Osservato dal punto di vista della filosofia il perdono è un “novum creativo”, è un miracolo rispetto al presente del mondo e un atto redentivo rispetto al suo futuro

Arendt

Ancora si odono, in San Pietro, gli echi dello scricchiolio degli stipiti della porta santa aperta qualche giorno fa. In migliaia già oltrepassano quella soglia in cerca di perdono e misericordia da parte di Dio. Eppure sta scritto «Siate misericordiosi come misericordioso è il padre vostro…perdonate e vi sarà perdonato» (Lc 6, 36s); del resto il Padre nostro è assolutamente chiaro sulla dinamica e sui “tempi” del perdono: «…e rimetti (àphes, rimetti adesso) a noi i nostri debiti come noi li abbiamo rimessi (aphèkamen li abbiamo rimessi e rimangono rimessi) ai nostri debitori…» (Mt 6, 12). Allora si è detto tanto, sappiamo tutto della misericordia di Dio, ma di quella umana? Io ho sempre trovato difficile digerire ogni esemplificazione a riguardo, ogni buonismo sulla facilità del perdono umano, sul darlo per scontato, perché tanto siamo cristiani. E…umani?

Sono profondamente convinto che il perdono sia uno snodo nell’animo umano, un chiasmo, in cui s’incrociano, si avvicinano e si allontanano due aspetti: quello profondamente umano e quello divino. Nel perdono umano, nella sua possibilità o impossibilità s’intrattengono infinitamente la natura umana e quella divina. È intrigante che sia stata proprio l’ebrea Hannah Arendt, in Vita activa, un’opera dall’impostazione decisamente marxista, a parlare di questo miracolo del perdono.

Per la Arendt, il compito e la grandezza dell’uomo, segnato dalla finitezza dell’esistenza, consisterebbero nel produrre azioni che possano essere degne di eternità. Con l’azione, infatti, l’uomo cerca una permanenza nel tempo, l’immortalità, essendo strettamente connessa alla nascita come evento che possiede la capacità di dar luogo a qualcosa di nuovo. Avendo il proprio fondamento nella nascita, l’azione possiede eminentemente i caratteri dell’incominciamento. Essa è quindi sempre nuova, imprevedibile nelle sue cause ed è rivelativa dell’agente che la compie.

Questo carattere di sorpresa iniziale è inerente a ogni cominciamento e a ogni origine […]. Il nuovo quindi appare sempre alla stregua di un miracolo. Il fatto che l’uomo sia capace d’azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile. E ciò è possibile solo perché ogni uomo è unico e con la nascita di ciascuno viene al mondo qualcosa di nuovo nella sua unicità.

C’è però un’altra faccia della medaglia dell’azione, la quale possiede una «processualità» gravata dal «fardello dell’irreversibilità e dell’imprevedibilità». Ogni azione, imprevedibile nel suo cominciamento, possiede delle conseguenze altrettanto imprevedibili nelle re-azioni degli individui ai quali essa si rivolge, e questo senza possibilità d’interruzione. La faccenda, del resto, si aggrava quando l’azione è violenta. Contro questa spirale dell’imprevedibilità e dell’irreversibilità dell’azione violenta c’è, tuttavia, una possibilità di salvezza nelle potenzialità dell’azione stessa.

La redenzione possibile dall’aporia dell’irreversibilità […] è nella facoltà di perdonare. Rimedio all’imprevedibilità, alla caotica incertezza del futuro, è la facoltà di fare e mantenere promesse. Le due attività si completano poiché una, il perdonare, serve a distruggere i gesti del passato […]; e l’altra, il vincolarsi con delle promesse, serve a gettare nell’oceano dell’incertezza, qual è il futuro per definizione, isole di sicurezza […]. Entrambe le facoltà, quindi, dipendono dalla pluralità, dalla presenza e dall’agire degli altri, dato che nessuno può perdonare se stesso e sentirsi legato da una promessa fatta solo a se stesso; perdonare o promettere nella solitudine e nell’isolamento è atto privo di realtà, nient’altro che una parte recitata davanti a se stessi.

L’azione del perdono, dunque, mettendo fine al circolo delle reazioni vendicative, non è per nulla un atto soccombente, di debolezza o di sconfitta, ma rappresenta la suprema libertà umana. E la Arendt riconosce l’invenzione del perdono come atto umano niente meno che a Gesù quando afferma, contro gli scribi e i farisei, che «al Figlio dell’uomo è stato dato il potere di perdonare».

L’atto del perdonare non può mai essere previsto; è la sola reazione che agisca in maniera inaspettata e che quindi ha in sé, pur essendo una reazione, qualcosa del carattere originale dell’azione. Perdonare, in altre parole, è la sola reazione, che non si limita a re-agire, ma agisce in maniera nuova e inaspettata. La libertà contenuta nell’insegnamento di Gesù è la libertà dalla vendetta che imprigiona chi fa e chi soffre nell’automatismo implacabile del processo dell’azione, che non ha in sé alcuna tendenza a finire.

In questo senso potremmo dire che l’azione del perdono, azione eminentemente umana («perché sappiate che il figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati») ha in sé qualcosa di divino: è un novum creativo, è un miracolo rispetto al presente del mondo e un atto redentivo rispetto al suo futuro.

L’azione è in effetti l’unica facoltà dell’uomo di operare miracoli, come Gesù di Nazareth […]. Il miracolo che preserva il mondo […], dalla sua normale, “naturale” rovina è in definitiva il fatto della natalità, in cui è ontologicamente radicata la facoltà di agire.

La Arendt, tuttavia, non propone il perdono come una soluzione irenica ai mali compiuti dall’uomo. Il perdono non giunge a livellare le colpe e le sofferenze da esse inflitte come una sorta di condono universale; permane il bisogno di giustizia personale. Inoltre il perdono è un’azione che resta sempre possibile, proprio perché possiede delle alternative. Infine – è una domanda! – esiste qualcosa d’imperdonabile? Se il perdono richiede la socialità umana, la colpa che consiste nel negare tale socialità forse non è per se stessa imperdonabile? «Chiunque parlerà contro il Figlio dell’uomo gli sarà perdonato, ma chi bestemmia contro lo Spirito Santo non gli sarà perdonato» (Lc 12, 10).

L’alternativa al perdono, ma non il suo opposto, è la pena, che ha in comune col primo il tentativo di porre un termine a qualcosa che senza interferenza potrebbe proseguire indefinitamente. È quindi significativo […] che gli uomini siano incapaci di perdonare ciò che non possono punire e di punire ciò che si è rivelato imperdonabile […] Tutto ciò che sappiamo è di non poter né punire né perdonare tali crimini, che quindi trascendono il dominio delle cose umane e le potenzialità del potere umano […] . Qui, dove l’atto ci priva di ogni potere, possiamo solo ripetere con Gesù: «Sarebbe meglio per lui legarsi una pietra al collo e gettarsi in mare» (Lc 17,2).

Sembra di scorgere in queste parole una profezia di quella che sarà la sorte di Eichmann il cui processo la Arendt narra in La banalità del male. Nell’epilogo in cui la filosofa cerca di definire giuridicamente il nuovo genere di crimine, quello contro l’umanità, e spregiudicatamente sfoltisce il concetto di colpa collettiva dai suoi orpelli di perbenismo, rivolta all’accusato pronuncia una sola e dura motivazione alla sua condanna a morte.

La politica non è un asilo: in politica obbedire e appoggiare sono la stessa cosa. E come tu hai appoggiato e messo in pratica una politica il cui senso era di non coabitare su questo pianeta con il popolo ebraico e con varie altre razze (quasi che tu e i tuoi superiori aveste il diritto di stabilire chi deve e chi non deve abitare la terra), noi riteniamo che nessuno, cioè nessun essere umano desideri coabitare con te. Per questo, e solo per questo, tu devi essere «impiccato».

Siamo agli antipodi del punto di partenza, nei bracci più lontani del chiasmo. La realtà, forse è che il cuore di questo chiasmo, l’uguaglianza degli esseri umani, debba essere maggiormente approfondito. Sembra che il perdono abbia bisogno di questa socialità come fondamento, e di una giustizia che non sia un condono anonimo dei mali commessi e ricevuti. Il chiasmo è aperto, c’è ancora da approfondire…

vinonuovo.it