Parola di Dio: ma anche del lettore…

Dislessia da ambone. Si chiamerebbe senz’altro così – in termini clinici – la malattia tipica dei lettori «da messa». Distratti, apatici ma soprattutto velocissimi: i sintomi della «patologia della prima lettura» sono inequivocabili ma non cessano di mietere vittime. 

La patologia è piuttosto giovane; nasce infatti mezzo secolo fa dal Concilio Vaticano II: per la prima volta, allora, la grande assemblea mise in discussione il monopolio della Liturgia della parola, fino al 1965 riservato a preti e chierici. Ma alla rivoluzione del leggìo – finalmente accessibile anche a laici e donne (!) – si accompagnò fin da subito una vera epidemia di cattive letture che sminuiva l’occasione data dal bel rituale.

Forse al «paziente zero» avremmo potuto ammettere l’ignoranza della cura (che invece esiste, per fortuna) ma l’impressione è che nemmeno oggigiorno la malattia dell’errata declamazione sia stata presa abbastanza seriamente. Eppure il problema – incancrenito dall’abitudine – c’è, tanto che ci sono parroci che hanno trovato opportuno appendere in chiesa il decalogo del buon lettore. Tra le massime del «Galateo del lezionario» si esorta alla pronuncia corretta dell’epigrafe «Parola di Dio», ma anche a non portare il foglietto della Messa dalla “bassa” panca all’ “alto” leggìo, bensì di servirsi dell’apposito libro.

Le accuse sono tante altre: in primis ci sarebbe un’analfabetismo filologico, per cui i sintagmi standard (come il presentativo «Dal libro…») definiti dalla liturgia sarebbero stravolti – se non proprio dimenticati – dal lettore inesperto. Inoltre è spesso accertata una mutilazione del contesto: non si capisce bene cosa di dice, perché i brani biblici non sono sempre di facile interpretazione. L’importante allora è andare avanti spediti, senza quasi prendere il fiato, per non fare la figura di non saper leggere – e forse per finire prima l’incarico: ecco perché capita di sentire declamare a raffica i profeti (e in un battibaleno di perdere il filo) o di vedere ignorata ogni punteggiatura persino nei passi paolini più ardui da comprendere.

Ma i disturbi sono anche tecnici, quasi fisici. La stragrande maggioranza dei lettori «pecca» infatti di gestureo sbaglia tonalità vocale. Ci sono gli espressionisti che, gesticolando, leggono la Genesi a mo’ di fiaba polifonica e chi, invece, attribuisce ai dialoghi evangelici connotati monocorde. In alternativa diffusissima è la resa sintattica che segue il ritmo della frase in una sorta di noiosa cantilena.

A dire il vero ormai sono in molti a occuparsi, almeno a livello teorico, di come parlare in chiesa. I francesi, liturgicamente più maturi di noi, hanno fondato vere e proprie scuole parrocchiali per depurare, in un paio d’ore ogni settimana, l’eloquio dei retori di Dio e hanno giurato guerra all’improvvisazione dal pulpito. Anche in Italia qualcuno prova a fare la voce grossa e sono usciti alcuni manuali per imparare ed esercitarsi sulla dizione perfetta.

Certo che, imbrigliato dal bon ton e stretto nella grammatica, il lettore modello rischia di diventare una pura chimera. E l’unica soluzione al nodo gordiano sembrerebbe ritrovare un anacronistico nastro della voce di Gesù mentre leggeva i rotoli nella sinagoga di Nazaret… (Lc 4,16-17) In realtà, se non si perde nella casistica, la letteratura risponde a un’esigenza praticissima e sacrosanta dei fedeli: capire.

Basta con i buonismi: non tutti sanno leggere. O meglio, anche la comunicazione in chiesa (proprio come quella giornalistica o pubblicitaria) ha delle regole precise e, per farla come si deve, bisogna studiarla: pena l’incomunicabilità con l’assemblea. All’opposto, una lettura ben fatta fa miracoli; addirittura il pubblico in ascolto del profeta Baruc arrivò a piangere davanti alla sua ars (Bar 1,5). Esercizi di respirazione da cantanti dunque, prove tecniche di accenti come doppiatori e magari qualche lezione di storia e teologia… L’ora di rimboccarsi le maniche e fare qualcosa di livello anche al microfono della messa è senz’altro l’unica direzione per salvarsi in quest’era di specializzazione totale.

Perciò alcuni puntano il dito persino sulle preghiere lette dai bambini: il problema – nato già con l’apostolo Filippo che rimbrotta l’eunuco con un preoccupato «Capisci quello che stai leggendo?» (At 8,30) – starebbe nel fatto che il significato del contenuto è necessario, mentre spesso le invocazioni sono preparate con parole incomprensibili per i piccoli.

Si capirà ormai: le mille sfaccettature del «morbo del lettore liturgico» si allargano e interessano – non senza qualche eccesso – mezza celebrazione… Ma comunque la bontà della sfida di trasformarsi da megafoni impacciati ad appassionati portavoce di Dio rimane. Almeno in attesa di un vaccino definitivo.

vinonuovo