Nell’intreccio delle storie dei “vecchi” e “nuovi” poveri, il lavoro – perso, da trovare, da mantenere – occupa comprensibilmente un posto centrale

Uno dei paradossi del mercato del lavoro attuale è che se, da una parte, non manca l’offerta di lavoro qualificato, dall’altra, coloro che cercano lavoro non hanno le competenze minime necessarie per poter accedere ai lavori offerti.

Le politiche di welfare messe in campo nell’ultimo decennio – dal SIA (Sostegno all’inclusione attiva) al Reddito di cittadinanza – si sono basate sul buon proposito di indirizzare i sussidi in una prospettiva di avviamento al lavoro, collegandoli in forma quasi sinallagmatica alla ricerca attiva del lavoro o, quantomeno, a qualche forma di lavoro di pubblica utilità.

Ai buoni propositi non hanno fatto seguito misure e strumenti adeguati, riducendo i sussidi a mere misure assistenziali, con le storture e le truffe a corollario, tanto che, nell’opinione pubblica, prevale la convinzione che essi si siano trasformati di fatto in incentivi a rifiutare offerte lavorative.

I limiti di questo approccio sono stati ancora più evidenti sulle persone in condizioni di fragilità per vicende familiari (lutti, separazioni, violenze), di salute fisica e psichica, dipendenze, assenza/perdita del permesso di soggiorno ecc. che vanno a sommarsi all’assenza di competenze professionali di base, alla non padronanza della lingua italiana – non solo negli stranieri, ma anche negli autoctoni a bassa scolarizzazione –, assenza di conoscenze informatiche, destinate a una marginalità difficilmente recuperabile in un mercato del lavoro caratterizzato da selettività e produttività.

Se a queste si aggiungono anche la condizione di “senzafissadimora” (i dormitori sono aperti dalla sera alle 19 al mattino alle 9, lasciando alla strada, all’alcol e al resto le ore diurne in strada) o di persone in uscita dal carcere o da comunità terapeutiche il numero di quanti “non ce la possono fare” aumenta sensibilmente.

Una ricerca su traiettorie di vita, relazioni e lavoro nella coop Sammartini
È per supportare queste persone che è nata nel 1989 la cooperativa Sammartini, che dal 1990 opera in un capannone a Crevalcore (BO), dove vengono fatte le lavorazioni più complesse che richiedono l’uso dei macchinari e, dal 2002, ha aperto una succursale presso la parrocchia di Sant’Antonio alla Dozza a Bologna dove vengono eseguite lavorazioni più semplici, impiegando 11 dipendenti e circa 25 tirocinanti.

Ed è alle persone che operano all’interno della sede bolognese della coop che è rivolta l’osservazione del gruppo di ricerca Insight che ne ha raccolto gli esiti nel volume “In bilico. Una ricerca su traiettorie di vita, relazioni e lavoro” edito da Zikkaron[2].

L’osservazione è stata condotta da un gruppo di ricerca nato all’interno dell’Associazione Insight che si propone “di osservare, studiare, interrogare e dialogare, incontrare e coinvolgere realtà umane e sociali, con un’attenzione particolare ai contesti liminali e periferici”.

L’interesse dei ricercatori, come esplicitato già nel titolo, non è rivolto a valutare l’efficacia degli inserimenti lavorativi utilizzando dati quantitativi sulla produttività o indicatori di risultato quali gli inserimenti effettuati all’interno o all’esterno ecc., ma sceglie deliberatamente di raccogliere le storie di vita delle persone, con “la metodologia dell’ascolto attivo e in dialogo costante con le persone, i luoghi, le situazioni”.

L’osservazione nei luoghi di lavoro, sin dalle ricerche pionieristiche di Mayo degli anno ’20 del secolo scorso, non è esente dal cd ”effetto Hawthorne” (l’osservazione interagisce con la motivazione alla produttività), ma gli obiettivi, le metodologie e le relazioni intrecciate in un anno di osservazione partecipante del gruppo di ricerca – alcuni di essi hanno lavorato come volontari nella coop – sono state rivolte al vissuto delle persone intervistate e ci restituiscono un luogo di lavoro sentito come “riabilitante”, che aiuta a rammentare ferite e fratture, ad accettare i limiti propri e altrui.

Quel che emerge dalla ricerca è la combinazione di una serie di ingredienti (un atteggiamento “datoriale” paziente e benevolo, più di servizio che di comando, ma comunque sentito come autorevole, attento ai bisogni e alle difficoltà; offrire momenti di convivialità e attività ricreative e culturali nel tempo libero, il supporto nel rapporto con i servizi, nella ricerca di casa, la tolleranza verso discontinuità, la mediazione dei conflitti…), che rendono l’ambiente di lavoro un ambiente sentito come vitale, dove spesso si procede per tentativi ed errori, successi e fallimenti, ma comunque capace di cura e di attenzione a tutte e a tutti, cogliendone le difficoltà e orientandole verso forme e tempi di lavoro compatibili con le fragilità di ciascuna e ciascuno, incidendo positivamente, in alcuni casi in maniera significativa, sulle traiettorie di vita e sulle relazioni dentro e fuori l’ambito lavorativo.

Sia detto, per inciso, che la cooperativa ha come committenti anche imprese industriali importanti e la produttività intesa come qualità delle lavorazioni e rispetto dei tempi di consegna viene miracolosamente raggiunta e garantita in un contesto apparentemente poco produttivo.

Virtù teologali in contesto
Fabrizio Mandreoli, che ha coordinato la ricerca con Giorgio Marcello, nel ripercorrerne metodologie e strumenti, introduce alcune riflessioni di “teologia contestuale” che scaturiscono dall’osservazione, arricchendola di un punto di vista insolito, ma non peregrino, che mette in «connessione la vicenda delle persone che vivono in contesti marginali, non visibili e lo sguardo teologico sulla realtà».

Raccogliendo questa “provocazione”, si potrebbe provare a rileggere la ricerca alla luce delle classiche virtù teologali.

Che cosa c’entra la fede? Anche se resta sullo sfondo, cionondimeno emerge qua e là la matrice religiosa della cooperativa, come pure dell’associazione Insight, ed è interessante rilevare che, nella cooperativa come nel gruppo di ricerca, sono presenti cattolici, cristiani di altre chiese, musulmani e non credenti. Ha qualche rilevanza questa matrice sul modus operandi e nelle relazioni delle persone raccolte intorno alla cooperativa e che essa sia “espressione di una comunità monastica dove il Vangelo, e più in generale le Sacre Scritture, sono asse portante”?

È noto il rilevante ruolo sussidiario che le articolazioni caritative della Chiesa e delle congregazioni religiose, come pure il variegato mondo dell’associazionismo cattolico, hanno svolto e svolgono a supporto degli interventi sociali pubblici, soprattutto nel farsi carico degli ultimi fra gli ultimi, di quelle fragilità per le quali la multidimensionalità delle “sfighe” rende difficoltose e scarsamente adeguate le prestazioni standard offerte dal welfare istituzionale.

Dalle storie raccolte emergono invii dai servizi alla cooperativa di persone che, per varie vicende, risultano refrattarie agli interventi socio-assistenziali erogabili e non hanno i requisiti, le forze per l’avviamento al mercato del lavoro.

E, in questo, sicuramente c’entra molto la carità. La carità libera da ogni incrostazione caricaturale che l’hanno resa pelosa, la carità che non si limita a nutrire i poveri – anche se la storia del cristianesimo è ricca di donne e uomini che hanno “sperperato” i propri beni per soccorrere i poveri – ma che supporta tutte le persone perché ne riconosce la dignità e il valore di creature.

Ed è questo supplemento d’anima che rende possibile costruire e sperare un ambiente vitale alternativo a quello dei modelli di welfare anche avanzati e che diventa, nella pratica, critica dei modelli assistenziali e delle “capacitazioni” alla produttività e alla competitività.

È la carità che non si rallegra dell’ingiustizia, che tutto sopporta, non come rassegnazione passiva alle ingiustizie e alle diseguaglianze esistenti, ma perché animata dalla speranza in un regno di giustizia che si prende cura di tutte le creature, con le loro fragilità, le ferite, le miserie ed errori, le inabilità fisiche e psichiche e a ciascuna provvede con un salario svincolato da orari e produttività.

«Un giorno qualcuno ha detto “i poveri li avrete sempre con voi” non certo per rassegnarsi al peggio, ma per “inventare” con umana attenzione e dedizione, qualcosa che aiuti a vivere, a respirare, a sperare; perché ci si possa guardare in faccia senza paura, senza vergogna, senza sottintesi amari, ma con quella volontà di bene che è in definitiva espressione dell’unica resistente e convincente e coraggiosa speranza».

Questo “inno alla speranza” di Paolino Serra Zanetti, prete bolognese amico dei poveri, potrebbe essere la descrizione sintetica delle esperienze promosse e sviluppate e delle aspirazioni di quanti operano e vivono nella cooperativa Sammartini.

[1] http://www.settimananews.it/teologia/per-una-teologia-dal-basso/

[2] https://www.zikkaron.com/
Settimana News

Abuso di potere nella Chiesa

di: Domenico Marrone

Il tema dell’abuso di coscienza e di potere fu evidenziato da papa Francesco sia nella Lettera al Popolo di Dio del 20 agosto 2018 sia nell’incontro del successivo 25 agosto, durante il viaggio in Irlanda, con un gruppo di gesuiti, ha ribadito in modo simile che «l’elitismo, il clericalismo favoriscono ogni forma di abuso. E l’abuso sessuale non è il primo. Il primo è l’abuso di potere e di coscienza»[1].

Anche il motu proprio Vos estis lux mudi ha voluto includere l’abuso di autorità tra le circostanze che rendono punibile il comportamento di cui all’art. 1 §1 a)i, che parzialmente si richiama al can. 1395 §2 CIC.

La Chiesa si è a più riprese occupata del tema degli abusi, anche in tempi recenti, sia a livello di riflessione che di provvedimenti e protocolli operativi[2]. Tuttavia la rilevanza del tema ha riguardato per lo più gli abusi sessuali e psicologici nei confronti di minori da parte di ministri della Chiesa, soprattutto presbiteri. Si tratta di aspetti indubbiamente preponderanti, ma non certamente esaustivi. Un tema che non ha avuto finora sufficiente attenzione è l’abuso di potere e di coscienza.

Il tema dell’abuso spirituale non è nuovo, anche se la parola è nuova. Ci sono testi su di esso nella tradizione. Ma forse è anche vero che la nostra sensibilità oggi è maggiore. Probabilmente è cresciuta come risultato della riflessione sull’abuso sessuale, e molto di ciò che abbiamo imparato lì può essere applicato alle dinamiche in comunità e anche alla Chiesa come tale.

«L’abuso appartiene sempre a un processo di corruzione e trasformazione dell’autorità legittima in una dinamica perversa di potere, supremazia, dominio, di possesso nei confronti di una o più persone che si trovano in una situazione di vulnerabilità esistenziale e di dipendenza»[3].

A proposito di vulnerabili
I documenti civili ed ecclesiastici utilizzano le espressioni “persone vulnerabili” o “adulti vulnerabili” per indicare un particolare gruppo di persone che, a causa dell’età, della malattia o della disabilità, non sono in grado di prendersi cura di se stesse. In effetti, i documenti ecclesiastici parlano della protezione dei minori e delle “persone vulnerabili” (Francesco 2019a).

La lettera apostolica Vos estis lux mundi ha fornito la seguente definizione: «Per persona vulnerabile si intende qualsiasi persona che si trovi in uno stato di infermità, di deficienza fisica o psichica, o di privazione della libertà personale che, di fatto, anche occasionalmente, ne limiti la capacità di intendere e di volere o comunque di resistere all’offesa» (Francesco 2019b, art. 1, §2 b).

Questa definizione, che corrisponde a quella che viene definita «vulnerabilità speciale» (UNESCO 2005), si differenzia dalla “vulnerabilità radicale” in quanto indica una condizione umana comune[4]. Se non si tiene conto di questa differenza, l’espressione “persone vulnerabili” potrebbe suggerire che solo un gruppo speciale di persone sia suscettibile di abuso, mentre tutti gli altri adulti sono al sicuro.

È necessario, quindi, tenere conto della distinzione tra vulnerabilità speciale e radicale o generale. Da un punto di vista antropologico, la vulnerabilità radicale rientra nella condizione umana. Non è una carenza di un determinato gruppo, ma una caratteristica comune degli esseri umani. Deriva dal termine latino vulnus (ferita). La vulnerabilità è una possibilità, non un fatto[5]; indica la possibilità di essere feriti.

Pertanto, la vulnerabilità radicale indica la capacità di essere esposti agli altri, mentre essere esposti agli altri implica la possibilità di essere feriti. La vulnerabilità «espone gli esseri umani all’essere benedetti e feriti, al bene e al male»[6].

L’apertura agli altri implica sempre un rischio. Per questo motivo, la vulnerabilità, in quanto tale, non è una carenza. Essere ricettivi e, quindi, vulnerabili, è una condizione necessaria per un’autentica vita umana. Intesa in questo modo, la vulnerabilità radicale rende possibile l’autentico sviluppo della vita umana nell’incontro con gli altri.

Nel contesto cristiano, la vulnerabilità è una condizione per il discepolato. Chi non è aperto e colpito dalla chiamata di Gesù non è in grado di seguirlo. I discepoli devono essere aperti per essere colpiti. Infatti, Ignazio di Loyola elogia coloro che sono disposti a essere colpiti, «los que más se querrán affectar»[7]. Ancora una volta, la capacità di essere colpiti, cioè la vulnerabilità, non è un’imperfezione ma una condizione necessaria del discepolato. L’apertura agli altri rende possibile l’abuso spirituale; pertanto, le persone generose sono più a rischio[8].

Di conseguenza, l’abuso spirituale può avvenire a causa dell’apertura umana agli altri, non per una sorta di carenza da parte delle vittime. Questa conclusione rifiuta il principio sbagliato che postula che ciò che rende possibile l’abuso sono alcune caratteristiche delle persone che lo subiscono.

Nella cultura cattolica, l’aspetto istituzionale è cruciale al punto da garantire l’autorità anche di leader che non hanno qualità carismatiche. Ad esempio, i ministri ordinati e i superiori nominati hanno un’autorità riconosciuta nella Chiesa, indipendentemente dalle loro qualità personali. Questa autorità istituzionale può certamente aumentare in virtù dei doni carismatici dei leader, ma il supporto istituzionale è sufficiente a sostenere la loro autorità.

Inoltre, poiché la fede cristiana non è individualista, l’insegnamento cattolico invita il credente ad ascoltare la voce di Dio attraverso la mediazione ecclesiastica. In quanto parte del popolo di Dio, i credenti sono chiamati a vivere la loro fede e ad ascoltare la voce di Dio attraverso la Chiesa.

Alle radici del comportamento abusante
Se si volesse andare alla radice della dinamica del comportamento abusivo, penso che potremmo risalire all’antica e sempre attuale tentazione del “sarete come Dio”. In altre parole, nella dinamica dell’abuso il ministro sacro “si fa come Dio”, perché appare come il “protagonista” che possiede doni, visioni, capacità e personalità che sostituendosi e prendendo il posto di Gesù come modello, e dello Spirito Santo come “datore di vita”: è una tentazione subdola ma reale che, prendendo spunto dall’identificazione sacramentale con Cristo sacerdote, è un possibile sbocco dell’inclinazione narcisista più o meno presente in tutti[9].

Punto di partenza è dato ovviamente dalle pagine evangeliche in cui non soltanto si descrive la figura del buon pastore, che dà la vita per le pecore a differenza del mercenario, ma soprattutto si presenta la dimensione del servizio di chi è chiamato in una posizione di “preminenza”: «Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: “Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo, infatti, non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”» (Mc 10,42-45).

Non è soltanto un atteggiamento interiore ma si manifesta in modi di agire che evidenziano l’autentico servizio. Sono espressioni applicabili direttamente all’esercizio del governo che abbracciano però tutta la dimensione “ministeriale”, dal momento che anche l’attività di governo è esercitata per un fine spirituale. E non è soprattutto un mestiere o una tecnica da imparare ma un’identità ministeriale da vivere nella progressiva unione con Cristo Pastore.

La riflessione conciliare sulla Chiesa ha voluto ribadire in modo particolare questa dimensione ministeriale sottolineando che, in certo senso, proprio chi è maggiormente rivestito di autorità ha uno speciale ruolo di servizio: «Cristo Signore, per pascere e sempre più accrescere il popolo di Dio, ha stabilito nella sua Chiesa vari ministeri, che tendono al bene di tutto il corpo. I ministri, infatti, che sono rivestiti di sacra potestà, servono i loro fratelli, perché tutti coloro che appartengono al popolo di Dio, e perciò hanno una vera dignità cristiana, tendano liberamente e ordinatamente allo stesso fine e arrivino alla salvezza»[10].

Sulla stessa linea si muovono sia la costituzione apostolica Sacrae disciplinae leges con cui è stato promulgato il Codice di Diritto Canonico del 1983 sia il Catechismo della Chiesa cattolica che, al n. 876, afferma: «Alla natura sacramentale del ministero ecclesiale è intrinsecamente legato il carattere di servizio. I ministri, infatti, in quanto dipendono interamente da Cristo, il quale conferisce missione e autorità, sono veramente “servi di Cristo” (Rm 1,1), ad immagine di lui che ha assunto liberamente per noi “la condizione di servo” (Fil 2,7). Poiché la parola e la grazia di cui sono i ministri non sono loro, ma di Cristo che le ha loro affidate per gli altri, essi si faranno liberamente servi di tutti».

L’abuso spirituale
Cos’è l’abuso spirituale? Non c’è ancora una definizione precisa, che metta tutti d’accordo. Per il momento, propongo come definizione di lavoro: l’abuso spirituale è un termine collettivo o, come si dice nel mondo anglosassone, un “termine ombrello”, per varie forme di abuso emotivo e/o di potere nel contesto della vita spirituale, religiosa.

L’abuso di coscienza, o abuso spirituale, può verificarsi in qualsiasi religione o comunità di fede; tuttavia, assume caratteristiche, dinamiche e strategie diverse a seconda degli specifici contesti istituzionali in cui si verifica; pertanto, sebbene non sia un fenomeno esclusivo del cristianesimo, vale la pena studiarlo nel contesto cristiano.

Nella Chiesa cattolica, l’abuso spirituale è caratterizzato da alcuni elementi istituzionali specifici: in particolare le congregazioni religiose, il magistero universale, il diritto canonico, i voti di obbedienza, l’infallibilità papale e l’efficacia dei sacramenti; pertanto, l’abuso spirituale nel contesto cattolico merita un’analisi specifica.

Il primo problema legato alla definizione di questo fenomeno è il suo stesso nome. Il nome più comune per questo fenomeno è “abuso spirituale”, ma alcuni autori parlano di “abuso di potere spirituale” o “abuso religioso”, mentre altri usano l’espressione “abuso di coscienza”, soprattutto in ambito cattolico.

A mio avviso, “abuso spirituale”, “abuso di potere spirituale” e “abuso religioso” sono quasi sinonimi, mentre “abuso di coscienza” è un tipo leggermente più specifico di abuso spirituale che danneggia la coscienza del credente[11].

Il secondo problema è quello della definizione stessa. Come si definisce l’abuso spirituale? Quali sono le sue caratteristiche essenziali? Il libro pionieristico su questo tema è quello di Johnson e VanVonderen intitolato The Subtle Power of Spiritual Abuse (Johnson e VanVonderen 1991). In esso gli autori affermano che «l’abuso spirituale è il maltrattamento di una persona che ha bisogno di aiuto, di sostegno o di un maggiore potere spirituale, con il risultato di indebolire, minare o diminuire il potere spirituale di quella persona»[12].

Inoltre, gli stessi autori hanno fornito una descrizione: «L’abuso spirituale può verificarsi quando un leader usa la sua posizione spirituale per controllare o dominare un’altra persona. Spesso si tratta della prevaricazione dei sentimenti e delle opinioni di un’altra persona, senza tener conto di ciò che ne risulterà per il suo stato di vita, le sue emozioni o il suo benessere spirituale»[13].

«L’abuso spirituale si verifica quando un leader con autorità spirituale usa tale autorità per costringere, controllare o sfruttare un seguace, causando così ferite spirituali»[14].

Queste definizioni si concentrano su tre elementi: l’abuso dell’autorità spirituale, l’atto di approfittare di un seguace e il danno che ne deriva per la vittima. Un breve libro pubblicato nel 1994 lo descrive come segue: «Con l’abuso spirituale intendo la negazione della libertà spirituale che si attua quando si dice a una persona che c’è una sola strada per arrivare a Dio»[15]. Sebbene questa definizione sia piuttosto generica, evidenzia un tema centrale: la perdita della libertà.

L’abuso spirituale ruota intorno al potere. L’abuso non è una conseguenza del potere, ma del suo cattivo uso. La prima caratteristica dell’abuso spirituale è la violazione dei confini. La violazione dei confini spirituali viola la privacy della persona. La persona perde lo spazio protettivo che la sua dignità merita. Qui avvengono le cose più intime della vita spirituale. Le aree del forum internum e del forum externum, che dal diritto canonico sono strettamente separate, si confondono. In questo contesto l’obbedienza diventa uno strumento di potere e di dominio.

Tra la violazione dei confini e la proibizione del contatto, c’è uno spazio di mancanza di libertà, quello che Erving Goffmann chiama “l’istituzione totale” e che viene spesso citato insieme ai pensieri di Robert Lifton sul “lavaggio del cervello” o “controllo del pensiero”. La leadership è perfetta, illuminata da Dio (più o meno direttamente), quindi inattaccabile. Chiunque abbia un problema viene trasformato in un problema.

Ambito di governo e ambito della coscienza: una distinzione necessaria
Un aspetto particolarmente rilevante per il nostro tema, riguarda una distinzione fondamentale: quella tra ambito di governo e ambito della coscienza.

Per tutelare la piena libertà interiore e proteggere lo spazio sacro della coscienza, la Chiesa ha sempre promosso una netta distinzione tra foro interno e foro esterno, tra ambito della coscienza e ambito di governo. La commistione di questi ambiti è stata infatti, sovente, causa di gravi abusi di potere da parte dell’autorità religiosa.

In ambito ecclesiale è bene tenere sempre come orizzonte ultimo e irrinunciabile il rispetto della dignità della persona nella sua individualità.

Sarà opportuno vigilare sul concetto di “comunione” che non di rado viene interpretato in modo ideologico come un agire in unità perfetta di intenti e in una unanimità di scelte, provocando così l’annullamento dell’individuo in favore della comunità.

Questa “diluizione” dell’individuo nel tutto ha portato, in diverse occasioni, a considerare facilmente sacrificabili il benessere e i diritti della persona in favore degli interessi dell’istituzione. La comunione dovrebbe invece, manifestarsi nei diversi contesti quale segno della comunione ecclesiale che è analoga a quella di un corpo vivo e operante, caratterizzata dalla compresenza della diversità e della complementarietà delle vocazioni, dei ministeri, dei carismi e delle responsabilità[16].

Caratteristiche del sistema abusante
Fonti principali dell’abuso due fattori: una personalità manipolatrice (solitamente di chi ha il compito di guida), e un sistema abusivo che appartiene alla struttura stessa e alle regole e alle consuetudini di un’istituzione.

Gli aspetti che caratterizzano questo sistema sono la manipolazione delle coscienze, che viene conseguita attraverso la violazione dell’intimità della persona e l’instaurazione di rapporti di soggezione totale, e la riorganizzazione della vita individuale e comunitaria affinché tutto, assolutamente tutto, venga ricondotto e affidato a chi riveste l’autorità. Questo sistema, evidentemente, ha effetti devastanti sulla libertà della persona.

Questo apparato di manipolazione, tanto subdolo quanto efficace, spinge la persona a fidarsi unicamente di “uno”[17], a consegnarsi completamente in una relazione che diviene progressivamente, attraverso calcolati abusi di potere e di coscienza, una gabbia da cui è impossibile uscire: le vittime sono condizionate a tal punto da divenire incapaci di reagire e di assumere qualsiasi decisione autonomamente.

Le aree più colpite dal virus dell’abuso sono due:

l’area relazionale, dove emergevano sintomi problematici nella vita fraterna e comunitaria, quali incapacità a instaurare relazioni sincere e trasparenti, attitudine generalizzata alla menzogna o a nascondere la verità, sfiducia reciproca, mancanza di rispetto, giochi di alleanze, interpretazioni soggettive dei comportamenti altrui e tendenza perenne al sospetto;
l’area della gestione dell’autorità, dove emerge un diffuso pregiudizio nei confronti dell’autorità che provocava atteggiamenti di distanza, di timore o di contrapposizione ostinata verso chiunque avesse responsabilità di governo.
Alla luce di quanto evidenziato, è chiaro che risulta molto difficile se non impossibile, che un sistema abusivo venga risanato senza un intervento esterno. La presa di coscienza di questa difficoltà, ha suscitato una seria riflessione sul concetto di vigilanza nella Chiesa. È indispensabile un’attenzione costante sui mezzi, le norme, gli stili di governo, le consuetudini nella vita comunitaria e nella gestione dell’autorità, e deve implicare anche il grave dovere di intervenire tempestivamente, qualora vengano individuati elementi di corruzione nel sistema o l’uso di strumenti abusanti.

Quali gli elementi su cui è bene che l’autorità ecclesiastica vigili per non incorrere in comportamenti abusanti?

Un primo elemento è il rispetto della libertà individuale. Nessun fine, seppur lodevole, può giustificare la predisposizione di strumenti e prassi che potrebbero ledere in qualsiasi modo la dignità personale o il diritto di autodeterminazione. L’adesione a un carisma e l’ammissione in una realtà ecclesiale è la risposta libera e volontaria a una chiamata divina, e tale adesione non annulla mai la libertà personale e, di conseguenza, la responsabilità individuale. Laddove non si promuove la responsabilità personale, non si contribuisce alla salvezza delle anime, poiché l’uomo – insegna la Chiesa – può volgersi al bene solo nella libertà[18].

Un secondo elemento è la tutela dello spazio della coscienza. A tal riguardo il diritto è molto chiaro. Il Codice di Diritto Canonico dispone: «Non è lecito ad alcuno ledere illegittimamente la buona fama di cui uno gode, o violare il diritto di ogni persona a difendere la propria intimità» (can. 220). La difesa dell’intimità sancita da questo canone, da una parte, determina il divieto di imporre a chiunque l’apertura dell’animo e la condivisione della propria intimità, dall’altra, obbliga seriamente al segreto tutti coloro che vengono a conoscenza di aspetti e questioni che fanno parte dell’ambito della coscienza di un fratello.

Dall’imposizione di questo vincolo si deduce chiaramente che non è accettabile obbligare, tramite norme e regolamenti, l’apertura della coscienza ad alcuno né tantomeno risulta ammissibile mettere in comune quanto accolto in confidenza, per un malinteso senso di comunione. Purtroppo dobbiamo constatare che in non poche realtà ecclesiali la normativa ha facilitato varie forme di invasione della coscienza e dell’intimità dell’altro, innescando in vari casi abusi con esiti molto gravi a vari livelli soprattutto laddove viene regolamentata la manifestazione della coscienza ai superiori.

Per questo la Chiesa ha sempre promosso una netta distinzione tra foro interno e foro esterno, tra ambito della coscienza e ambito di governo. Proprio la commistione di questi ambiti, infatti, risulta essere una delle caratteristiche principali di un sistema abusivo giacché implica la riorganizzazione della vita delle persone affinché tutti gli aspetti della vita esteriore e interiore vengano consegnati nelle mani di chi ha il compito di governare.

Purtroppo, la cultura cattolica tende spesso ad assolutizzare la mediazione ecclesiastica e a dimenticare che essa deve interagire con altre mediazioni, soprattutto con quella della coscienza personale[19].

Cosa succede quando questa autorità spirituale sostenuta dalla Chiesa viene usata male? In che misura la Chiesa è parte dell’abuso spirituale?

Per quanto riguarda la più ampia crisi degli abusi sessuali, dell’abuso di potere e dell’abuso di coscienza, i vescovi francesi hanno dichiarato di «riconoscere la responsabilità istituzionale della Chiesa per la violenza subita da così tante vittime»[20]. I vescovi cileni hanno invece sottolineato che la responsabilità dell’abuso è degli autori[21]; tuttavia, poiché l’abuso spirituale consiste nell’uso improprio di un’autorità spirituale che, in ambito cattolico, è sempre sostenuta dalla Chiesa, non è mai una questione tra due individui, ma implica sempre una responsabilità ecclesiastica.

Ai fedeli viene insegnato a fidarsi della Chiesa e dei suoi rappresentanti. Frasi come “chi obbedisce non sbaglia” o “la voce del vescovo è la voce di Dio” sono frequenti nella cultura cattolica[22].

Narcisismo, egoismo, clericalismo, personalità manipolativa, egocentrismo e altre caratteristiche sono presentate come attributi chiave[23].

Esistono anche sistemi abusanti nella Chiesa. Ci sono istituzioni, comunità, statuti e culture cattoliche che facilitano gli abusi[24]. La cultura cattolica tende ad assolutizzare l’autorità spirituale dei suoi rappresentanti e dei suoi insegnamenti. Identificare la voce dei rappresentanti ecclesiali con quella di Dio o l’insegnamento ordinario della Chiesa con quello di Dio è un abuso.

Ad esempio, in un ambiente ecclesiale che professa un’idea rigida di obbedienza, anche se il superiore non è mosso da egoismo, può abusare della sua autorità spirituale e danneggiare gravemente i suoi sudditi. In questo caso, dietro l’abuso spirituale non c’è un individuo perverso, ma un sistema abusante. Non ci sono solo individui abusanti, ma anche strutture, pratiche, istituzioni e insegnamenti abusanti. In sintesi, l’abuso spirituale può essere causato sia da individui sia da sistemi abusanti.

[1] Cf. La Civiltà Cattolica, 4038, 449.

[2] Cf. F. Lombardi, «Verso l’incontro dei vescovi sulla protezione dei minori», in Civ. Catt. 2018 IV 532-548; Id., «Dopo l’incontro su “La protezione dei minori nella Chiesa”», ivi 2019 II 60-73; Id., «Protezione dei minori. I passi avanti del Papa dopo l’incontro di febbraio 2019», ivi 2020 I 155-166; e, infine, il volume monografico Abusi, della collana «Accènti» de La Civiltà Cattolica (giugno 2018). Per un inquadramento generale, cf. G. Cucci – H. Zollner, Chiesa e pedofilia. Una ferita aperta. Un approccio psicologico-pastorale, Àncora, Milano 2010.

[3] A. Cencini, A. Deodato, G. Ugolini, “Abusi nella Chiesa, un problema di tutti. Oltre una lettura difensiva o riduttiva” in: La rivista del clero italiano, 2019 – 4, pp. 254-255.

[4] Cf. Montero, Orphanopoulos Carolina. 2022. Vulnerabilidad. Hacia una Ética Más Humana. Madrid: Dykinson.

[5] Cf. Ivi.

[6] Langberg, Diane. 2020. Redeeming Power: Understanding Authority and Abuse in the Church. Grand Rapids: Brazos Press, p. 19.

[7] Ignatius of Loyola. 1985. Ejercicios Espirituales. Introducción, Texto, notas y Vocabulario por Cándido de Dalmases. Santander: Sal Terrae, n. 97.

[8] Lannegrace, Anne 2018. “Dérives sectaires et abus de pouvoir, une approche psychologique”. In Dérives Sectaires Dans Des Communautés Catholiques. Edited by Conférence des Évêques de France. Paris: Secrétariat general de la Conférence des évêques de France, pp. 35–57.

[9] A volte alcuni assolvono l’esercizio del proprio potere, nelle proprie “facoltà di e su”, sicuramente con carisma; alcuni con forza e violenza, o per tratti caratteriali propriamente di orgoglio o per copertura compensatoria di un Io fragile, lì dove la delirante grandiosità del Sé aveva ancor più bisogno di adulazione e di assoggettamento sociale. Secondo le teorizzazione psicoanalitiche sull’origine e l’evoluzione, con annesse eventuali forme patologiche del Sé, (e qui si veda Helnz Kohut), un Sé grandioso è la compensazione di un Io fragile, a sua volta determinato da un’inadeguata rispondenza delle figure di accudimento alle necessità fisiologiche ed emotive del bambino: la scarsa empatia e sensibilità genitoriale induce ad una frammentazione del Sé che, in parte, può ingenerare forme patologiche espresse attraverso bisogni di grandiosità ed esibizionismo.

[10] LG 18.

[11] Fernández, Samuel. 2020. “Towards a Definition of Abuse of Conscience in the Catholic Setting”. Gregorianum 102: 557–74. [

[12] Johnson, David, and Jeff VanVonderen. 1991. The Subtle Power of Spiritual Abuse. Bloomington: Bethany House, p. 20.

[13] Johnson, David, and Jeff VanVonderen. 1991. The Subtle Power of Spiritual Abuse. Bloomington: Bethany House, p. 20-21.

[14] Blue, Ken. 1993. Healing Spiritual Abuse: How to Break Free from Bad Church Experiences. Illinois: InterVarsity Press, p. 12.

[15] Linn, Matthew, Sheila Fabricant Linn, and Dennis Linn. 1994. Healing Spiritual Abuse and Religious Addiction. London: Paulist Press, p. 12.

[16] Giovanni Paolo II, esortazione apostolica post-sinodale Christifideles laici, n. 20.

[17] H. Zollner, A. Deodato, A. Manenti, G. Ugolini, G. Bernardini, Abusi sessuali nella Chiesa? Meglio prevenire, Milano 2017, p. 42.

[18] GS 17.

[19] Fernández, Samuel. 2020. “Towards a Definition of Abuse of Conscience in the Catholic Setting”. Gregorianum 102: 557–74.

[20] Conférence des Évêques de France. 2021. Résolutions Votées par les Évêques de France le 8 Novembre 2021. Lourd. Disponibile online: https://eglise.catholique. fr/sengager-dans-la-societe/lutter-contre-pedophilie/ 520492-esolutions-votees-par-les-eveques-de-france- en-assemblee-pleniere-le-8-novembre-2021/ (ultimo accesso 21/12/2021).

[21] Conferencia Episcopal de Chile. 2021. Hacia Caminos de Reparación. Orientaciones para Autoridades Eclesiásticas. Santiago: CECh, disponibile online: http://www.iglesia.cl/prevenirabusos/caminosdereparacion/ (ultimo accesso 10/1/2022).

[22] Fernández, Samuel. 2021. “Reconocer las señales de alarma del abuso de conciencia”. In Abusos y Reparación. Sobre los Comportamientos no Sexuales en la Iglesia. Edited by Daniel Portillo Trevizo. Madrid: PPC, pp. 47–65.

[23] Cf. Poujol, Jacques. 2015. Abus Spiritueles. S’affrancir de L’emprise. Paris: Empreinte.

[24] Chartier-Siben, Isabelle. 2021b. L’Arche: Walking with Our History. Disponibile online: https://cestadireweb.org/chercher-a-comprendre-les-abus/ (ultimo accesso 17/1/2022).
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Notizie attualità 4 Settembre 2022