Per una conversione missionaria della comunità cristiana. Egemonia della Parola

L’Osservatore Romano

L’assemblea della Chiesa di Palermo. «Il messaggio di Papa Giovanni XXIII oggi» è il tema dell’assemblea pastorale della Chiesa di Palermo, che si svolgerà il 25 e 26 gennaio prossimi nella cattedrale del Santissimo Salvatore. L’evento, che significativamente coincide con la data dell’annuncio del concilio Vaticano II, il 25 gennaio 1959, si inserisce in un più ampio percorso che si articola nelle linee pastorali per il triennio 2020/2022 pubblicate dall’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, e che hanno una chiave di lettura nella riflessione «Andate dunque… Io sono con voi tutti i giorni – Annunciare oggi il Vangelo. Chiesa convocata per una conversione missionaria delle nostre comunità», documento presentato martedì 21 nel corso di una conferenza stampa nel palazzo arcivescovile.
Il testo è composto da due parti: una riflessione dell’arcivescovo — di cui pubblichiamo ampi stralci — rivolta a presbiteri, diaconi, religiose, religiosi e fedeli laici nella chiesa di Santa Caterina da Siena il 7 novembre 2019, in occasione della “Settimana della Parola”, su come svolgere l’annuncio della Parola di Dio per una vera e propria pastorale missionaria. Il secondo documento rappresenta il frutto del lavoro di una commissione diocesana formata da alcuni membri del Consiglio presbiterale e del Consiglio pastorale diocesano per illustrare il cammino sinodale della Chiesa di Palermo. Le due giornate di lavori, strutturate in quattro sessioni, saranno arricchite dalle lectio di quattro vescovi, dal contributo di teologi, formatori, docenti, presbiteri, diaconi e testimoni di percorsi professionali e di servizio alla luce dell’annuncio del Vangelo.
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Per una conversione missionaria della comunità cristiana 
Egemonia della Parola 
di Corrado Lorefice

Vorrei partire da un pensiero caro ai teologi medievali: «Noi siamo come nani che siedono sulle spalle dei giganti, di modo che possiamo vedere più cose e più lontano di loro, non per l’acutezza del nostro sguardo o con l’altezza del corpo, ma perché siamo portati più in alto e siamo sollevati da loro ad altezza gigantesca». Ad affrontare la missione evangelizzatrice non può che essere una Chiesa che si colloca sulle spalle del suo Signore e Maestro. Una Chiesa che vive nella memoria dei grandi evangelizzatori, di quanti, donne e uomini, ci hanno annunciato e testimoniato il Vangelo nella ferialità della vita.
Un vero frequentatore e custode nel cuore della Parola di Dio contenuta nelle Scritture, nonché esperto formatore di coscienze cristiane, don Giuseppe Dossetti, mentre riconosceva serenamente la necessità e il valore delle tante diverse funzioni esistenti nella Chiesa, indicava una priorità: ridare un’egemonia alle Scritture; ritrovare la lucida consapevolezza che la comunità cristiana nasce dall’accoglienza dell’Evangelo, si nutre — insieme all’Eucaristia — dell’Evangelo e serve e annuncia l’Evangelo. E rilevava una impasse cruciale della Chiesa del nostro tempo: «Il problema è nella proporzione che deve far salva una certa ege-monia reale, quantitativa e qualitativa, nel rapporto con la Scrittura. Diversamente, la Parola di Dio […] non è più il seme incorruttibile che genera il popolo cristiano. Il popolo cristiano […] rischia di decadere progressivamente, di deformarsi, di entrare in uno stato grave di astenia e di disorientabilità permanente, come oggi precisamente accade». La Parola di Dio contenuta nella Scrittura ha un «carattere performativo, soprattutto quando nell’azione liturgica emerge il suo carattere propriamente sacramentale» (Francesco, Aperuit illis, 2) che con-forma a Cristo. Insomma, o c’è una reale egemonia della Bibbia nella vita della Chiesa (un’egemonia quantitativa, qualitativa e di proporzione) o la vita della Chiesa s’infiacchisce e perde il senso dell’orientamento e la parresia dell’annuncio.
Don Giuseppe spiegava che cosa intende per “egemonia della Scrittura” rifacendosi al primo millennio (o poco più) della storia della Chiesa sia in Oriente che in Occidente. Durante tutto questo arco amplissimo di tempo, diceva, «non c’è pensiero, non c’è attività, non c’è coscienza, non c’è comunità, che non siano centrati sulla Scrittura e non siano dominati da essa, e non c’è neppure legislazione. […] non c’è nemmeno diritto canonico». E nel registrare la crisi di annuncio credibile del Vangelo, riconosceva le radici della crisi soprattutto intra moenia: «La causa primaria è nel fatto che né il cristiano comune, né il cristiano costituito in responsabilità e in funzioni di assistenza e di costruzione della comunità, abitualmente si abbevera abbastanza alla fonte che non solo lo deve nutrire e alimentare ma che, ancor prima, lo genera, perché è l’unico “seme incorruttibile” a cui incessantemente egli deve fare riferimento».
Il mio intento è sottolineare l’urgenza del primato reale dell’ascolto orante delle Scritture nella nostra Chiesa locale — radunata attorno al successore degli apostoli, colui che ci assicura la fede apostolica della Chiesa — e nelle nostre comunità cristiane, poiché la Parola che frequentiamo e annunciamo è l’E-vangelo, la Parola/Notizia bella-buona. «La Scrittura non è un libro, ma è un Vivente, è una Persona, è il Verbo eterno del Padre». La Bibbia contiene la Parola di Dio, è voce del Vivente. Avere consuetudine di vita e di relazione con il Vangelo significa avere consuetudine con la Persona “bella” del Figlio di Dio, il Verbo fattosi carne, il Nazareno crocifisso e risorto, Colui che annunzia e pone nella vita delle donne e degli uomini i segni tangibili della presenza di Dio, che ci rivela e ci rappresenta il volto paterno e misericordioso di Dio.
Il contenuto del Vangelo, ricevuto attraverso la fede operante dei testimoni della fede e che dobbiamo trasmettere a nostra volta con le “parole e i gesti” (cfr. Dei Verbum, 2) della grammatica umano-divina di Gesù, è la misericordia di Dio che converte e trasforma la vita di quanti lo accolgono. Nella carne dei cristiani, dei discepoli di Gesù deve continuare l’incontro degli uomini e delle donne del nostro tempo con il Nazareno che condivideva la tavola della riconciliazione con i pubblicani e i peccatori. Il Vangelo che la Chiesa deve annunciare è la misericordia di Dio in atto nella storia. Dio che ha “consegnato” il suo Figlio, a sua volta consegnatosi liberamente e per amore per la nostra salvezza e per la nostra rinascita a figli di Dio. In lui Dio è “Padre nostro”.
Quando diciamo “nostro”, di Dio, non vogliamo marcare un possesso. Il Dio che ci ha salvati e raccolti in Cristo è di tutti e per tutti. Nella Chiesa, che è il Corpo di Gesù Cristo “continuato” e “diffuso e comunicato”, vuole continuare a raggiungere e accogliere tutti. Noi, che viviamo di questo amore, siamo chiamati ad annunciarlo così, come il Dio che attende paziente e fiducioso, che cerca appassionatamente, che accoglie con generosità e delicatezza. È questa l’essenza della pastorale, come anche di ciò che chiamiamo missione: un movimento di apertura alla sorgente dell’acqua viva, che ci ricrea e ci rinfresca, e che senza soluzione di continuità lascia scorrere questa corrente, che non ci appartiene, incontro alle aridità della vita, alle asperità della storia, in una testimonianza umile e quotidiana della speranza che i discepoli di Gesù si portano dentro. «Ora che la Chiesa desidera vivere un profondo rinnovamento missionario, c’è una forma di predicazione che compete a tutti noi come impegno quotidiano. Si tratta di portare il Vangelo alle persone con cui ciascuno ha a che fare, tanto ai più vicini quanto agli sconosciu-ti» (Francesco, Evangelii gaudium, 127).
Evangelizzare oggi può significare far vedere, in modo intelligente e creativo, come il Vangelo assume e fa propria la storia particolare delle singole persone che incontriamo quotidianamente, che incrociamo ai crocicchi della nostra città o che ci vengono ancora a cercare nelle nostre realtà comunitarie. Per dirla con il gergo di Papa Francesco: «Gli uomini hanno bisogno della misericordia; sono, pur inconsapevolmente, alla sua ricerca. Sanno bene di essere feriti, lo sentono, sanno bene di essere “mezzi morti” (cfr. Luca 10, 30), pur avendo paura di ammetterlo. Quando inaspettatamente vedono la misericordia avvicinarsi, allora esponendosi tendono la mano per mendicarla. Sono affascinati dalla sua capacità di fermarsi, quando tanti passano oltre; di chinarsi, quando un certo reumatismo dell’anima impedisce di piegarsi; di toccare la carne ferita, quando prevale la preferenza per tutto ciò che è asettico». E così, attraverso questa grammatica umana, vengono raggiunti dal Vangelo.
La missione presuppone che il Vangelo si veda in azione nelle relazioni tra i discepoli, in una relazione di comunione accolta come dono in virtù della Pasqua di Cristo. Numerosi brani del Vangelo ce ne danno testimonianza: siamo inviati a due a due (cfr. Luca, 10, 1); diventiamo riconoscibili come discepoli di Gesù, se avremo amore gli uni per gli altri (cfr. Giovanni, 13, 35); quando ci si riunisce in forza della memoria del suo nome, Gesù si rende presente (cfr. Matteo, 18, 20); Egli stesso ha pregato il Padre di custodire nel suo nome coloro che gli aveva dato, perché fossero una cosa sola a immagine dello stesso rapporto tra il Figlio e il Padre (cfr. Giovanni, 17, 11). La testimonianza della comunione è allora parte integrante della missione evangelizzatrice. Una Chiesa che non testimonia l’accoglienza della comunione non può evangelizzare. Disperde, scandalizza e viene vanificato ogni annuncio. Il Vangelo, quando arriva e trova disponibile il terreno del cuore, trasfigura la vita personale e tutte le relazioni familiari, amicali, professionali, comunitarie, ecclesiali e civili. La missione di annunciare il Vangelo — questo suggerisce in ogni modo e in ogni occasione Papa Francesco — non riguarda solo “addetti ai lavori” e soggetti ecclesiali selezionati. Il mandato del Signore di uscire e annunciare il Vangelo preme da dentro, per innamoramento, per attrazione amorosa. Non si segue Cristo e tanto meno si diventa annunciatori di lui e del suo Vangelo per una decisione presa a tavolino, per un attivismo autoindotto. La Chiesa missionaria, la comunità cristiana che si pone in uno stile discepolare – testimoniale – missionario può davvero diventare interessante per gli altri e attirarli verso Cristo. La comunità è allora missionaria non per il proprio darsi da fare, ma perché percepisce ed entra in contatto con uomini e donne che sono a loro volta attirati da Cristo, nei quali è Cristo stesso a esercitare attraverso di loro la sua attrattiva.
Chi pensa di fare l’eroe o l’imprenditore della missione, pur con tutti i suoi buoni propositi e le sue dichiarazioni d’intenti, spesso finisce per non attirare nessuno. Tutt’al più espone i suoi “meriti” al cospetto del Signore. Occorre dunque vivere in chiave missionaria tutto ciò che con-cerne la Chiesa e la società: la liturgia e tutta la pastorale ordinaria, dalla celebrazione dei sacramenti alla testimonianza della carità, dalla catechesi ai bambini a quella agli adulti, alle famiglie, ai giovani; la responsabilità della città e della casa comune. Tutto il popolo fedele di Dio ha come orizzonte la missione. Tutti i battezzati possono confessare Cristo nella condizione in cui si trovano. La missione non è competenza esclusiva di gruppi particolari.
Annunciare il Vangelo significa dare energia a una cultura che educa alla bellezza, alle cose buone, alle buone notizie, alla buona carne. In questo modo il nostro caro martire (testimone) don Pino Puglisi ha interpretato il suo compito di padre, educatore, pastore, ma anche di figlio di questa terra così ferita. Per terra, percorrendo le strade della gente, da Settecannoli a Brancaccio, passando per Godrano; per terra, seduto ad ascoltare le suore basiliane e le ragazze del Santa Macrina; per terra, a insegnare nelle aule tra i suoi ragazzi come docente di religione; per terra, a dare anima alla maternità vocazionale, cioè generativa, di tutta la Chiesa, e a prendersi cura della formazione dei futuri preti di Palermo. Per terra cercava di insegnare a tradurre il cielo, tradurlo come preghiera, come azione, come sviluppo, come crescita, come scelte, come nuovo. «Come in cielo così in terra», in una terra ferita e sanguinante, non può che diventare gemito e doglie di cieli nuovi e terra nuova.
L’Osservatore Romano, 22-23 gennaio 2020