Parrocchia, dove vai?

di Christian Albini  in vinonuovo.it
L’unica via possibile è la gestione dell’esistente rinunciando via via a quel che non è più sostenibile o si possono immaginare strade nuove?

Di recente, il papa è tornato a ribadire che trovare una parrocchia, e soprattutto una chiesa, chiusa è un fatto triste. Però, ci sono anche tanti preti che magari sono soli, anziani e responsabili di più comunità che dicono: «Non ce la facciamo».

Se alla chiesa manca il fiato, non ce la fa a uscire! Può sembrare una battuta, ma dietro c’è una riflessione che m’impegna da tempo e mi suscita preoccupazione.

Sono profondamente convinto che la direzione indicata da papa Francesco sia quella giusta: il movimento del Dio biblico e il movimento di Gesù è quello di “uscire”, andare verso gli altri. Gesù era un maestro che “sconfinava”, dice un credente dallo sguardo limpido come don Angelo Casati. Solo così i cristiani riescono a camminare insieme agli altri uomini e donne, anche lungo le loro strade più buie. Solo così possono mettersi in sintonia con ciò che abita la loro immaginazione e il loro cuore per “farli ardere”.

Il punto è che in molti casi non sembrano esserci più le forze per compiere questo passaggio. Tempo fa, sul mio blog ha avuto molte letture il messaggio di un prete tedesco, brillante e apprezzato, che ha deciso di lasciare il ministero in parrocchia e ritirarsi in monastero dopo aver constatato che la comunità cristiana è vissuta come un’agenzia di servizi religiosi, senza che le persone intraprendano veri percorsi di fede e conversione. In questo periodo, l’arcidiocesi di Chicago sta procedendo a un’operazione di accorpamento e chiusura di parrocchie come avviene in tante chiese locali.

Ci sono poi i non pochi preti che vivono forme di fatica, disagio, frustrazione. Tra di loro, quelli che nella pastorale si misurano con la perdita di rilevanza del proprio ruolo e con l’indifferenza della gente, nonché con le proprie problematiche personali. Alcuni si rinserrano in uno spazio controllato e circoscritto facendo della parrocchia un piccolo feudo o fortino, un’isola chiusa che ha scarsi rapporti con il mondo esterno.

Tra coloro che svolgono il loro ministero con dedizione, autentico spirito di servizio, umiltà e attenzione alle persone secondo il Vangelo, c’è chi ha doti pastorali e sa creare comunità, anima parrocchie vivaci, calde, ma si misura altresì con un limite sempre più evidente. Quando si arriva al punto di fare un passo “in uscita”, le energie e il tempo non bastano. Conosco parroci davvero validi che vorrebbero andare nelle case e nei luoghi della convivenza, intrecciare nuove relazioni con chi è “lontano” o “sulla soglia”, hanno intuizione preziose, ma non riescono a concretizzarle perché la gestione delle attività tradizionali delle nostre parrocchie assorbe completamente loro e i laici che sono disposti a impegnarsi.

L’attuale tendenza ad aumentare le unità o comunità pastorali (o altre denominazioni) segue il più delle volte una logica di aggregazioni e sommatoria dettata dalla necessità di ovviare alla scarsità di preti, senza che ci sia una vera e propria progettualità sottostante.

Tutto ciò non fa che alimentare una logica per cui l’unica via possibile sembra essere quella della gestione dell’esistente rinunciando via via a quel che non è più sostenibile. Si mantengono le strutture andando avanti per “tagli” progressivi, come hanno già fatto tante famiglie e ordini religiosi. È un modo di pensare inevitabile, fino a quando si rimane, con qualche aggiustamento, dentro al modello di parrocchia che è stato ereditato dalla stagione post-tridentina e da una società sostanzialmente rurale il cui contesto socio-culturale era quello della cristianità. Queste parrocchie erano piccoli universi autosufficienti in cui la persona era accompagnata da riti, pratiche e devozioni dalla culla fino alla bara. Oggi, non è pensabile che sia così, perché le persone non aderiscono più spontaneamente a questa modalità pervasiva di vita cristiana e transitano in contesti molto diversificati.

Penso, allora – ne ho parlato anche di recente al CPD di Piacenza-Bobbio – a un territorio dove parrocchie diverse vivono una “pastorale integrata” per quel che riguarda le attività “ordinarie” di catechesi, liturgia e sacramenti. Non “tutti che fanno tutto” ciascuno per conto suo, ma ognuno posta il suo pezzo in una comunione di comunità dove si ragione e ci si percepisce “insieme”. Ma penso anche a forme nuove, diverse di comunità cristiana, come del resto l’esortazione Evangelii gaudium invita a immaginare e sperimentare. Le persone hanno bisogno di una proposta di fede e di vita che “parli” a loro, alla loro situazione esistenziale, soprattutto quando vivono condizioni e momenti particolari.

Intendo prospettare, in una diocesi o in parte di essa, delle comunità extra-territoriali in cui ci si dedica ad accogliere, incontrare, ascoltare, accompagnare persone le quali vivono condizioni che non sono interpellate dalle parrocchie così come le conosciamo abitualmente e che non avrebbero la possibilità di dedicare loro attenzioni particolari. Sarebbero, insomma, degli spazi di “primo annuncio”. Per analogia, il modello potrebbero essere le cappellanie per gli stranieri nelle grandi città. Poi, in ogni contesto locale bisognerebbe legger i segni dei tempi per individuare le persone a cui si dovrebbe indirizzare uno sguardo privilegiato (giovani, coppie, disoccupati, malati, anziani soli…). Questa non è una soluzione, ma un’ipotesi da studiare. Però, corrisponderebbe a una chiesa che entra nei cammini delle donne e degli uomini di oggi e li condivide, come ha fatto lo stesso Gesù con i discepoli di Emmaus.