Partiamo da un manifesto per ricostruire il mondo

Si aggira anche per l’Italia, ma non è necessariamente uno spettro. Al contrario è un elemento di vitalità, un desiderio – espresso oltretutto in forma collettiva – di rompere l’immobilismo dello status quo. Anche il modello originale, del resto, nasceva con le stesse intenzioni, poi clamorosamente smentite dagli orrori dell’ideologia e dalla ferocia della dittatura.

I diversi e ormai numerosi “manifesti” che si stanno susseguendo nel nostro Paese non hanno la pretesa massimalista del capostipite, il Manifesto del Partito Comunista pubblicato nel 1848 da Engels e Marx (lo storico Eric J. Hobsbawn lo considerava un «esempio di retorica politica dotato di un vigore quasi biblico»). Però la voglia di trasformare il mondo rimane, anche perché il mondo così com’è ha ormai dimostrato di non funzionare a dovere. E in questo, forse, le analogie con la critica al capitalismo ottocentesco sono meno peregrine di quanto vorremmo pensare.

Affermatosi in ambito politico, il linguaggio del “manifesto” ha avuto nel corso del tempo le applicazioni più svariate: dalle avanguardie storiche (il Futurismo fu prodigo di proclami e dichiarazioni d’intenti) al cinema d’autore (ricordate il «voto di castità» di Dogma 95, il movimento capitanato dal regista Lars von Trier?), fino al più recente Hacker Manifesto con cui, nel 2004, lo studioso statunitense Ward McKenzie invitava alla sollevazione dei «lavoratori immateriali». A distanza di dieci anni, con le turbolenze di un’epocale crisi economica ancora in atto, il manifesto scopre una nuova rilevanza sociale e una più accentuata concretezza. Che affiora, per paradosso, perfino quando l’oggetto del contendere è rappresentato dall’altrimenti negletta tradizione umanistica, come accade nel fortunato L’utilità dell’inutile di Nuccio Ordine, edito in Italia da Bompiani e best seller in mezza Europa. Controllate la copertina: la dicitura “manifesto” c’è anche qui e anche qui, non a caso, si ragiona di modelli di business fallimentari, di alternative possibili, di investimenti non rinviabili.

L’orizzonte di una «società dei liberi» è coerentemente indicato da Mauro Magatti e Chiara Giaccardi nel loro Generativi di tutto il mondo unitevi! (Feltrinelli), dove il precedente marxiano è richiamato fin dal titolo, sia pure con intonazione ironica, ma in libreria si possono trovare anche “manifesti” filosofici (come quello, assai discusso, del Nuovo realismo di Maurizio Ferraris, Laterza), legalitari (il Manifesto dell’antimafia di Nando Dalla Chiesa, Einaudi) o riferiti al sempre più incandescente dibattito sul gender (Massimo Introvigne firma per SugarCo il suo Sì alla famiglia!).

Si ricorre al manifesto perché la realtà che già esiste non soddisfa. Si ricorre al manifesto perché si vuole cambiare, e cambiare insieme. È questo, per esempio, il senso della consultazione on-line avviata dal mensile e società editrice Vita, che il 21 marzo scorso ha avuto un momento di elaborazione pubblica a Milano. Realizzato attraverso la piattaforma civica InMovimento (inmovimento.civi.ci), questo percorso di rifondazione del Terzo Settore si articola in un dibattito su sette parole-chiave, in parte analogo a quanto proposto da un altro “manifesto”, quello della Chiesa per la Scuola, la grande manifestazione in calendario a Roma per il prossimo 10 maggio. Il punto di partenza è addirittura lo stesso, e cioè il tema dell’educazione.

O, secondo la formulazione di Vita, dell’educare, visto che qui la preferenza va ai verbi, «la parte del discorso che descrive un’azione implicando un soggetto», come ricorda il direttore editoriale Riccardo Bonacina. Un rifiuto dell’astrazione, dunque, a tutto vantaggio dell’esperienza, della progettualità, di quello che resta da fare ora che il non profit così come lo conosciamo è chiamato da molte e contemporanee sfide ad attualizzare la sua preziosa funzione.

In questa prospettiva, educare rimanda, per esempio, alla pratica della “scuola aperta”, sulla quale si è soffermato Giovanni Del Bene, dirigente di un istituto milanese, il Cadorna, i cui locali vengono utilizzati anche al di fuori dell’orario di lezione, grazie all’alleanza tra genitori e volontari del quartiere. Allo stesso modo, riflettere sul verbo donare significa domandarsi a che punto siamo con la cultura del fund raising, magari mettendo in discussione un regime fiscale che attualmente limita la pratica delle donazioni (fra i suggerimenti avanzati c’è anche l’abolizione del tetto di 70mila euro per la deducibilità). Ancora, non si può parlare di produrre senza una riforma della legislazione sull’impresa sociale, non ci si può nascondere dietro lo scudo del cooperare senza interrogarsi sulla realtà di un’Europa in cui quasi cinque milioni e mezzo di persone operano in circa 160mila imprese di “economia condivisa”. E non ci si rende conto di che cosa vuol dire lavorare oggi se non ci si decide a riconoscere anche al Terzo Settore un adeguato margine di flessibilità.

Quest’ultima sottolineatura è stata espressa da Raffaella Pannuti, direttore della Fondazione Ant, onlus attiva nel campo dell’assistenza oncologica gratuita. Con questo ci si sposta verso un altro verbo, curare, frontiera troppo delicata per essere presidiata solo dalla logica del business. Manca un’ultima azione, recuperare, alla quale questa volta si aggiunge un doppio complemento oggetto: spazi e bellezza. Lo fanno le scuole che si aprono alla società, appunto, come sottolinea l’architetto Stefano Boeri. Lo fanno, benissimo, iniziative di avanguardia, tra cui la riqualificazione delle Officine Grandi Riparazioni a Torino richiamata dal direttore di Domus Academy, lo scrittore Gianluigi Ricuperati.

Sono le parole giuste? In rete se ne discuterà per qualche settimana, poi l’iniziativa di Vita presenterà un primo bilancio. Il fatto che non si tratti di un “manifesto” isolato, ma di un ragionamento che si mette in comunicazione con altre istanze (ai punti di contatto già indicati andranno almeno aggiunte le Strade Nuove ipotizzate dal Movi, il Movimento di volontariato italiano) lascia intendere se non altro che proprio dalle parole, oggi più che mai, è necessario ripartire. Organizzandole in un manifesto, tanto per cominciare. E poi declinando nella realtà. È un’arte antica: i greci – che di parole se ne intendevano – la chiamavano politica.

 

Alessandro Zaccuri – avvenire.it