Più corridoi umanitari: non è ingenuità né imprudenza

Osservatore Romano

Sbarcano all’aeroporto di Fiumicino con valigioni enormi, indescrivibili. Poi quando li aprono vedi che hanno portato oggetti sorprendenti: utensili da cucina, soprammobili, piccoli quadri. Le famiglie siriane che arrivano tramite corridoio umanitario, organizzato dalla Federazione delle Chiese evangeliche in Italia, dalla Comunità di Sant’Egidio e dalla Tavola valdese, sono state selezionate nei campi profughi del Libano per le loro particolari condizioni di vulnerabilità tramite una dolorosa procedura: se loro sono qui, altre famiglie sono rimaste indietro, ma almeno non hanno rischiato la vita come i migranti che si mettono in mare, che per noi hanno comunque diritto a un’accoglienza dignitosa. È imprudente che un genitore faccia salire un figlio nel barcone? Sì, è imprudente. Ma dopo avere ascoltato i primi racconti di cosa ha lasciato a casa chi si mette in viaggio, ho capito che in molti casi sarebbe stato più imprudente rimanere dov’erano. E quando arrivano hanno una fame feroce di vita che è difficile non ammirare.

Parlo ad esempio di un ragazzo della Costa d’Avorio che abbiamo ospitato a Napoli come Chiese metodiste e valdesi: arrivato analfabeta, sta imparando tutto ciò che gli capita a tiro, dal suonare l’organo alla matematica, ai corsi professionali. Un paese non può che beneficiare della sua presenza.

Ospitare persone che devono riorganizzare una vita significa anche riconoscere loro la libertà e la competenza di compiere le scelte che ritengono più giuste secondo la loro prospettiva, anche quando non le si condivide, come nel caso dei due genitori siriani che, dopo aver vissuto in un nostro appartamento al Vomero, hanno preferito spostarsi in Germania nonostante i loro figli si fossero trovati bene a scuola e stessero imparando l’italiano.

Ora in quella casa vivono due amiche siriane con i figli di una di loro. Fra i momenti di condivisione più significativi ricordo sempre quelli della convivialità, dello stare insieme intorno alla stessa tavola. Organizziamo spesso, anche nella mia casa di Portici, tavolate il più possibile inclusive, dove ad esempio possono incontrarsi siriani e africani subsahariani, che mai avrebbero scelto di stare insieme. A un certo punto, si assiste a uno spostamento fisico che è in realtà mentale e culturale, e distanze e pregiudizi si sciolgono in un canto comune al fine della serata.

Vedo cristiani storcere il naso perché percepiscono un aiuto maggiore agli stranieri rispetto agli italiani, e persino tra gli stranieri di fede cristiana esistono perplessità sull’aiutare gli stranieri musulmani. Non giudico le paure che spesso ispirano questi sentimenti, le accolgo ma cerco di contrastarle con un pensiero in controtendenza rispetto allo spirito dei tempi e cioè che siamo tutti sulla stessa barca e che la solidarietà reciproca fra esseri umani è l’unica via di salvezza per tutti. D’altronde come chiesa metodista abbiamo ospitato per qualche tempo anche una famiglia napoletana dei Quartieri spagnoli: non facciamo differenze, per noi vale il criterio che riteniamo più coerente con l’evangelo e cioè «prima gli ultimi» chiunque siano.

Non penso che ci si debba fermare per il fatto che in questo momento queste idee siano impopolari. Con chi si oppone a scelte di umanità cerco di praticare, con pazienza, il dialogo non violento che depotenzia l’aggressività dell’altro, perché attaccare chi subisce la suggestione dei predicatori di odio non produce grandi risultati e invece dobbiamo costruire proprio con chi non la pensa come noi un piano di ragionamento che non ceda alla tentazione di divisione ed esclusione. Vedo che sul piano dei rapporti quotidiani con le persone funziona, con fatica ma funziona. E questo impegno è ancora più efficace quando diventa la voce ecumenica di tutte le Chiese cristiane, che ora chiedono ai governi europei di ampliare questi corridoi umanitari e di prendere esempio dall’esperienza italiana — finora ne abbiamo accolti circa duemila e abbiamo in agenda l’apertura di un corridoio europeo dalla Libia. Non è ingenuità né imprudenza, ma la valutazione responsabile delle proprie azioni, mantenendo trasparenza e soprattutto lo spazio per la fiducia e la sorpresa. E questo perché credo in un Dio originale e creativo, che ci ama molto nonostante le nostre debolezze, e non ci abbandona mai, come ho potuto personalmente sperimentare tante volte nella mia vita. (Testo raccolto da Laura Eduati)

di Alessandra Trotta
diacona Chiese valdesi e metodiste