Praga, la città eterna dei dissidenti

Con gli occhi appiccicati allo schermo del suo smartphone, il ragazzo birmano sosta ai piedi del Museo Nazionale. Laddove nel ’69 Jan Palach si diede fuoco in segno di protesta antisovietica, Aung Zaw risponde ai messaggi degli altri “cospiratori” della dissidenza globale. Chi avrebbe immaginato che la bisbetica capitale dell’allora Cecoslovacchia sarebbe diventata la casa comune dei “signor no” di ogni dove. Dai protagonisti delle primavere arabe agli attivisti russi. Dai blogger cinesi alla nuova generazione di intellettuali birmani. Si ritrovano nella città che fu di Kafka e Kundera, nel nome del loro capostipite: Václav Havel.

Sono arrivati al Forum2000 che per la prima volta si è svolto senza il suo fondatore, morto un anno fa. «I nostri sogni si spengono quando voi accendete il riscaldamento». Con le sue provocazioni Yuri Zhibladze, presidente del Centro per lo sviluppo della democrazia e dei diritti umani di Mosca, si è cacciato in un sacco di guai. «Parlate di libertà, di regimi antidemocratici, ma poi – domanda – sareste disposti a restare al freddo per mettere in crisi il potere di Putin? Lui lo sa. E lascia che d’estate vi scaldiate con le buone intenzioni. Tanto l’inverno arriva sempre». Alle prime gelate la storia si ripete. Il Cremlino gioca al gatto con i topi freddolosi del Vecchio Continente. «La dipendenza energetica dal gas russo è una questione che pregiudica ogni vostra buona intenzione». La bruma che dall’alba galleggia sulle anse della Moldava annuncia la proverbiale inversione termica. Quando la nebbia e i camini della Parigi boema trasformano il tramonto sulla città magica e romantica in uno scenario mistico, dalla cui caligine sbucano i campanili e i trenta santi sul Ponte Carlo, protetti dalla spada scintillante di Bruncvík, il leggendario “cavaliere buono” che sconfisse il drago a nove teste.

Tarik Nesh Nash, noto cyberattivista marocchino, non ha dubbi. Oggi Bruncvík impugnerebbe un tablet: «Internet è un mezzo per coinvolgere i cittadini nella costruzione della democrazia, e i media ne sono uno dei pilastri». Dalle primavere arabe Tarik ha imparato che non bisogna solo combattere “il drago a nove teste” del potere incontrollato, «ma sconfiggere l’analfabetismo tecnologico e il divario digitale grazie al quale i regimi limitano la circolazione delle informazioni». Come in Birmania, dove secondo il cyberdissidente Min Yan Naing è ancora troppo presto per tirare il fiato. Le aperture concesse dalla giunta militare e la leadership indiscussa di una grande amica di Havel, l’indomita Aung San Suu Kyi, «devono fare i conti – spiega Naing – con un ritardo tecnologico voluto dai militari per isolare il Paese». Nei villaggi sperduti a ridosso delle risaie come nelle città più popolose «l’accesso al web è un miraggio. Crediamo – sostengono i giornalisti e attivisti Aung Zaw e Kyaw Thu – che in certe aree la gente neanche sappia dell’esistenza di internet». A Praga i dissidenti sono di casa. Alcuni vi trascorrono lunghi periodi grazie a finanziatori internazionali e programmi di scambio culturale. Soprattutto tra i vicoli della Città Vecchia possono fare due passi senza doversi guardare le spalle. Lo raccontano esorcizzando la paura sorseggiando una cioccolata calda nella sala da tè del Na Zábradlí, quel “teatro ringhiera” dal quale Vaclav Havel ha animato la “Rivoluzione di velluto” e nel quale è tornato dopo ogni carcerazione. Un luogo che non ha ancora perso quell’atmosfera da covo di sovversivi.

«Chi ha detto che in Russia non c’è libertà di parola? – gioca ancora con le parole Yuri Zhibladze –. Non è affatto vero. Noi a Mosca abbiamo libertà di parola. Il problema è che non c’è libertà “dopo” aver parlato». La prassi è la medesima dai tempi dell’Unione Sovietica. «Le intimidazioni, le minacce ai familiari, gli avvertimenti e i pedinamenti sono la nostra quotidianità», riferisce Yuri con l’espressione spersa di chi, almeno al chiuso di un albergo ben sorvegliato, è riuscito finalmente a trascorrere una notte tranquilla. Il sistema Putin è collaudato, «ma non reggerà molto a lungo», preconizza. I giovanotti “ovunque connessi” a volte ostentanto fon troppa fiducia nelle proprie armi tecnologiche. Ci pensa un vecchio filosofo a mettere in discussione la «religione mediatica». Con i suoi 87 anni Zygmunt Bauman non ci sta a recitare il ruolo del vecchio arnese tagliato fuori dalla scarsa confidenza con i post i tweet né i blog. «I social media? Vengono usati regolarmente dai governi per stroncare le rivolte popolari sul nascere. Sapete cosa penso? Che invece – sottolinea l’intellettuale di origine polacca – stiamo abusando dei media». I ragazzi terribili delle primavere arabe o i “guerriglieri virtuali” delle periferie asiatiche, alla fine devono ammetterlo: «Applicazioni come Facebook e Twitter – ricorda Jaroslav Valuch, che nell’Est Europa guida una campagna contro i crimini basati sull’odio – non sono stati progettati per gli attivisti, e sarebbe sciocco pensare che possano essere utilizzati in modo totalmente sicuro».

Internet e i social network stanno mettendo a nudo i potenti ovunque essi siano. «I servizi segreti si sono dovuti specializzare nella guerra informatica. Ma strumenti come twitter sono difficili da filtrare», assicura l’americano David Keyes, trentenne cofondatore di cyberdissident.org. Sarà, ma per dirla con il blogger cinese Michael Anti, il limite è che «internet può liberare le menti delle persone, ma non fare della Cina una democrazia». Ma cos’è che davvero fa scendere in piazza per mostrare il petto ai fucili degli eserciti? L’attivista egiziano Abu Bakr Shawky ha una sua chiave di lettura. E l’ha trovata in una piccola libreria di Mala Strana, il “quartiere piccolo” che sale verso il Castello. Sul suo iPad indica il testo appena messo in rete. È di un giovane Havel: «Ho letto molti libri arguti sul socialismo. Mi sono reso conto che tutti quei grandi concetti sull’ordine più perfetto che esista sono solo ridicole costruzioni di carta, se per i loro araldi non è naturale cedere il posto in tram a una signora anziana o aiutare una vecchina a raccogliere le mele cadute lungo il marciapiede».

 

Nello Scavo – avvenire.it