Provvida sventura? Rilettura manzoniana della pandemia

«Questo Manzoni ci darà da fare per tutta la vita». L’ha scritto Cesare Angelini, uno dei più acuti studiosi del grande autore milanese, ricordando come egli «abbia risolto i problemi del vivere e dello scrivere con estrema coerenza e puntualità; e che non è solo un consolato punto di arrivo delle nostre lettere ma un fertile punto di partenza per più belle prove».

Punto di partenza anche oggi e non solo per via del romanzo, ma anche per le altre opere: gli Inni sacri, l’AdelchiIl Conte di Carmagnola, le Odi civili. Come non ricordare in tempo di coronavirus — ha fatto notare lo storico Giuseppe Santarelli, anche lui studioso di Manzoni — la famosa espressione che si trova nel coro dell’atto iv dell’Adelchi, che Manzoni scrisse tra il 1820 e il 1822, a proposito di Ermengarda figlia di Desidero, re dei Longobardi e sposa di Carlo Magno che la ripudiò? Ermengarda, scrive Santarelli, «veniva da un popolo violento e oppressore che il Manzoni chiama “rea progenie”, ma finisce tra gli oppressi». Ebbene, il coro della tragedia dice all’infelice che muore in un monastero di monache: «Te collocò la provvida / sventura intra gli oppressi» e non ha altri desideri all’infuori di questo: «Al Dio de’ santi ascendere / santa del suo patir». La sventura ha dunque una funzione provvidenzialmente benefica. Tale è la valutazione che il Manzoni fa della vita; cosa d’una tristezza consolata, segnata da un segno di espiazione; quasi un nostro dolce purgatorio.

Alessandro Manzoni considera cristianamente la “sventura” di Ermengarda definendola “provvida”, cioè permessa dalla Provvidenza perché, ricavando il bene dal male, permette di riscattarsi e di mettersi non tra gli oppressori, ma tra la moltitudine degli oppressi che, attraverso il dolore, arrivano a vivere in una forma di pacata letizia. La “provvida sventura” richiama le parole che padre Cristoforo rivolse a Renzo indicandogli nel lazzaretto «lo sventurato Rodrigo. Può essere castigo, può essere misericordia». Cioè, la fine così miserevole di quest’uomo può essere punizione del male che ha fatto; ma può essere un tratto di misericordia che l’ha voluto nel lazzaretto a raccogliere amore e perdono; qui, dove qualcuno disfa col suo bene il male che egli ha fatto. C’è anche qui l’esaltazione della cristiana consapevolezza del dolore, idea fondamentale dell’etica del Manzoni poeta e prosatore. C’è il premio alla fiducia di padre Cristoforo; fiducia che, permettendogli di credere sempre nel trionfo del bene sul male, ne ha fatto un vincitore. Dei grandi peccatori del romanzo, don Rodrigo è quello che fa la fine più cupa («Verrà un giorno…»). L’Innominato è risorto al suono delle campane che annunciano l’arrivo del cardinale Federico; la monaca di Monza ha il suo riscatto. Ma don Rodrigo sembrerebbe condannato se si dimenticasse che l’uomo non muore mai solo, neppure nelle pagine del Manzoni. Nel momento in cui la sventura lo ha distrutto avviene l’insperato recupero e il «miserabile covile» su cui giace al lazzaretto par che diventi un trono di grazia che poggia sulla preghiera cominciata per lui nella chiesetta di Pescarenico «per quel poveretto che ci ha condotti a questo passo».

Sicché, anche «sulla deserta coltrice» (altro riferimento manzoniano) di don Rodrigo, il solo personaggio manzoniano della cui salvezza pareva quasi lecito dubitare, pare di vedere scendere Dio e il suo perdono. Don Rodrigo se ne va, afferrato «da una man dal cielo» dentro un lume di tranquillo mistero; e, nel vederlo scomparire, noi restiamo come quelli che hanno speranza perché «i miseri / seco il Signor solleva / e tutti i figli d’Eva / nel suo dolor pensò».

Quanti, fra tutti i colpiti dal coronavirus, si saranno salvati grazie a questa “provvida sventura”? Vien voglia di dire tutti, a cominciare dai medici, dagli infermieri, dagli assistenti fino a quelli che non hanno potuto asciugare le lacrime dell’agonia dei loro vecchi perché — altro riferimento manzoniano — «Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia».

di Egidio Picucci