PRODURRE FATTI, CAMBIARE LA VITA

N el fondo della crisi più dolorosa Be­nedetto XVI ha scelto la vigilia della festa di san Pietro e san Paolo, e il luogo del­la tomba dell’Apostolo delle genti, per ren­dere pubblico il progetto che da tempo gli stava a cuore: un dicastero per una nuova evangelizzazione delle terre delle «Chiese di antica fondazione»’. Annuncio ambi­zioso e umile: giacché afferma a chiare let­tere che l’eredità cristiana in molto del­l’Occidente è profondamente erosa. Av­versata, o semplicemente accantonata in una distratta eclissi di Dio. Occorre, dice il Papa, riportare la fede in Cristo nelle no­stre città secolarizzate. C’è un filo lungo e forte di continuità tra questo annuncio e la voce della Chiesa ne­gli ultimi decenni, dalla Evangelii Nun­tiandi
  di Paolo VI alla «nuova evangelizza­zione » evocata per la prima volta da Wojty­la nel 1979 a Nowa Huta, la città operaia polacca che sembrava essere stata co­struita per escludere la presenza di Dio fra gli uomini. E dunque la sfida lanciata og­gi da Benedetto viene da lontano; da un testimone passato da una mano all’altra, nelle crescente consapevolezza che l’Eu­ropa innanzi tutto, e più ampiamente il Primo Mondo, si stanno dimenticando della loro origine, e dunque anche di sé.
  Ratzinger stesso, prima della elezione, a­veva scritto di una Europa «svuotata dal­l’interno » proprio nell’ora del suo massi­mo successo; di un cedimento di forze spi­rituali portanti, di «una strana mancanza di voglia di futuro»’, di un oscuro «odio a sé». Il confronto con l’Impero romano al tramonto, aveva ammesso, si poneva. Co­me se l’Occidente andasse esaurendo il suo slancio vitale. E pensosamente il futuro Papa esaminava le tesi di Oswald Spengler, lo storico secondo il quale ogni civiltà, co­me un organismo, nasce, invecchia e muo­re. Ma le ultime righe di quel saggio del cardinale Ratzinger contraddicevano que­sta inesorabile ipotesi biologica: i cristia­ni, si diceva, devono concepire se stessi come «minoranza creativa» che riporti al­l’Occidente la sua eredità.
  Era il 2004. Pochi mesi dopo Ratzinger sce­glieva come nome quello di Benedetto, il patrono d’Europa. Poi pubblicava la
Spe salvi ,
dove evocava gli Efesini del tempo di Paolo, «senza speranza e senza Dio nel mondo»: e ne parlava come se quella gen­te di duemila anni fa ci somigliasse. Infine domandava apertamente: «La fede cri­stiana è anche per noi oggi una speranza che trasforma e sorregge la nostra vita?».
  Già: perché il Vangelo o è «comunicazio­ne che produce fatti e cambia la vita», co­me scrive il Papa, o non è niente. E allora questa Europa e questo Primo Mondo «svuotati», che han paura dei figli e del fu­turo, tesi al successo o impegnati a non pensare, si palesano come «terra di mis­sione ». Dove il cristianesimo è nato, cre­sciuto, dove ha alimentato gli uomini e le città e l’arte e intriso di sé la memoria, oc­corre di nuovo evangelizzare. Con umile coraggio, ricominciare a annunciare Cristo. Chi ha amato le parole della
Spe salvi ,
e quella provocatoria domanda – ma, il cri­stianesimo è ancora speranza che sor­regge la vostra vita? – ritrova lo stesso ac­cento nell’annuncio di ieri. La stessa sfi­da. Credete voi in Cristo? E com’è possi­bile allora che le vostre case e città siano così spesso smarrite, sfiatate, tristi, e i vo­stri figli si chiedano cosa fare di sé? La pro­fezia secondo la quale i mondi e le loro culture inevitabilmente decadono e muoiono, come alberi invecchiati, urta con la pretesa cristiana, diversa e unica. Il cristianesimo non finisce; se decade, perfino se sembra avviato a un naufragio, ricomincia. Non è pensiero, filosofia di uomini, che muore come ogni nostra co­sa. È altro, è quel Figlio che è nato fra noi, è morto e ha vinto la morte. Per chi ha fe­de in questo, il cristianesimo «produce fatti e cambia la vita».
  Dal sepolcro di Paolo una domanda lan­ciata a noi della parte ‘giusta’ del mondo, nelle nostre comode case e pretese e ga­ranzie. Domanda a noi, cui non manca quasi nulla. Davvero questo vi basta? Sie­te felici, davvero? Ma lo sapete infine, ha detto Benedetto XVI, che «c’è una fame più profonda, che solo Dio può saziare».

di Marina Corradi – avvenire