai immaginato che Dio si sarebbe messo a totale servizio dell’uomo, a lavargli i piedi. Anche nel momento della consacrazione, Dio si rende disponibile, inerme, si consegna alle nostre deboli mani sotto le specie del pane e del vino.

Gesù si è inginocchiato davanti a Pietro, davanti a me, davanti a noi tutti, davanti a ogni uomo. Come è possibile non commuoversi? La memoria del suo amore per noi è un fuoco che ci purifica, acqua che ci risana, potenza che ci rigenera. Dio si è inginocchiato ai nostri piedi e ci ha servito. Allora il nostro inginocchiarci davanti a lui, la spinta all’adorazione che sorge in noi, non è più la sottomissione a qualcosa di più grande che ci incute paura, ma l’unica risposta possibile della creatura al gesto di amore folle e sconsiderato del suo Creatore.

Che la passione di Dio per noi sia il pensiero dominante di questo triduo!

Amen.

tratto da La Libertà