Pakistan, le fabbriche di schiavi

Quella della schiavitù è una situazione tra le più consolidate e all’apparenza infrangibili in Pakistan. Una realtà che coinvolge un gran numero di minori, almeno il 60 per cento dei bambini e giovani sotto i 14 anni costretti a lavorare, ma anche molte donne adulte, a loro volta madri o sorelle dei giovani lavoratori. Il sistema schiavistico in Pakistan, Paese dai molti tratti feudali che la fede islamica maggioritaria non solo non riesce ad ostacolare, ma che in molti casi incentiva con i suoi lati discriminatori verso donne e minoranze religiose.

Legge anti-blasfemia, segni distintivi obbligatori per aderenti a fedi diverse, segregazione e matrimoni preceduti da conversione forzata e in molti casi da rapimento e stupro sono capisaldi del clima di sottomissione delle minoranze cristiana, indù, buddhista e ahmadiya come la povertà che caratterizza la maggioranza di queste comunità, complessivamente il 3 per cento della popolazione pachistana che si attesta attorno a 180 milioni.

A punto che casi di vendita di reni in caso di stretta necessità economica, per garantire cure o benessere a congiunti oppure per cercare di uscire dal vicolo cieco del debito, sono tutt’altro che infrequenti. Non sempre però con le conseguenze previste, per quanto dure. In questi giorni è diventata di pubblico domino la vicenda di una donna cristiana, costretta in schiavitù per debito con tutta la famiglia, che ha sacrificato un rene nella speranza, risultata vana, di rompere la catena della schiavitù dal datore di lavoro islamico.

Farzana Bibi aveva visto dissolversi due anni fa la possibilità che il duro lavoro suo e del marito avrebbero potuto affrancare l’intera famiglia dalla schiavitù. La tubercolosi del consorte, Rehmat, si era infatti aggravata, costringendolo a lasciare il lavoro dopo avere subito per l’ennesima volta percosse dal datore di lavoro insoddisfatto della sua resa.

Un abbandono che rendeva impossibile restituire 110mila rupie (circa 920 euro) al proprietario della fornace che decise di tenere Farzana e i suoi cinque figli sotto la sua custodia per garantirsi la restituzione del debito. Un fardello troppo grande per la donna, che decise così di cedere alle insistenza di un mediatore mandato dal datore di lavoro affinché vendesse un rene per 150mila rupie.

L’espianto, a cui il marito si era opposto, avrebbe dovuto portare alla donna la libertà, ma è diventato invece il bottino del mediatore, scomparso con il denaro. Un fatto – preordinato dal suo datore di lavoro per avere in pugno la vita della donna e dei suoi figli – che ha portato alla morte per crepacuore di Rehman e la necessità per Farzana di aprire un nuovo debito con il proprietario di un’altra fornace, dove da allora lavora con i figli, in condizioni fisiche e psicologiche facilmente immaginabili. A denunciare il suo caso e a cercare una soluzione dando un lavoro autonomo alla donna è oggi la Federazione cristiana unita (un ente protestante) con il sostegno del periodico Pakistan Christian Post.

Il caso di Farzana è tuttavia emblematico della realtà delle 11mila fornaci di mattoni che occupano 800-900mila “nuovi schiavi”, di cui 250mila minorenni, e della situazione di miseria in cui molti appartenenti ai gruppi meno favoriti della società – inclusi tanti provenienti dalle minoranze – si trovano a vivere, sottoposti al potere indiscusso di latifondisti e imprenditori musulmani nel disinteresse della politica e della giustizia.

Stefano Vecchia – avvenire.it