Politica e istituzioni al tempo del coronavirus

di: Franco Monaco

Invidio chi ostenta certezze circa l’emergenza del coronavirus. La consapevolezza della mia assoluta ignoranza in materia mi conduce ad affidarmi a tre elementari (troppo?) bussole.

Tre bussole

Primo: fiducia nella scienza, che coltivo ostinatamente, nonostante qualche virologo incline al protagonismo si applichi a farla vacillare.

Secondo: fiducia nelle istituzioni preposte a gestire l’emergenza e, in concreto, nelle persone che, pro tempore, rappresentano quelle istituzioni.

Terzo: fiducia negli uomini. È la radice delle prime due. Forse la più difficile, ma anche la più decisiva. Come potremmo vivere, convivere e anche solo semplicemente sopravvivere nel nostro tempo e nel nostro mondo straordinariamente integrato e complesso se non scommettessimo sulla fiducia nel nostro prossimo e, segnatamente, in chi dispone di competenze e di esperienze a noi ignote?

L’opposto dell’“uno vale uno” e della “cultura del sospetto”. Un principio che, a ben vedere, più o meno consapevolmente, regola la nostra vita quotidiana nei campi più diversi. Dall’idraulico al pilota di aereo. Un principio cui a fortiori ispirarsi dentro le situazioni critiche.

Dunque, non mi intendo di scienza medica e mi affido a chi dispone di una comprovata conoscenza. Invece, mi intendo un po’ di politica e di istituzioni. Qui mi sono fatto una precisa convinzione.

Non c’è bisogno di conoscere le teorie di Carl Schmitt o di Giorgio Agamben circa lo “stato d’eccezione” per convincersi che, in quella congiuntura, si richiede un massimo di concentrazione e verticalizzazione del potere. Anche nelle democrazie mature. Una stretta unità di indirizzo e una tempestività/celerità nelle decisioni.

Cinque ragioni

Difficile negare che, sul punto, nel nostro caso, non tutto abbia funzionato a dovere. Azzardo: per cinque ragioni.

La prima: un regionalismo già controverso in tempi ordinari (del quale è indizio l’alterazione semantica “governatori” – espressione della quale non c’è traccia in Costituzione – invalsa per definire i presidenti di regione) e che, dentro l’emergenza, ha rivelato i suoi limiti. Producendo un florilegio di deliberazioni localistiche tanto più censurabile avendo noi a che fare con il Servizio sanitario nazionale.

La seconda: il conflitto politico tra maggioranza e opposizione, a dispetto dei volonterosi appelli dal Quirinale in giù, in particolare a causa del programmatico impegno profuso da Salvini per profittare della situazione. Manifestatosi dal primo istante e spintosi sino alla perentoria quanto pretestuosa richiesta di dimissioni del governo. Un Salvini dapprima teorico dell’ermetica blindatura (a cominciare dalla sospensione di Schengen) e, di lì a poco, sotto la pressione del Nord produttivo, della rimozione di ogni misura restrittiva adottata dal governo.

Politica e coronavirus

Risultato? La prima ragione (il malinteso autonomismo regionale) si è sommata alla seconda (la speculazione politica), essendo le regioni più colpite – Lombardia e Veneto – guidate politicamente dalla Lega. Si è avuta l’impressione che, sulle prime, dai vertici delle due regioni, si sia coltivato uno spirito collaborativo, ma che esso, con il tempo, forse su input superiore di partito, si sia decisamente incrinato. Generando comportamenti schizofrenici, ora minimizzanti (per Fontana «poco più di un’influenza»), ora irresponsabilmente drammatizzanti e culminati nello show del presidente lombardo che si mette la mascherina. Un’immagine che ha fatto il giro del mondo.

Terza ragione: il deficit di autorevolezza, e dunque di forza, del governo nazionale, che, ripeto, avrebbe dovuto gestire centralisticamente e con mano ferma l’emergenza. Impresa non alla sua portata, considerata l’endemica, strutturale debolezza dell’esecutivo e, di riflesso, la sua timidezza verso il “fronte del nord” politicamente presidiato dalla Lega. Si deve forse a questo una comunicazione istituzionale che è sembrata, sulle prime, ansiogena e poi, volontaristicamente, sdrammatizzante. Registri troppo diversi che hanno nevrotizzato la pubblica opinione.

Quarto: i media. Penso al loro abituale sensazionalismo puntualmente esasperato dal contagio e, in molti casi, al loro asservimento a questa o a quella parte politica, alla loro propaganda e alle loro manovre. Un vizio di sempre, riconducibile alla strutturale penuria di editori puri, di giornali e tv, ma manifestatosi esponenzialmente in queste ore. Un solo esempio: il quotidiano Libero il cui titolo di prima pagina è passato in due giorni dal sobrio “Prove tecniche di strage” al pompieristico “Virus, ora si esagera”. Come non bastasse, oggi si aggiungono i social, per definizione inclini a una sovrabbondanza informativa non corroborata da un corrispettivo, paragonabile vaglio critico e da una imputabile responsabilità. Ne è sortita una cacofonia, che certo non ha giovato né allo scopo di fronteggiare l’emergenza, né all’immagine del nostro paese.

Infine (quinta), l’Europa. Non sono notizia di oggi la sua inadeguatezza e i suoi ritardi. Ma essi si acuiscono dentro le emergenze. Anche senza pretendere comuni strategie di contrasto all’epidemia, quantomeno sarebbe lecito attendersi l’adozione di protocolli concordati nei sistemi di rilevazione dei contagi, in assenza dei quali si scontano clamorose asimmetrie da paese a paese. Si pensi ai differenziali nel numero dei controlli. Una delle più preziose conquiste della UE, la libera circolazione delle persone nei paesi aderenti, dovrebbe avere come corrispettivo almeno questa regola minima.

Tuttavia, al netto delle incongruenze cui qui si è fatto cenno, ripeto, non mi riesce di discostarmi dalle tre bussole con le quali ho esordito. Le quali hanno in comune la parola fiducia (negli uomini, nella scienza, nelle istituzioni). Non per ingenuo fideismo. Più semplicemente perché le alternative concrete sono ancor meno persuasive o addirittura non vi sono affatto.

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